C’era una volta a Torino. Vi racconto il mio esordio da prof…

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di Marco Guastavigna

C’era una volta una scuola media della periferia torinese.
Anzi, di estrema periferia. Estrema per la distanza – non tanto geografica quanto socio-culturale – dal centro della città, ma soprattutto per le posizioni politico-culturali di coloro che ci lavoravano.
Anzi, ci militavano, convinti allora – e molti ancora adesso – che la scuola deve e può essere luogo pubblico e dialettico di emancipazione dai condizionamenti socio-culturali di provenienza di tutt* e di ciascun*. Insegnant*compres*.

Ci arrivo a 27 anni, con 4 di esperienza da supplente di materie letterarie alle spalle, di cui quasi uno – già bello tosto, straniante e formativo – nella scuola della preside sulla cui vicenda e sui cui valori e principi è imperniata larga parte della trama di La classe degli asini.
Mi accoglie un’affascinante signora quarantenne, di cui in pochi minuti mi invaghisco perdutamente: mi affiderà la sola prima non a “tempo pieno” della scuola, su cui spenderò tutte le mie 18 ore, per italiano, storia ed educazione civica (già…) e geografia, e per attività di supporto ad alcuni scolari, in compresenza.

La preside  – entusiasta, incaricata e in qualche modo “reclutata” ad assumere quel compito da alcuni colleghi già presenti nella scuola, di cui riscuote la massima fiducia –  sottolinea che è una situazione delicata: i genitori hanno infatti accettato di iscrivere i propri figli a patto che frequentino il tempo normale, pretesto che consente loro costituire un gruppo separato.

Ringrazio della fiducia, prometto di fare del mio meglio e – dentro un me obnubilato da occhi e sorriso dell’interlocutrice – giuro che convertirò i reprobi a una frequenza più ampia.
E, in effetti, ci riuscirò. L’anno dopo la seconda E chiederà e otterrà per i due successivi il tempo pieno, ovvero una frequenza scolastica di 36 ore, con mensa e numerose compresenze tra insegnamenti.

Tra le strategie di convinzione, il viaggio di istruzione a Niella Belbo, in primavera.
Camminate, studio dell’ambiente, chiacchierate, risate. M. è però particolarmente timida e DR, la collega di Educazione Tecnica Libertaria e soprattutto Femminista, ha un idea-gioco: chi riuscirà a farle leggere il proprio biglietto ad alta voce di fronte a tutti, vincerà mille lire, che mette sul tavolo.
Partecipo anch’io e trionfo con un infantile stratagemma manipolatorio di cui ancora adesso sento il peso deontologico ed etico, perché sul mio foglietto scrivo: “Se leggi il mio messaggio, ti passo metà del premio. Il prof”.
Mentre mi adopero per recuperare i miei allievi alla dimensione collettiva ed eterogenea dell’istruzione pubblica, non solo vedo trasformata la mia supplenza in un incarico a tempo determinato presso la medesima scuola, grazie al fatto che in graduatoria si arriva ben oltre la mia posizione, ma entro in contatto con i colleghi dei 4 corsi completi (A, B, C, D) che insieme alla mia prima E costituiscono l’istituto (già… siamo alla fine dei gloriosi anni Settanta, ben prima di razionalizzazione e ridimensionamento).

Bene: alle lettere A, B, C e D corrispondono quattro modelli di sperimentazione differenti, in palese concorrenza l’uno con l’altro e assolutamente incoerenti tra di loro. Rapidamente scopro la mia ammirazione e manifesto la mia preferenza – basate entrambe sulla quantità di distanza dai canoni istituzionali e quindi da quella che io considero la “scuola della selezione di classe” – per il corso C, a cui infatti otterrò di essere assegnato l’anno successivo.
In questa occasione avrò anche modo di scoprire che – essendo la scuola a regime sperimentale – ho l’opportunità di essere confermato con una semplice domanda, a patto che le nomine annuali prevedano di arrivare fino al mio punteggio.

Eserciterò questo privilegio – da me considerato dedizione alla causa del riscatto socio-culturale dei sommersi – per altri tre anni, fino a quando il “mio” posto verrà occupato da un maledetto vincitore di concorso e sarò deportato in una scuola vicino a casa mia, il che mi sembrerà aggiungere ulteriore indegnità al mio esilio, già di per sé una atroce sconfitta.

Torniamo però al mitico corso C: due insegnanti di lettere, due di scienze e matematica, due di educazione tecnica, 1 di educazione artistica, 1 di musica, 1 di Lingua straniera e 1 di educazione fisica sono variamente sovrapposti tra loro, per modo che molte delle ore – al minimo due per giornata – permettono la divisione delle classi in piccoli gruppi, orizzontali e verticali.

Lo slogan, infatti, è “imparare facendo”: ci assiste Piero Simondo, per conto niente meno che di Francesco De Bartolomeis.
Fiori all’occhiello sono il laboratorio di fotografia (già… su carta, in B/N, con tanto di ingranditori, acidi e camera oscura) e quello di ceramica (con tornio e artigiano professionista, oltre ai prof di Educazione Tecnica e Artistica).
Io sono con un collega di Scienze a fare tipografia freinettiana, con ciclostile e telai. Le altre prof di Lettere e Matematica lavorano alla lettura e al confronto dei quotidiani, in particolare sul rapporto tra politica estera e Storia.
Nel laboratorio di stampa confluisce un po’ di tutto, ma ricordo in particolare il lavoro sulle interviste condotte in classe a giudici dei minori, educatori e assistenti sociali, per meglio capire alcune delle possibili conseguenze delle reazioni predatorie al disagio. Oppure i diari e i cartelloni sui soggiorni di socializzazione egualitaria a Levone (6 gg) e Loano (11 gg), grazie alle opportunità che le giunte di allora riservavano alle scuole della “sfiga” sociale. Oppure ancora i bollettini a proposito dei seminari del consultorio di quartiere, per la prevenzione e il benessere psico-fisico.

Ogni settimana un pomeriggio è riservato ai consigli di classe, tranne in quella in cui ha luogo il collegio docenti. Ci rappresentiamo entrambe le istanze come soviet, non capendo – o non volendo vedere – che sono in realtà palestre di retorica, in cui ci scanniamo su mille dettagli e – soprattutto – per la leadership personale, spacciata per egemonia professionale e pedagogica.
C’era una volta … e ora non c’è più: nel 1983 viene istituito il tempo prolungato, che ha un organico inferiore a quello “pieno”, mentre la popolazione giovanile del quartiere comincia la curva discendente, fino a che la scuola viene chiusa e il suo edificio viene adibito ad altre funzioni.
Per noi insegnanti comincia la diaspora.

Ora non c’è più … ma qualcosa di prezioso è rimasto: ciascuno di noi ha fatto il suo percorso da prof, ma ogni volta che ci siamo rivisti abbiamo sottolineato il fatto che lì abbiamo imparato quasi tutto quello che ci ha fatto amare questo mestiere. E odiare dai nostri successivi colleghi per la lutulenza dei nostri interventi. Soprattutto, però, ci ha insegnato come rispettare le ragazze e ragazzi, investendo sul loro futuro di cittadini e sul presente delle relazioni tra adulti e giovani.