Educazione del lavoro

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di Giancarlo Cavinato

Gioco e lavoro: una contrapposizione?

La polemica di Freinet è rivolta a una concessione eccessiva  alla vita dell’infanzia a un gioco totalmente gratuito libero da ogni responsabilità. Una fase della vita diversa da ogni fase successiva, in cui esercitare la propria ‘fantasia’ senza obblighi e compiti.

Ai nostri tempi eravamo integrati, fin dalla più tenera età, nel lavoro ambientale. […]Il lavoro si trovava al centro della nostra vita mentre il gioco era solo un accessorio e questa realtà aveva inevitabilmente la sua risonanza sullo stesso lavoro scolastico. La trasformazione è stata totale nel corso di questi ultimi decenni. Non c’è più il pericolo che si chieda ai bambini qualche servizio prima che partano per la scuola. Gli abbiamo preparato le fettine imburrate; li facciamo perfino mangiare il fretta. Li vestiamo; gli infiliamo il cappottino e i genitori li portano a scuola in auto. Quando usciranno, non avranno altra preoccupazione che quella di giocare, aspettando il pranzo. Anche nelle famiglie meno agiate non sempre si chiede ai ragazzi di aiutare a lavare i piatti[…]E da questi ragazzi che sono stati formati a giocare, che hanno disimparato il lavoro a tutto vantaggio di una pericolosa e passiva facilità, si esigerà, quando la porta della scuola si sarà chiusa, che lavorino tutta la giornata, senza sapere perché si trasformino così, bruscamente, le regole di vita di cui avevano beneficiato.[…] Ascoltate le lamentele dei professori della secondaria: “I ragazzi non sono abituati a lavorare; sono  incapaci di iniziativa e di decisione .”.Essi sono ciò che han fatto una società e una scuola che hanno disimparato il lavoro.[1]

L’analisi di Freinet si concentra sul valore di socialità che il lavoro contribuisce a formare, sulla responsabilità, sul senso del bene comune in uno spazio pubblico dotato di laboratori, centri di produzione, ‘con gli arnesi necessari per un lavoro serio.’[2]

Freinet non mette in discussione le fondamentali analisi sulla funzione dell’immaginario e del gioco come anticipazione della vita adulta, così come le fondamentali conquiste dell’eliminazione del lavoro minorile, ma la dissipazione del tempo del bambino che si è venuta produrre nelle nostre società limitando lo sviluppo di una personalità sociale.

Le stesse riforme scolastiche che prevedono stage formativi e alternanza scuola-lavoro (con tutte le controindicazioni per la tutela dallo sfruttamento e la sicurezza) prevedono soluzioni individuali a un’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro che deve essere sociale. Creare collaborazione, solidarietà, accordando al lavoro un posto  nella formazione di ciascuno. Costituire quello che Primo Levi nella ‘Chiave a stella’ definiva il laboratorio come  ‘cervello collettivo’. Tutt’altra cosa che una concezione di una ‘preparazione al lavoro’ in strutture esterne, ognuno con percorsi diversi. Una lettura distorta della necessità, a lungo rivendicata dalla pedagogia, di un rapporto organico fra pratica e teoria per una formazione unitaria degli individui, in realtà tradottasi in una subordinazione della scuola al mercato del lavoro.

In Freinet una componente decisiva della vita scolastica è costituita dalla cooperazione, alternativa alla competizione. Nei ‘Detti di Matteo’[3] Freinet paragona gli alunni ai corridori del Tour de France. Per la maggior parte dei corridori, non è la classifica finale che conta, eccezion fatta per alcuni privilegiati. ‘O i corridori prendono in qualche momento la testa del corteo e si classificano in un buon posto, o abbandonano. La corsa non ha per loro senso se non permette, almeno per un istante., di riscaldarsi al sole del successo e della gloria.[…] Che ciascuno dei vostri alunni possa anch’esso prendere a un dato momento la testa della squadra ed eccellere i n uno dei molteplici compiti che la scuola moderna offre ai suoi alunni…Vi sarà facile trovare trenta funzioni significative per i vostri trenta bambini…’

La pedagogia Freinet non sottovaluta la necessità dell’emulazione nel lavoro e dell’autovalutazione e della valutazione sociale, grazie a una serie di dispositivi di  organizzazione del lavoro, socializzazione del pensiero dei bambini, tecniche di riproduzione e diffusione del pensiero, ricerca.

Una scuola che si organizzi su questi criteri è una scuola di laboratori, di classi aperte per il lavoro di gruppo e la diffusione di una pluralità di messaggi, una scuola del lavoro che sa articolare momenti diversi e stimoli diversi in cui ciascuno si sperimenti con le proprie risorse e sperimenti compiti e funzioni diverse sottoponendosi a una disciplina di gruppo.  

Una evoluzione positiva di una scuola che non si fondi soltanto sulle eccellenze e sul merito a scapito del successo scolastico di tutti non può non tener conto del necessario superamento della divisione rigida tempi di vita-tempi di lavoro. Come rivendicano i NATs’ (niňos y adolecentes trabajadores), sindacati dei bambini lavoratori dell’America Latina,  ci vuole un tempo per l’educazione e la cultura, un tempo per il lavoro e le condizioni di una vita dignitosa, un tempo per il relax e il riposo.

Come introdurre nella scuola un autentico rispetto dei bisogni, degli interessi, dei diritti dei ragazzi e nello stesso tempo garantire condizioni l’assunzione di forme di responsabilità e di cura del bene comune? Dice Freinet: ‘Organizzate il lavoro in maniera cooperativa, suddividendo i vari compiti e, soprattutto, adottate la pratica del giornale murale e della riunione cooperativa del fine settimana.[4]

Usando quali oggetti organizzatori e di pianificazione delle attività la conversazione, il consiglio di cooperativa. il testo libero, l’assemblea. Diversificando attività tempi ritmi uso degli spazi così da aprire la scuola alla realtà dove si svolgono attività funzioni e si risponde ad esigenze diverse, in cui non vige l’omogeneità continua.

L’esigenza è quella giungere a una disciplina del lavoro così come viene praticata in tantissime scuole moderne dove gli alunni, attratti da un lavoro che s’inserisce nella loro vita, prendono coscienza della necessità di una disciplina funzionale che non è né licenza né oppressione, bensì realizzazione di  un modo di vivere individuale e collettivo quasi ideale.’ [5]

NOTE

[1][1] Freinet C. La scuola del fare (2002), Junior, Bergamo, pp. 29-32 ‘Insegnare il lavoro’
[2] Op. cit.
[3] Freinet C., I detti di Matteo, (1956), La Nuova Italia, Firenze
[4] Freinet C. La scuola del fare, p. 260
[5] Freinet C. op. cit., p. 122