L’opinione non è matematica. O forse sì

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di Marco Guastavigna

Sono giunto in quella fase della vita in cui per forza di cose si sostituiscono i buoni consigli al cattivo esempio.
Sollecitato mio malgrado dall’ennesima polarizzazione tra apocalittici e integrati a proposito del Green Pass, non posso quindi assolutamente esimermi dal proporre come esempi generali episodi specifici ed esclusivi della mia vicenda personale.

Nell’inverno del 1968 ero sedicenne e mi sono precipitato, insieme a numerosi altri giovani, alcuni dei quali maggiorenni, a “soccorrere” le vittime del sisma del Belice.
La nostra grandiosa missione umanitaria faceva riferimento all’Associazione “Babbo Natale”, che – per ragioni che ora mi sfuggono – ci aveva reclutato presso la sede di Economia e Commercio.
Siamo partiti con un aereo postale, con a bordo niente meno che la troupe di TV7, che ci intervistò durante il volo, in occasione dell’atterraggio e nei primi giorni di attività. Per partecipare ci erano state poste due condizioni: per i minorenni il consenso genitoriale, per tutti l’ingestione di alcuni farmaci, per esempio pastiglie atte a prevenire il tifo. Nessuno obiettò nulla e in questo modo potemmo accedere al campo dove erano ospitati i “terremotati”, organizzato e gestito dall’esercito.

Cinque anni dopo, nell’estate del 1973, mi sono trovato a Torre del Greco nel pieno dell’epidemia di colera. Invece di tornare subito a Torino, mi sono autoisolato per un tempo congruo in Toscana, in un appartamento di proprietà di mio padre, dove in quel momento non c’era nessuno. Non avendo accusato alcun sintomo, sono poi rientrato nella mia residenza e ho ripreso l’usuale rete di relazioni.

È di qualche anno dopo il mio ingresso come insegnante di scuola media nell’istruzione pubblica: per arruolarmi, lo Stato mi chiese di dimostrare, attraverso opportuni accertamenti sanitari, di non essere portatore di sifilide e di tubercolosi. Rammento un po’ confusamente di aver alacremente partecipato a una sorta di vertenza sindacale sulla inutilità del secondo test, che – sostenevamo – proponeva numerosi falsi positivi. Ricordo con precisione che – essendo invece risultato negativo – accettai la proposta di vaccinarmi, il che mi avrebbe fornito una copertura medico-legale più duratura.

Nel febbraio di quest’anno, infine, ho avuto la possibilità di prenotarmi per la vaccinazione contro il Covid19 in quanto docente a contratto dell’Università di Torino. Ho così ricevuto la prima dose di Astrazeneca il 27 marzo e la seconda il 13 giugno, per poi scaricare qualche giorno dopo il mio Green Pass mediante l’App IO.
Non ho mai parlato molto di questa vicenda perché mi sono sentito fin da subito un privilegiato, soprattutto nel periodo in cui, per la somministrazione del farmaco, l’appartenenza a categorie professionali prevaleva sulle classi di età. E proprio per questo ho provato un grande sollievo quando ho saputo vaccinati mia madre, i miei figli, mia moglie, mia sorella e così via.

Ho cercato di informarmi in modo ragionevole e razionale: ho capito che il ciclo completo non dà una garanzia assoluta contro il contagio individuale, ma anche che solo una diffusa vaccinazione può aumentare la quantità totale degli immunizzati e, di conseguenza, indebolire il virus e la sua capacità di variare. Con beneficio anche per coloro che per riconosciute “fragilità” personali non possono essere vaccinati.

Insomma: la mia storia individuale mi porta con facilità e serenità ad accettare che la Repubblica mi chieda (di nuovo, per altro) comportamenti virtuosi e accertamenti sanitari per poter continuare a garantire con una certa sicurezza movimento, lavoro, intrattenimento, socialità, relazioni all’insieme dei cittadini.

E qui interviene probabilmente un approccio – forse filosofico, forse politico – che appartiene ad un’altra componente della mia vita: valori e principi. Io penso infatti che la mia libertà personale può trovare pieno compimento e valore solo contribuendo a determinare e conservare quella altrui. E viceversa.
Non mi è mai piaciuta la visione liberale pura, quella che considera le libertà individuali l’una come limite dell’altra e aborro la visione libertariana di destra, per cui tutto ciò che è pubblico e collettivo rappresenta l’inferno del controllo, a cui ci si deve sottrarre con ogni mezzo.

Certo, i miei precedenti sono anteriori alle normative sui dati “sensibili” e sulla riservatezza attualmente in vigore, ma – francamente – non mi pare che una politica di prevenzione sanitaria sia accusabile di violazione della privacy sulle condizioni di salute personali.

In tutti i casi, lascio questo specifico quesito a chi conosce meglio di me questo campo e – da bravo anziano che si sente (più) saggio – ne propongo un altro: come mai ogni infuocatissimo dibattito ha luogo ormai su piattaforme digitali a vocazione estrattiva, che mettono a valore in tempo reale dati psicobiologici, rapporti interpersonali, opinioni, preferenze, desideri, spostamenti, acquisti, orientamenti politico-culturali, appartenenze e così via, consegnati con flusso costante e continuo da utenti che all’atto dell’iscrizione e in occasione dei successivi rinnovi hanno sottoscritto (senza leggerle) condizioni di impiego fondate – nonostante per esempio il GDPR – sulla prospettiva della trasparenza radicale?

Francamente, questo sempre più esteso processo di appropriazione “gentile” delle vite di tutti mi inquieta assai di più della possibilità che mi venga richiesto il Green Pass per cenare in un ristorante, cosa che – e Google Opinion Rewards lo sa bene – non faccio quasi mai.