Autonomia e libertà. Un ricordo di Giulio Giorello

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Stefaneldi Pietro Calascibetta

In questi giorni il mondo della scuola festeggia Edgar Morin ricordandone il pensiero cha ha avuto una grande influenza su tutta una generazione di insegnanti. Un altro filosofo che ha ispirato la formazione di molti docenti è stato Giulio Giorello, purtroppo morto prematuramente poco più di un anno fa.
Desidero ricordarlo approfittando della recente la pubblicazione a cura di Antonio Carioti del volume dal bel titolo “Le avventure della libertà” che raccoglie i suoi contributi per #laLettura , supplemento culturale del Corriere della Sera.
Carioti nella prefazione tiene a sottolineare come il rapporto con Giorello non fosse stato casuale , ma frutto di una scelta precisa perché Giorello era la firma più adatta per collaborare ad un progetto culturale come quello de “la Lettura” che voleva «combinare il sapere umanistico e quello scientifico […] contaminare espressioni culturali elitarie e produzione per il consumo di massa».
Un progetto, continua Carioti, che «sembrava cucito su misura per Giulio Giorello […] perfettamente in grado di sparigliare il gioco, trovando sempre lo spunto per incuriosire il lettore o per cogliere nessi tra argomenti apparentemente distanti, con una versatilità più unica che rara».
Da dove derivava tutta questa poliedricità nell’approccio alla conoscenza?


Nella seconda di copertina troviamo una presentazione che in modo sintetico ce ne dà una spiegazione molto efficace che per questo motivo riporto integralmente.
«Eclettismo, apertura al nuovo e ai fenomeni di massa, contaminazione tra scienza e umanesimo, rifiuto di ogni schematismo. In una parola, libertà. Questa è stata la cifra intellettuale di Giulio Giorello, che ha reso la sua attività culturale un’avventura continua, fatta di incontri, sorprese, slittamenti dei punti di vista, in una pratica della ragione estranea a ogni dogmatismo e rigida appartenenza».

Leggendo questa biografia-lampo e ricordando sullo sfondo il pensiero di Morin a cui accennavo, mi viene spontaneo dire che queste parole potrebbero ben descrivere in modo semplice e chiaro ciò che una scuola dovrebbe fare e che Giulio Giorello personificava nella sua attività accademica e di divulgazione.
Spiazzare gli studenti, trovare il modo di incuriosirli, avere una visione olistica dei saperi, affrontare i classici senza disdegnare gli autori contemporanei, essere aperti al nuovo cercandone le valenze culturali e i nessi con il passato e le opportunità per gli sviluppi futuri, avere un atteggiamento non dogmatico nei confronti delle varie teorie pedagogiche e didattiche cercando di usarne le valenze e le possibilità in base ai bisogni degli studenti che di volta in volta si hanno davanti.
Insomma una scuola come laboratorio della conoscenza e della ricerca didattica applicata in cui sia possibile ai docenti accompagnare gli studenti in un’esplorazione dei saperi fuori da schemi precostituiti crescendo insieme a loro e arricchendosi anche sul piano professionale.
Utopia? No. Una forma-scuola che ha trovato la sua incubatrice nelle scuole cosiddette sperimentali degli anni ’70 e che ha trovato poi nell’autonomia scolastica la sua dimensione ordinamentale e proprio nella sperimentazione la sua dimensione metodologica, almeno nelle intenzioni del legislatore.

