Dalla pandemia alla sindemia. E la pedagogia? La lezione di Lancet

   Invia l'articolo in formato PDF   
image_pdfimage_print

di Raffaele Iosa

Richard Horton, direttore di The Lancet, prestigiosa rivista scientifica, ha pubblicato un editoriale lo scorso 26 settembre di grande interesse non solo scientifico ma anche sociale e politico. Per me anche pedagogico. Pubblico qui il suo breve ma ricco scritto, anticipato da un mio commento.

 

L’ abstract come si direbbe, ci dice:
“…Due tipi di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche (gli anziani): una infezione con grave sindrome respiratoria coronavirus 2 (Sars-CoV-2) e una serie di malattie non trasmissibili (NCD), tra cui diabete, ipertensione, obesità, patologie cardiache, tumori, ecc.
La combinazione di queste malattie su uno sfondo di disuguaglianza sociale ed economica accentua gli effetti negativi di ogni singola malattia. L’attuale visione clinica che mette al centro solo il vaccino è ristretta. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia…”

L’ editoriale di Horton mette in discussione l’attuale approccio “scientifico” al Covid-19 come se si trattasse di una semplice pandemia, e punta invece il dito sull’importanza delle malattie non trasmissibili nella sua diffusione, e sulla matrice sociale di queste ultime.

In sostanza: il COOVID 19 è letale in grandissima parte per quelle popolazioni relativamente povere affette da malattie non trasmissibili (in sigla NCD) quali diabete ed ipertensione, tumori ai polmoni, ecc…nella quali l’età avanzata è (per natura) l’elemento veicolante. Ma non si tratta di co-morbilità (questo termine lo riprenderò dopo), ma di “sinergia clinica” (l’un problema spinge l’altro, non si somma). Si chiama appunto sindemia.
Parola nuova, a me sconosciuta fin a ieri, che intende appunto gli effetti letali di una infezione se si “aggiunge” e accelera processi patologici già in atto. Se non ci sono patologie già in atto accentuate dall’età avanzata il rischio di letalità è quasi assente, come una normale influenza.
I giovani fumatori o diabetici non hanno ancora avuto tempo di sgretolare le loro difese immunitarie, mentre se sono in atto da molti anni è letale. Ecco perché colpisce in gran parte gli anziani, non per motivi anagrafici astratti ma per ragioni della loro storia sociale e clinica più lunga sulle diverse NCD. E dalla loro condizione economica.

Se si studiano gli effetti quanto mai differenziati della sua diffusione, a seconda che si tratti di individui appartenenti alle classi elevate (i Trump, i Berlusconi, i Johnson, etc. rapidamente riportati dalla terapia intensiva alla vita abituale, senza bisogno di alcun vaccino), e gli effetti nella più vasta popolazione, si ha la percezione che la sindemia non sia un termine come un altro ma un indicatore significativo del rapporto tra condizione fisica, storia personale e condizione sociale, fino alla stratificazione economica. E fino al destino di morte, che, come è noto non è legato solo al “caso” infettivo o all’incidente clinico ma all’intera storia di un individuo. La visione che emerge è la consapevolezza che la “salute” è una variabile legata non solo a meccanismi cellulari o microcellulari ma anche a stili di vita, abitudini elementari, abitudini igieniche, condizioni sociali ed economiche.
Per fare un esempio, è noto che l’obesità è molto più frequente nei bambini poveri che in quelli ricchi, per via di un’alimentazione di poco prezzo con cibi spazzatura ipercalorici, gli Junk food.

La lettura del COVID 19 solo come pandemia a sé non fa comprendere sufficientemente la relazione (si potrebbe dire “ecologica”) tra tutti gli aspetti dell’esistenza che producono salute o malattia, non solo quello squisitamente cliniche ma anche quelle sociali ed economiche.

E dunque, se è opportuno che si trovi il vaccino “salvifico” che ci liberi tutti (ricchi e poveri, magri e grassi) non possiamo non riflettere sul rapporto tra virus, natura, malattie, vita sociale che il caso COVID 19 ci insegna. Riconduce persino ai temi dell’educazione agli stili di vita, a quella ecologica, a quella complessivamente della responsabilità. Cioè parla anche a noi in quanto educatori.

