Autonomia scolastica: ha ancora senso parlarne?

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Stefaneldi Nicola Puttilli

Nel recente dibattito congressuale dell’ANDIS, come sempre interessante e ricco di stimoli, pochi e tutto sommato fuggevoli i richiami all’autonomia scolastica, quasi si trattasse di un argomento minore o appartenente a un passato neanche troppo vicino. Eppure autonomia e dirigenza erano le due idee-forza su cui nacque l’associazione dei dirigenti scolastici più di un trentennio fa.

La sensazione, palpabile anche se mai dichiarata, è quella di un fallimento senza ritorno. A vent’anni di distanza siamo a un simulacro di autonomia, mentre la dirigenza piena, che si misura anche in termini di reddito e che doveva essere conseguita entro pochi mesi (chi ricorda le promesse di Aprea e Bassanini nella campagna elettorale del 2001?) è rimasta una pia illusione a cui nessuno più crede.

E’ del tutto verosimile che la classe politica dell’epoca fosse in buona fede e che, anche con un certo coraggio, credesse veramente in un progetto complessivo di rinnovamento e trasformazione (penso a personaggi come Luigi Berlinguer, De Mauro, gli stessi Aprea e Bassanini, non certamente Gelmini che tagliò le prime significative risorse a ciò destinate).

Quello che è clamorosamente mancato è, come quasi sempre accade nei tentativi di riforma avviati nel nostro Paese, la necessaria continuità e coerenza tra il dettato legislativo e i provvedimenti applicativi, tra il dichiarato e l’agito.

A distanza di oltre un ventennio e osservando attentamente i diversi passaggi che hanno portato al deludente risultato odierno, mi sentirei di individuarne le cause più rilevanti in due fattori del tutto trasversali e che travalicano lo stretto ambito scolastico: l’ipertrofia  burocratica e l’inerzia (o, forse, meglio sarebbe dire l’ignavia) della politica.

Con l’avvento dell’autonomia scolastica le varie burocrazie ministeriali centrali e periferiche avrebbero dovuto concentrarsi sulle funzioni di indirizzo, coordinamento e verifica abbandonando una volta per tutte le pratiche gestionali. Lo stesso smantellamento degli ex provveditorati agli studi portava chiaramente in questa direzione.

Per contro mai come in questi anni abbiamo assistito a una così abnorme proliferazione di norme, regolamenti, criteri applicativi, richieste dati dalle fonti più diverse e incongrue, attribuzione alle scuole di compiti e incombenze improprie, andando ben oltre la felice, pur se datata, locuzione di molestie burocratiche.

La burocrazia scolastica ha scaricato sulle neonate autonomie il proprio “modus operandi” non avendo più la possibilità di agire autonomamente. Anziché trasformarsi in supporto alle autonomie è riuscita un po’ alla volta a trasformare le autonomie in elementi a supporto di se stessa. Operazione che è peraltro riuscita anche nei confronti della politica, basti pensare alla fallimentare, e tutta burocratica, gestione della Legge 107 (quando andammo in audizione presso le commissioni riunite di camera e senato in rappresentanza dell’ANDIS, qualcuno ricordò opportunamente come per scrivere la legge sulla scuola media unica, tanto per dire la più importante dal dopoguerra in materia di istruzione, furono sufficienti poco più di tremila parole, per la 107 non ne sono bastate centomila).

Serve, d’altro canto, ricordare che nei vecchi provveditorati agli studi si celavano rilevanti competenze tecniche in materia di bilancio, sicurezza degli edifici, contenzioso con il personale ecc. di cui le scuole autonome avrebbero potuto efficacemente giovarsi per potersi concentrare sugli aspetti più propriamente formativi della loro progettazione e della loro azione. Competenze che sono andate via via perdendosi, lasciando le relative incombenze alle stesse autonomie, private per contro di personale amministrativo numericamente adeguato e adeguatamente formato.

