Signor Ministro, Lei lavora troppo!

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di Mario Maviglia

 Signor Ministro, è quasi commovente l’impegno che ci mette, attraverso le sue lettere/note/prese di posizione, per marcare la sua presenza presso viale Trastevere 76/A. Certo, può succedere che quando si produce troppo e in fretta, magari senza un adeguato momento riflessivo e comunicativo, qualcosa sfugga di mano e si rischia di fare affermazioni ambigue o incomplete o fuorvianti o inutili. Per esempio, nella lettera del 9 novembre inviata alle scuole in occasione della ricorrenza della Giornata della libertà, istituita con legge 61/2005, Lei ha (giustamente) invitato i giovani a riflettere sulla sconfitta di una “grande utopia”, ossia la conclusione “drammaticamente fallimentare del Comunismo”. Peccato che la legge 61 sollecita le scuole a organizzare “cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti.” Totalitarismi al plurale, non solo del Comunismo, Sig. Ministro, come può facilmente comprendere qualsiasi studente di scuola primaria.

Qualche settimana dopo, nelle vesti di esperto pedagogo, Lei ha apoditticamente affermato, a proposito del Reddito di cittadinanza, che “è moralmente inaccettabile darlo a chi non ha terminato l’obbligo scolastico”. Quindi, tradotto in altre parole, chi non ha avuto la fortuna di completare l’obbligo scolastico ha anche la sfortuna di non poter accedere al RdC. Questo potrebbe essere uno dei pilastri per una vera inclusione sociale. Lei ha anche aggiunto, Sig. Ministro, che “l’educazione al lavoro è fondamentale, deve essere appresa già dalle elementari” perché in questo modo i ragazzi vengono educati “alla responsabilità e alla bellezza del lavoro, coniugare formazione con lavoro: questo è un obiettivo, una strategia che ispirerà il mio ministero”. Abbiamo voluto vedere in queste affermazioni un riferimento a John Dewey e al suo learning by doing, ma dubitiamo che lei conosca questo psicologo americano, e dubitiamo peraltro che Dewey intendesse questo. Abbiamo quindi tentato di intendere il Suo pensiero come una traduzione progettuale del Service learning, ma anche in questo caso abbiamo dovuto desistere in quanto non vi era collimazione né di contenuti né di approccio metodologico. Crediamo quindi, a buon ragione, che possiamo annoverare questa sua posizione come una via italiana originale della pedagogia makarenkiana. Unica perplessità: Makarenko non solo era un convinto sostenitore del valore pedagogico del lavoro, ma era anche un convinto comunista. E questo forse, Sig. Ministro, non Le farà piacere…

Sempre a proposito di lavoro, in occasione delle iscrizioni degli alunni e al fine di favorire il difficile compito delle famiglie e delle scuole nell’azione di orientamento dei giovani alla scelta di una scuola più adeguata, anche in relazione alle possibilità occupazionali, Lei ha meticolosamente accompagnato la Sua nota con una serie di schede che danno conto delle richieste occupazionali all’interno delle singole realtà. In tal modo i giovani dovrebbero orientarsi verso quelle scuole che garantiscono una formazione adeguata alle esigenze del mercato. Il ragionamento non è privo di fondamento ed anzi presenta una sua intrinseca logica interna. Vi sono solo due piccoli nei che lo rendono precario: con il processo di globalizzazione non è detto che i giovani siano disponibili a trovare lavoro sotto casa; a conclusione del ciclo di studi e prima dell’immissione nel mondo del lavoro le professioni oggi esistenti potrebbero avere una caratterizzazione molto diversa o addirittura essere scomparse. Insomma, inseguire le logiche del mercato è come entrare nel paradosso di Zenone, noto come paradosso di Achille e la tartaruga.

Molto si è discusso sulla Sua boutade dell’esaltazione dell’umiliazione nei confronti degli studenti che compiono azioni di bullismo. L’umiliazione insomma come fattore di crescita e di costruzione della personalità del ragazzo. Il tutto poteva finire lì, Sig. Ministro, ammettendo che era stata usata un’espressione infelice; ma Lei ha voluto precisare ulteriormente il senso del Suo pensiero e spesso, quando si precisa, si aggrava ancor più la situazione. Infatti, per quello che hanno riportato i giornali, l’umiliazione si è trasformata in umiltà, l’umiltà di chiedere scusa. Un concetto stupendo, che però è agli antipodi dell’umiliazione (sebbene condivida con questa la stessa radice etimologica (da humi, a terra, da humus, terra). Forse Lei a questo faceva riferimento. Ma non risulta che Lei sia specialista in etimologia. Peraltro anche il riferimento a “lavori socialmente utili” da far svolgere agli studenti che hanno combinato qualcosa di grave a scuola, e che Lei sottolinea come elemento di grande significatività, in realtà è già previsto dal nostro ordinamento giuridico. Infatti, come forse Lei saprà, il DPR 21 novembre 2007 n. 23, che modifica il DPR n. 249 del 24 giugno 1998 n. 249, dà sempre la possibilità allo studente di convertire le sanzioni in attività a favore della comunità scolastica.

Anche in una delle Sue ultime note, riguardante il divieto di utilizzare il cellulare durante le lezioni e ampiamente ripreso dalla stampa nazionale, Lei non fa che confermare quanto già stabilito dai Suoi precedenti Suoi colleghi. Infatti – come peraltro Lei stesso sottolinea nella nota 107190 del 19 dicembre 2022 – sia il DPR 249/1988 che la CM 15 marzo 2007 n. 30, danno indicazioni sull’uso del cellulare a scuola. Insomma, much ado about nothing, direbbe il William di Stratford-upon-Avon.

Lei lavora troppo, Sig. Ministro! Si riposi. Conti almeno fino a 10 prima di esternare o scrivere lettere. E soprattutto, cerchi di lasciare in pace le scuole: hanno già i loro grattacapi. E se proprio non riesce a stare fermo, faccia il Ministro dell’Istruzione! (sul Merito ne riparleremo). Non si improvvisi pedagogo o sociologo o psicologo. Da docente di diritto privato romano e storia del diritto pubblico romano dovrebbe sapere che è sempre valido l’adagio latino ne sutor ultra crepidam.