Didattica del recupero o didattica da recuperare?

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di Simonetta Fasoli

Ho letto in questi giorni in articoli dedicati alla scuola nell’ambito del territorio romano, spesso con toni comprensibilmente allarmati, dati e commenti circa l’avvenuto, sensibile incremento di corsi pomeridiani di recupero attivati nelle Scuole primarie. Ricorre il tema delle competenze linguistiche basilari (si parla di “comprensione del testo”) e logico-matematiche in vistosa carenza, per cui si rendono necessari tempi suppletivi (in orari pomeridiani) programmati dalle scuole.
Ferme restando la variabilità dei fatti e la complessità della casistica, che vietano giudizi sommari, penso sia opportuno, e perfino urgente, accompagnare la conoscenza dei dati con qualche considerazione e qualche spunto di riflessione. A partire dal concetto di “recupero” e dalle modalità con cui viene realizzato: spesso, infatti, si confondono i piani. Si devono recuperare i “contenuti” (nel senso più ampio) o non piuttosto gli strumenti di approccio? Nel primo caso, il riferimento sono gli obiettivi fissati; nel secondo sono i percorsi.

Nel primo caso, prevale un criterio quantitativo, per cui è sensato intervenire su un incremento del tempo scolastico. Nel secondo, è analizzata la qualità dell’apprendimento, che suggerisce di rivedere le metodologie del processo di costruzione della conoscenza.
Ma c’è una questione di fondo che, a mio parere, comprende entrambe le ipotesi e che potrei formulare così: più che di una didattica del recupero, parliamo del recupero della didattica!

Fuori dal gioco di parole, è un invito a spostare l’attenzione dall’apprendimento (“non ce la fanno”…e via alla ricerca dei “colpevoli”, identificati volta a volta nei telefonini, negli esiti della pandemia e dell’isolamento…) all’insegnamento e alla didattica che ne è in qualche modo la parte visibile, la messa in opera. Di fronte a questo guado, a me pare che la Scuola tenda a chiamarsi fuori, a non mettersi davvero in gioco, prendendosi il rischio di autoriformarsi dal basso. Di qui, la via, impegnativa e certo non indolore, di organizzare tempi e setting aggiuntivi.
Proviamo a rovesciare il punto di vista. Se il problema nasce nel tempo e nella didattica ordinari, la strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stat* esclus*. Questo lo ha recepito la cultura dell’inclusione e lo ha tradotto in principi e percorsi fin dagli anni Settanta del secolo scorso: si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77. A chi fosse sensibile a questa tematica, segnalo quanto è scritto, con esemplare semplicità ed efficacia, nel seguente breve passo della direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, che disciplina la vasta materia dei BES (Bisogni Educativi Speciali):
“[…] Si è detto che vi è una sempre maggiore complessità nelle nostre classi, dove si intrecciano i temi della disabilità, dei disturbi evolutivi specifici, con le problematiche del disagio sociale e dell’inclusione degli alunni stranieri. Per questo è sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: UNA DIDATTICA INCLUSIVA PIÙ CHE UNA DIDATTICA SPECIALE.”
È mio il carattere cubitale.
Ripensare con la necessaria radicalità la didattica ordinaria comporta, va ribadito con forza, un netto cambio di direzione delle politiche scolastiche, che parta dalle condizioni strutturali: risorse e stabilità di organico, investimento sulla qualità degli spazi educativi e sul patrimonio edilizio, formazione del personale mirata a criteri di qualità dei percorsi e non ridotta ad adempimento burocratico, quando non a pratica vessatoria.
Non c’è tempo da perdere: il tempo è adesso, sono queste e non altre le generazioni che reclamano i loro diritti. Massimamente, quando non hanno voce.