E’ anche vero che le autonomie scolastiche mai sono state in grado di esprimere un apprezzabile peso politico sulle materie più rilevanti di politica scolastica: organici, entità e distribuzione delle risorse, reclutamento, stato giuridico e carriera del personale per dirne alcune. Temi sui quali si decide la qualità del sistema formativo del Paese e sui quali il potere decisionale e gestionale sta nelle mani della classe politica e della burocrazia scolastica, con prevalenza, spiace dirlo, di quest’ultima.

In verità nei primi anni dell’autonomia ci fu un generoso tentativo di organizzare associazioni territoriali di scuole autonome in grado di interloquire con l’amministrazione scolastica e i poteri locali (ricordo come particolarmente attive le Associazioni del Lazio, del Piemonte, della Sicilia, di Milano), tentativo che ha gradualmente perso forza e significato. Così come sovente sembra venuto meno quel “coraggio dell’autonomia” dei molti dirigenti scolastici che si erano riconosciuti nel motto di Luigi Berlinguer “Tutto ciò che non è esplicitamente vietato è permesso”. Oggi mette una certa malinconia leggere nelle chat dei colleghi, anche con una certa frequenza, frasi come “fermi tutti, aspettiamo le indicazioni ministeriali (o della direzione regionale)”.

La politica, dal canto suo, poco o nulla ha fatto per dare corpo e vita all’autonomia scolastica. Niente di quanto previsto dal complesso quadro normativo di fine/inizio secolo è stato compiutamente realizzato: in più di vent’anni non si è stati in grado di procedere alla definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione, fondamento per la progettazione delle autonomie scolastiche ed elementi imprescindibili in chiave di elaborazione e di equità per le politiche scolastiche nazionali e per le previste autonomie regionali. Irrisolta è rimasta la questione centrale della governance, una volta aboliti i provveditorati agli studi mai sono stati definiti con certezza normativa ruoli e funzioni delle direzioni scolastiche regionali anche in relazione alle autonomie scolastiche e ai poteri locali ancora in attesa, a loro volta e dopo tanto parlare di autonomie più o meno differenziate, di conoscere in via definitiva i rispettivi compiti e prerogative.

Logica avrebbe voluto che all’avvento dell’autonomia e della dirigenza avesse fatto seguito una revisione di tutta l’impostazione relativa agli organi collegiali nati in epoca e per esigenze del tutto diverse, così come è unanimemente riconosciuto che una struttura complessa come le attuali autonomie scolastiche non può funzionare efficacemente con un unico organo di vertice e senza posizioni intermedie stabili e riconosciute (esemplari in questo senso le ricerche del prof. Paletta, sostenute anche dall’ANDIS, ma, anche in questo caso, nulla si muove).

A proposito di complessità è utile ricordare che il numero di alunni (e di conseguenza delle unità di personale) per autonomia scolastica è cresciuto a dismisura nell’ultimo decennio, a seguito di processi di dimensionamento piuttosto dissennati, rendendone ulteriormente difficoltosa la gestione. In tale contesto appare di particolare interesse la vicenda degli istituti comprensivi che, nel segmento di base, hanno di fatto soppiantato direzioni didattiche e scuole medie e in cui convivono docenti con orari, carichi di lavoro e retribuzioni diverse. Anche in questo caso le più che legittime esigenze di omogeneizzazione di stato giuridico e trattamento retributivo sono state completamente ignorate e disattese.

Ipertrofia burocratica e immobilismo della politica (nei confronti della scuola in modo del tutto particolare, del resto chi si è permesso di toccare i fili negli ultimi trent’anni è rimasto fulminato) sono ostacoli giganteschi e quasi insormontabili. Eppure, prima o poi, bisognerà provare ad abbatterli. In caso contrario non solo autonomia e dirigenza resteranno a metà del guado, ma sarà  verosimilmente compromesso ogni possibile processo di rinnovamento della nostra scuola, progetti e risorse del PNRR compresi.