Ridatemi la mia vecchia cattedra (ancora a proposito del “danno scolastico”)

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di Antonio Valentino

Nelle scorse settimane su queste pagine sono stati pubblicati due articoli, diversamente interessanti, sull’ultimo libro della prof.ssa Paola Mastrocola: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, scritto, assieme al sociologo Luca Ricolfi.
Il primo, di Franco de Anna, già nel titolo: https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2021/10/15/signora-mia-non-ce-piu-la-scuola-di-una-volta-la-ragione-astuta-del-sociologo-illustre-e-famiglia “Signora mia, non c’è più la scuola di una volta”, ne fa largamente intuire l’argomento e il suo punto di vista. Il secondo, di Mario Maviglia: “Che disastro la scuola progressista! Non ci sono più gli ignoranti di una volta”, parte dall’articolo di De Anna  per riprendere e sottolineare alcuni aspetti che gli stanno a cuore. I due articoli, felicissimi nei titoli e stuzzicanti nei contenuti, mi hanno richiamato un ‘pezzo’ ironico-satirico di Aristarco Ammazzacaffè (“Ridatemi la mia vecchia cattedra), – pubblicato su Scuolaoggi.org nientemeno che nell’agosto del 2007 – dedicato ad uno dei libri più recensiti dell’Autrice: La scuola raccontata al suo cane.
Col permesso dell’Autore, ora in pensione, se ne ripropone la pubblicazione (con qualche taglio per asciugare il ‘brodo’), perché aiuta a capire che il vertiginoso universo pedagogico e professionale, e anche politico e sociale, dell’Autrice viene da parecchio lontano. Nella nuova pubblicazione, se ne consolida volteggiando la sua formidabile weltanshauung (come la Nostra preferirebbe dire).

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Prima, un illustre giornalista, che, ogni tre per quattro, su la Repubblica, la cita, nei suoi articoli illuminanti sulla scuola, per ricordarci che, proprio la scuola, non è più, purtroppo, quella di una volta (come le stagioni: che peccato!); poi, addirittura Piero Citati, che, sullo stesso quotidiano, fa riferimento al suo-di lei libro: La scuola raccontata al suo cane, richiamandone moderno pensiero e piacevolezza. Se ne può dubitare?

Si sta parlando della Prof.ssa Paola Mastracola e della sua ultima pubblicazione: La scuola raccontata al suo cane.
Tanto che mi sono detto, partendo per le vacanze: ‘non può sfuggirmi’.
Così me lo sono comprato – il libro plurirecensito -, che ho letto molto divertito (sono di gusto rilassato), e poi riletto per farmene una ragione.
Ho fatto così finalmente conoscenza con l’Autrice che, tra l’altro, vengo a sapere, è insegnante di Lettere in un Liceo scientifico.

Il libro è veramente di quelli che alla fine uno non sa “se ridere o piangere o batter le mani”, a dirla con Gaber.
Io, a lettura conclusa, ho fatto tutte e tre le cose insieme; e capirete il perché.
Perry Bau – questo il nome del cane destinatario delle sue confidenze – nel racconto non compare subito. Bisogna aspettare oltre 30 pagine di divagazioni – alle quali l’autrice è genialmente portata – nientemeno che sulla scomparsa del mestiere di insegnante. Tanto che si intuisce da subito che la Nostra è una vera maga!
Poi però Perry Bau finalmente compare e lei gli spiega tutto, al cane.