A questo punto ho ripensato al rapporto privilegiato che l’Istituto sperimentale Rinascita Amleto Livi di Milano ha avuto la fortuna di avere negli anni proprio con Giulio Giorello e mi sono reso conto di come questo incontro non sia stato casuale, come non lo era stato per “la Lettura”, perché il progetto di sperimentazione aveva diversi punti in comune con questo suo approccio alla conoscenza così ben descritto nelle righe precedenti.
Per cominciare la scelta culturale di dare pari dignità al curricolo scientifico e a quello umanistico a cui è corrisposta sul piano strutturale la scelta di assegnare lo stesso numero di ore curricolari ai rispettivi insegnamenti delle due aree e la creazione di un impianto orario, grazie al tempo pieno, in cui erano possibili occasioni di contaminazione interdisciplinare in copresenza tra i docenti in ambienti di apprendimento laboratoriali per consentire agli studenti di trovare o meglio scoprire in un lavoro individuale e di gruppo i nessi tra le diverse conoscenze, prendere consapevolezza di quelle mancanti da ricercare e, nel fare ciò, acquisire nuove competenze di studio per procedere poi con sempre maggior autonomia nell’esplorazione del sapere.
Ricordo che diverse sono state le occasioni di incontro con Giorello sia in occasione di workshop di formazione dei docenti, sia nella collaborazione con le iniziative promosse dalla scuola come quelle nate nell’ambito del progetto di rete di scuole “ Scienza under 18” promosso da Rinascita per aiutare le scuole a trovare nuove strade per valorizzare la cultura scientifica attraverso il protagonismo degli studenti.
Preso da queste suggestioni mi è venuto alla mente un intervento di Giulio Giorello sull’importanza della flessibilità e della sperimentazione nella scuola.
«L’adattamento presume la passività e il conformismo – diceva in quella occasione – mentre la flessibilità presuppone la voglia di cambiare, la libertà di cambiare, senza la quale le altre libertà vengono meno » Citando espressamente, come faceva spesso, il suo amico e maestro Ludovico Geymonat , anche lui come Morin filosofo e combattente partigiano che ben conosceva la libertà come valore e come condizione indispensabile alla formazione della persona.
Parole importanti e significative quelle di Giorello mi sono detto, in un momento in cui qualcuno si domanda se non sia il caso di tornare alla scuola di gentiliana memoria eliminando i progetti “distrattori”.

L’intervento a cui mi riferisco è quello svolto al Convegno nazionale del marzo 2017 tenutosi all’IRRE Lombardia dal titolo ”RICERCA DIDATTICA SPERIMENTAZIONE E PROFESSIONALITA’ DOCENTE.
Il protagonismo degli insegnanti per rispondere alle nuove esigenze della società” .
Un convegno organizzato dall’Istituto sperimentale “Rinascita A.Livi” di Milano con “Scuola città Pestalozzi” di Firenze e “Don Milani” di Genova per proporre all’attenzione del mondo della scuola l’opportunità di assegnare , nel nuovo quadro normativo dell’autonomia, un vero e proprio ruolo di sistema alle scuole sperimentali “storiche” esistenti già prima della riforma in collaborazione con quella che avrebbe dovuto essere l’ Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica poi ahimè abortita sul nascere con un’operazione di “palazzo” . Uno degli innumerevoli “inciampi” alla piena attuazione della riforma.

Consapevoli per esperienza diretta dell’assoluta necessità di avere almeno un’ipotesi progettuale degna di questo nome per guidare le scelte strutturali e organizzative da tradurre in un’offerta formativa , la rete delle tre scuole riteneva che l’esperienza organizzativa di gestione della flessibilità di queste “avanguardie” e di altri istituti con percorsi simili, sarebbe stata utile per sostenere nei vari territori tutte le scuole nell’attuazione proprio dell’autonomia di “ ricerca, sperimentazione e sviluppo”, come recita il dettato dell’art, 6 del Regolamento attuativo, che poi è il vero cuore della riforma in quanto la sola autonomia didattica e organizzativa si trasforma in un esercizio di ingegneria e il POF un menù di offerte nel mercato delle utenze in mancanza di un’ipotesi progettuale solida e specifica predisposta dai docenti di ciascun istituto con la propria comunità scolastica da sperimentare per il successo scolastico dei propri studenti.
Ho riascoltato allora per intero l’intervento di Giorello estrapolandone alcuni passi che mi sembrano particolarmente significativi alla luce del dibattito odierno per comprendere la valenza dell’autonomia come strumento di libertà progettuale non tanto per il singolo docente, ma, ed è questa la novità, per ciascuna comunità scolastica.
Un contributo prezioso per comprendere meglio che qui si tratta della libertà di trovare le modalità più adatte per raggiungere un obiettivo comune e non la libertà di fare ciò che si vuole.