Per affrontare Covid-19 come una sindemia servirà avere una visione più ampia, che comprenda anche l’istruzione, il lavoro, l’alloggio, il cibo, e l’ambiente.
Non sarà quindi un vaccino che ci salverà, questa volta, dalla morte e dalla crisi economica, ma anche una visione ed un approccio diverso e interagente sulla vita contemporanea, gli stili di alimentazione, mobilità, lavoro, ambiente. La crisi non è biologica, o almeno non solo, ma culturale, economica, politica, intorno ai nostri modelli di vita dominante.

SINDEMIA E PEDAGOGIA

Questa visione direi quasi “olistica” della persona e della società mi interessa, per analogia scientifica, sul tema di cui mi occupo da molti anni: quelle dei nostri alunni con disabilità. Domina da tempo una visione solo sintomatologica dei comportamenti, siglata e racchiusa in codici, sigle, scale di gravità. La centralità parossistica del “sintomo” restringe la persona in ghetti interpretativi che non comprendono l’insieme (olitstico) di ogni individuo, ma lo spezzettano in sintomi e quindi in specifiche cure. La genetica e la neuropsichiatria moderna godono con queste letture un prestigio classificatorio e terapeutico spesso illusorio, sminuendo invece strategie inclusive diverse e più consone ad una giusta vita personale (’accomodamento ragionevole della Carta Onu del 2006) e persino alla riduzione effettiva dei deficit presenti. Tormentare il sintomo e dimenticare il resto (ad esempio ciò che va) produce quell’isolazione di cui ormai parlo da anni.
E’ quanto dice Horton criticando la visione esclusivamente bio-clinica per il COVID19.

Su questo tema nel nostro paese girerebbe da quasi 20 anni un altro modello interpretativo della persona, guarda caso promosso proprio dall’OMS, chiamato ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) che interpreta la persona in chiave bio-psico-sociale. Cioè leggendo la persona nell’insieme non solo in ciò che accade in un certo organo, ma anche nelle sue relazioni sociali, negli stili di vita. Un approccio distante dai metodi sintomatologici, che stenta in Italia ad essere non solo applicato ma soprattutto “vissuto” nelle pratiche sia terapeutiche che educative. Non è un caso, al proposito, che come per il COVID 19 secondo Horton, nelle diagnosi si presentino ampiamente definizioni di “co-.morbilità” nei comportamenti di un bambino (ad esempio ADH e Disturbi oppositivi provocatori) come se la “somma” di sintomi serva ad avere più ore di sostengo o più cure e si perda invece la connessione profonda tra le due sigle diagnostiche, inerente l’insieme della persona, che ama o odia, soffre o cerca pace. La giustificazione “genetica” spesso esaltata consola babbo e mamma perché incolpevoli, ma non aiuta ad andare oltre una “terapia” asimmetrica che non ha sguardi onnicomprensivi dell’altro.

Più in generale, la teoria della sindemia ci insegna a scoprire visioni sistemiche di interconnessione tra tutti gli eventi che definiscono l’umano, in cui ad esempio quello sociale conta. Tema per certi versi scontato per chi ha una visione “progressiva e democratica” del ruolo dell’educazione, ma difficile da gestire nelle pratiche scolastiche, soprattutto quando tra scuola, servizi sociali, sanitari, famiglie, territorio si va a canne d’organo (ognuno per conto) suo e non con una visione strategica comune. Visione pedagogica e sociale che è anche politica, politica pura, su ciò che intendiamo per esempio con l’articolo 3 della Costituzione, che non prevede “diagnosi” ma “compiti della “Repubblica rimuovere…..”. Come si sa ma non si fa.

Ed ecco ora il testo, tradotto in italiano

OFFLINE: COVID IS NOT PANDEMIC
RICHARD HORTON
Published September 26 2020

Mentre il mondo si avvicina a 1 milione di morti per Covid-19, dobbiamo renderci conto che stiamo adottando un approccio quanto mai ristretto alla gestione della espansione di un nuovo coronavirus. Abbiamo inquadrato la causa di questa crisi come una malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono focalizzati sulla interruzione delle linee di trasmissione del virus, per mettere sotto controllo la diffusione di questo agente patogeno.
La “scienza” che ha guidato i governi è stata trainata principalmente da esperti costruttori di modelli di epidemie e da specialisti in malattie infettive, i quali comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria in termini di peste secolare. Ma quello che abbiamo appreso finora ci dice che la storia di Covid-19 non è così semplice.
Due tipologie di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche – una infezione con grave, acuta sindrome respiratoria coronavirus 2 (Sars-CoV-2) e una serie di malattie non trasmissibili (NCD). Queste condizioni sono raggruppate all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società.
La combinazione di queste malattie su uno sfondo di disuguaglianza sociale ed economica accentua gli effetti negativi di ogni singola malattia. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia. La natura sindemica della minaccia che stiamo fronteggiando richiede un approccio più sottile, se vogliamo proteggere la salute delle nostre comunità.