Ma a noi qui interessa considerare il cuore della sua ricostruzione e riflessione, che è la scuola dell’autonomia. Nella quale lei vede essenzialmente – con sfumature da notte tempestosa – il precipitato di un evento vissuto come delittuoso, perpetrato nell’ultimo decennio: la distruzione … della sua cattedra di lettere (cattedre di 14-15 ore più 4-3 a completamento). E quindi del suo insegnamento. Dice.
E con esso, più concretamente – ma il nesso si dà per scontato – l’impossibilità, il primo giorno di scuola, di presentarsi ai propri studenti (come faceva quando non c’era ancora l’autonomia) e di leggergli, per ben cominciare, brani dell’Eneide: ovviamente in latino e con tanto di lettura metrica.
Solo per mettere le cose in chiaro.
Ed è qui che nascono le puntualizzazioni più felici e creative della sua idea di scuola e del suo modello di insegnante; ma anche di nozioni chiave, come ad esempio motivazione.
La quale, per la Nostra, rappresenta oggi – e lo motiva sapientemente – una delle piaghe più terribili della pratica scolastica (pg. 133 – controllare, prego). Sul punto però devo confessare di aver avuto più di un dubbio: se andasse più apprezzato la forza espressiva delle parole messe lì o l’abbondanza del giudizio. O il volteggiar della cultura. Mah!  Vedete un po’ voi, se vi capita la fortuna di leggere queste pagine.

Nel merito poi la Prof puntualizza con vigile opportunità – mi sentirei di dire – che lei, quando frequentava le Superiori, non aveva bisogno di motivarsi e, soprattutto, non perdeva tempo a partecipare alle battaglie per una scuola nuova (erano gli anni 70). E non vi partecipava per una principale nobile ragione.
Penserete: aiutava – premurosa – il padre al panificio. Oppure faceva giocare i bambini all’oratorio della Parrocchia. O, anche, soccorreva la zia – poverina – in ospedale per un incidente. No. Lei scriveva poesie. Sublime!
Quasi come l’accostamento, che la sua perspicacia le suggerisce, di ‘motivare’ a ‘mortificare’.
“Il verbo mortificare mi piace molto” afferma compiaciuta. Ed è veramente tantissimo, a pensarci!
Ed è a questo punto che soprattutto non sai ‘se ridere o piangere o battere le mani” (io comunque sono per ‘batter le mani”: è liberatorio!).
E spiega l’accostamento col fatto che lei non può mica passare il suo tempo a convincere una classe che deve studiare. E cos’è studiare poi per un vero prof.– si chiede e si risponde – se non “farli studiare”, gli studenti, e “farli star fermi immobili su una cosa”.

“Voi non ci crederete, ma è vero”, sembra che abbia intonato Celentano invitato alla presentazione del libro (Sull’episodio però la fonte non è sicura).  
Comunque, roba da standing ovation.
Se qualche dubbio può venire per qualche sua affermazione ‘oltre’ (capita), rassicura subito la sua convinzione che l’insegnante è la materia che insegna. Che è una identificazione che non so come definire; pensateci voi, ma senza ricorrere a parole pesanti, please.
Se si vuole puoi andare più nello specifico sul profilo docente, allora la Nostra ha ben tre modelli da proporci: tre suoi Maestri di quando era studentessa. Il primo, che “declamava il testo per aria” (sic), e tutti in classe incantati e con la bocca aperta; il secondo, femmina, “che ci parlava di libri, di poeti, di Parigi” (ma scusi, Prof.: e il programma?); il terzo, trentenne, “che amava soprattutto Dante” (ma era messo così male?); e a tal punto che ogni giorno, dopo la scuola, andava a studiare a casa il suo Dante (mica a fricchettare con la sua ragazza o a giocare a ping-pong o a calcetto, come facevano i tanti suoi altri amici buontemponi. (Vergogna!).

Modelli certamente invitanti. Pensateci, se ne siete a corto.
Comunque il suo obiettivo polemico – e finiamola qui – sono i suoi colleghi che puntano tutto, niente meno che sulla comunicazione. E non si rendono conto – volteggia la Prof. – che dicendo che la scuola è il luogo dove si impara a comunicare dicono una cosa molto grave. E sconclude: “ È una affermazione pesante, una decisione epocale”.
Proprio così; tanto che a uno gli scappa: Ma va! O anche: Ma mi faccia il piacere!
Che però son cose che bisogna saper dire.
Ma dove si trovano, Signora mia, i Totò di una volta?