L’ora di lezione, tra mito e idealismo

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di Mario Maviglia

Nel recente Manifesto per la nuova Scuola (sottoscritto da noti intellettuali quali, tra gli altri, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky), tra gli otto punti elencati per rilanciare il ruolo della scuola compare anche la centralità dell’ora di lezione a cui viene dedicata una particolare enfasi.
Vi si legge infatti: “Dopo vent’anni di devastanti riforme, occorrerebbero interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale”.
Sarebbe facile fare dell’ironia sottolineando che i promotori del Manifesto hanno dimenticato di aggiungere che per restituire centralità all’ora di lezione “disciplinare” è indispensabile disporre di una cattedra posta sopra una pedana, come avveniva qualche decennio fa, perché in questa modo viene esaltata ancor più la sacralità della lezione, ancorché in un contesto laico. Ci si potrebbe spingere oltre dicendo che in quest’idea sacrale di lezione si intravede lo Spirito che diventa atto, ossia un agire dello Spirito, per usare termini cari a Gentile.

Nessuno vuole misconoscere l’importanza che la lezione riveste nell’economia degli interventi didattici, ma, per come viene presenta dai promotori del Manifesto, si intravede una concezione alquanto ingenua, se non idealistica, della lezione stessa, che non tiene conto di cinquant’anni di ricerca culturale, psicopedagogica e didattica. Già l’insistenza sulla lezione “disciplinare” spazza via tutti i richiami ad evitare la compartimentazione e il frazionamento del sapere, inducendo – come sottolinea Morin[1] “a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare”.
Tutto ciò porta a una divaricazione e tra “i saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra” [2].
È facile immaginare la fenomenologia didattica della centralità dell’ora di lezione disciplinare così come agognata dai promotori del Manifesto: un susseguirsi di docenti, nel corso della giornata scolastica, ognuno dei quali trasmette il suo sapere disciplinare agli studenti senza alcuna preoccupazione di costruire collegamenti e ponti con le altre discipline. Ovviamente, in questa rappresentazione, gli studenti sono tutti in estatico assorbimento del sapere magistrale, attenti e disponibili a fare da anello terminale di questo processo di transfer cognitivo che vede il docente-sacerdote elargire il suo sapere.

Questa narrazione non farebbe una piega se non trovasse due limiti sostanziali: la realtà concreta del fare scuola e, soprattutto, la realtà concreta degli studenti in carne ed ossa. È infatti noto, a chi ha qualche conoscenza diretta della scuola, che i livelli di attenzione degli studenti non sempre garantiscono una tenuta adeguata su tutte le quattro-cinque ore mattutine di lezioni disciplinari. In questo caso l’opera meritoria dell’agire dello Spirito rischia di essere compromessa dalla volgare, prosaica e ahimè reale esigenza dei corpi che recalcitrano, si distraggono, reclamano pause cognitive.
Va poi tenuto presente che non tutti gli studenti si trovano a loro agio con la comunicazione verbale, preferendo altri canali (motori, iconici, prassici). Una volta tutto ciò andava sotto il nome di stili cognitivi e una competenza specifica dell’insegnante consisteva proprio nel modulare il suo intervento in modo da intercettare, per quanto possibile, tutti i diversi stili cognitivi degli allievi. (Si rinvia alle opere di Jerome Bruner su questo). La lezione, classicamente intesa, azzera queste differenze ed enfatizza la produzione orale.

Connesso a quanto appena detto, c’è un altro aspetto che va considerato e che i nostalgici della centralità della lezione disciplinare hanno trascurato: più che di “lezione” occorre parlare di interventi didattici e formativi variamente connotati. Le attività didattiche svolte in forma laboratoriale sono da considerarsi lezioni in senso classico? E i lavori svolti in gruppo? E la realizzazione di un progetto didattico? E alcune metodologie di coinvolgimento attivo degli studenti come la flipped classroom o il debate? Ma già immaginiamo l’espressione inorridita e disgustata dei puristi della lezione: queste attività andrebbero vietate perché sottraggono ore preziose al vero fare scuola che si realizza solo nel momento in cui si svolge il rito della lezione. Ma forse sotto c’è un altro motivo: la lezione rappresenta l’esaltazione della centralità del docente, il suo potere (cognitivo e non solo). Dare spazio al protagonismo degli studenti (se se ne è capaci, ovviamente), mette in crisi questo paradigma e offusca l’immagine del docente-sacerdote. Lo Spirito che diventa atto potrebbe soffrirne.

[1] E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 7
[2] Ivi, p. 5