« La libertà di sperimentare è una libertà molto preziosa per la scuola – sottolinea con passione Giorello – e credo che questa libertà debba essere con coraggio e con decisione rivendicata da queste tre componenti della scuola: gli studenti, gli insegnanti e le famiglie »
Una sperimentazione non fine a se stessa ma motivata dal fatto che la scuola non può essere solo custode del passato, ma deve essere in grado di rendere gli studenti consapevoli che la conoscenza è in continua evoluzione, da qui la necessità di un incessante rinnovamento dei contenuti, «basterebbe guardare appunto alla storia della fisica o alla storia della biologia – incalza Giorello – per renderci conto di come siano emersi nuovi problemi e come i contenuti stiano cambiando. Certo non puoi fare una riforma permanente dei contenuti cambiandoli ogni giorno, né tantomeno stabilire una serie di norme che regolino i comportamenti di docenti ed insegnanti che vengono cambiati col ritmo della rivoluzione permanente, per citare la battuta di Lev Trockij, però qualcosa si può fare, io – aggiungeva – me ne rendo conto di nuovo con la mia esperienza personale. […] un problema sarà quindi sicuramente quello dell’aggiornamento dei contenuti».

In questo compito Giorello sottolineava l’importanza di ripensare il rapporto tra università, luogo anche di ricerca disciplinare, e la scuola che ha bisogno di essere alimentata in progress dall’evoluzione della conoscenza anche in funzione orientativa e motivazionale per i propri studenti facendo nascere interessi e stimolando talenti. Un rapporto però da stabilirsi non sotto forma di adesione passiva ai rituali accademici, ma flessibile nelle modalità e nell’approccio in base ai bisogni delle singole scuole. Non a caso il Regolamento dell’autonomia prevede, accanto all’autonomia di sperimentazione, ricerca e sviluppo , l’autonomia nel creare reti e convenzioni con università, Enti e associazioni (art. 7).
Giorello vede la flessibilità per la scuola non solo come una condizione possiamo dire insita nello sviluppo del pensiero e nella metodologia di insegnamento, ma come un diritto vero e proprio.
Nell’intervento al Convegno per introdurre questo concetto prende spunto da cosa accadeva nelle università medievali. «Quando un gruppo con un maestro non si trovava a suo agio in un contesto prendeva e andava a sperimentare altrove, questo è un elemento molto bello ed è bello che sia nato nel mondo della scuola. Il “diritto di exit” è secondo me è una delle componenti fondamentali di una società aperta e democratica, certo è una componente di libertà che va gestita in modo responsabile […], il “diritto di exit” va pesato rispetto ad altri diritti come l’assenza di danno agli altri […] quindi ci sono problemi estremamente intriganti, ma il cercare una proliferazione di esperimenti in uno spirito di autonomia mi sembra un elemento che lega la nostra scuola o almeno dovrebbe legare la nostra scuola a una tradizione profonda libertaria che ha costituito il meglio dell’esperienza europea nel senso di Husserl».

Avviandosi alla conclusione del suo intervento, Giorello non poteva essere più chiaro rispetto all’importanza della libertà di sperimentare scegliendo non a caso una frase di Patrick Pearse, un leader nazionalista irlandese, poeta ed educatore che alla libertà aveva dedicato la sua vita in quanto fu fucilato dagli inglesi dopo il fallimento dell’insurrezione del 1916 di cui era stato uno dei promotori.
Pearse, spiga Giorello, « aveva definito una scuola in cui i programmi burocrati uccidono la spontaneità di insegnanti e di studenti una specie di” murder machine” cioè di macchina per uccidere. La sua risposta era stata quella di un continuo tentativo di aprire in più direzioni, di far vivere le alternative. Allora – continua Giorello portando un esempio – c’erano i sostenitori della Celtic revival che dicevano : “Insegniamo le grandi favole, le epiche dei Gaelici nella nostra scuola!” e quelli che invece dicevano “No, insegniamo geometria per esempio la dura geometria di Euclide!” e Patrick Pearse rispose loro “ Perché non tutte e due!”».
Il messaggio finale è un auspicio . « Questo tipo di exit – conclude – se diventa un abito intellettuale è qualcosa che impedisce alla nostra scuola di diventare solo una macchina per uccidere la creatività, la spontaneità degli studenti e la volontà di cambiare dei nostri migliori insegnanti.”