La nozione di sindemia è stata concepita per la prima volta da Merrill Singer, un antropologo medico americano, negli anni ’90. Scrivendo su The Lancet nel 2017, insieme con Emily Mendenhall ed altri colleghi, Singer ha sostenuto che un approccio sindemico porta alla luce interazioni biologiche e sociali che sono importanti per la prognosi, il trattamento delle malattie e la politica sanitaria. Limitare il danno causato da Sars-CoV-2 richiederà di dare un’attenzione di gran lunga maggiore alle malattie non trasmissibili e alle disuguaglianze socio-economiche rispetto a quanto finora è avvenuto. Una sindemia non è semplicemente una co-morbilità, una compresenza di più malattie. Le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra date condizioni [sociali e personali – n.] e stati di salute, interazioni che aumentano l’esposizione di una persona a vedere danneggiate o peggiorate le proprie condizioni di salute. Nel caso di Covid-19, attaccare le malattie non trasmissibili è un prerequisito per contenere in modo efficace la sua diffusione. Come ha mostrato il nostro NCD Countdown 2030 pubblicato di recente, sebbene la mortalità prematura da malattie non trasmissibili stia scendendo, il ritmo del cambiamento è ancora troppo lento. Il numero totale delle persone che vivono con malattie croniche sta crescendo.

Affrontare il Covid-19 comporta affrontare l’ipertensione, l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari e respiratorie croniche, e il cancro. Prestare maggiore attenzione alle malattie non trasmissibili non è una priorità solo per le nazioni più ricche. Le malattie non trasmissibili sono una causa trascurata dei cattivi stati di salute anche nei paesi più poveri. Nella loro Lancet Commission, pubblicata la scorsa settimana, Gene Bukhman e Ana Mocumbi hanno descritto un’entità da loro chiamata NCDI Povertà, che aggiunge ferite a una serie di malattie non trasmissibili — condizioni come morsi di serpente, epilessia, malattie renali, e anemia falciforme. Per il miliardo di persone più povere nel mondo di oggi, le NCDI rappresentano oltre un terzo del loro carico di malattie. La Commissione ha mostrato come la disponibilità di interventi sostenibili ed economici potrebbe scongiurare nel prossimo decennio quasi 5 milioni di morti tra le persone più povere del mondo. E questo senza considerare la riduzione del rischio di morte a causa di Covid-19.

La conseguenza più importante di inquadrare Covid-19 come sindemia è quella di sottolineare le sue origini sociali. La vulnerabilità dei cittadini più anziani; dei neri, degli asiatici e delle “minoranze etniche”; nonché dei lavoratori che sono in genere mal pagati e hanno meno protezioni sociali, sottolinea una verità che è stata finora a stento riconosciuta – e cioè che non importa quanto sia efficace un trattamento o sia protettivo un vaccino, la ricerca di una soluzione puramente biomedica a Covid-19 non avrà successo. A meno che i governi non individuino politiche e programmi per invertire le profonde disparità sociali oggi esistenti, le nostre società non saranno mai realmente al sicuro da Covid-19. Come hanno scritto Singer e altri colleghi nel 2017, “Un approccio sindemico fornisce un orientamento molto differente alla medicina clinica e alla salute pubblica dimostrando come un approccio integrato alla comprensione e al trattamento delle malattie può avere molto più successo di un semplice controllo della [diffusione della] malattia epidemica o della cura dei singoli pazienti.” Aggiungerei un ulteriore vantaggio. Le società hanno bisogno di speranza. La crisi economica che avanza verso di noi non sarà risolta da un farmaco o da un vaccino. È necessario nulla di meno di un risveglio nazionale. Affrontare Covid-19 come una sindemia ci inviterà ad avere una visione più ampia, che comprenda anche l’istruzione, il lavoro, l’alloggio, il cibo, e l’ambiente. Al contrario inquadrare Covid-19 alla stregua di una semplice come pandemia, ci impedisce di avere uno sguardo più ampio e necessario.