Storia di un infanticidio: a proposito di autonomia scolastica

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di Italo Bassotto

“ Io so. Io so i nomi dei responsabili …[ … ] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi responsabili. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”

Mi perdoni il grande Pier Paolo Pasolini se uso quella sua meravigliosa testimonianza sul Corriere della sera del novembre 1974 al riguardo dei protagonisti della stagione delle stragi nel nostro Paese; ma anche la storia dell’autonomia scolastica è, per me, la storia di una strage. Solo che, anziché una partita crudele fra adulti accecati da opposte ideologie, si tratta di una strage degli innocenti, di una silenziosa uccisione nella culla di una vita nascente, che si affacciava per la prima volta alla speranza di prendere in mano il destino della educazione formale in una struttura che, fin dalla sua origine nello stato unitario dell’Italia di fine ‘800, aveva avuto sulle sue spalle il carico assurdo di “fare gli italiani”…. Già, perché la scuola italiana nacque con questo fardello sulle spalle: non di formare degli uomini che esercitassero le loro qualità intellettuali e morali nel contesto delle regole che governano la nazione, ma di formare degli “italiani”, come se la cultura avesse dei confini e crescesse solo all’ombra di una bandiera.
E che l’assassinio sia avvenuto nel silenzio più totale, se non nel compiacimento dei suoi protagonisti, ne è conferma la natura del dibattito attuale sulla “cosiddetta autonomia differenziata” delle regioni che l’hanno richiesta al governo centrale sulla base di un preciso dispositivo costituzionale. La scuola non può fare parte del “pacchetto” delle autonomie da concedere alle regioni richiedenti, perché essa è “garante della unita della Nazione”: espressione che è la celebrazione linguistica della ipocrisia di massa con cui si nascondono le infinite differenze che caratterizzano le migliaia di istituzioni scolastiche operanti in Italia e che tutte le ricerche intorno alla “qualità” delle scuole hanno confermato negli ultimi quindici anni almeno (dall’ INVALSI al PIRL; dall’ IEA al TIMM ).
La logica vincente (ancora!) è che le differenze non sono nulla rispetto alla funzione unificante che ha il sistema della scuola pubblica italiana. Dove gli unici due legami che fanno pensare ad un possibile “sistema” sono: il controllo ferreo sull’ingresso, la carriera e l’uscita del personale e il valore legale dei titoli di studio; tutto il resto che accade nelle aule, nei corridoi, e nei cortili degli edifici scolastici ha una inevitabile impronta soggettiva, dettata dalle sottoculture professionali ed organizzative, di cui inevitabilmente si riveste ogni istituzione, quando opera dentro contesti socioeconomici e strutturali molto diversi fra di loro.
L’idea di dare spazio vitale, libertà decisionale e carico di responsabilità a questa capacità “adattiva” delle unità scolastiche, mantenendo una dimensione di guida e propulsione al centro del sistema della formazione scolastica, nasceva dalla consapevolezza della impossibilità di un governo monolitico e accentrato di un servizio, che, con la rivoluzione delle tecnologie e la globalizzazione dei mercati e delle conoscenze, non poteva certo essere tenuto insieme da un sistema amministrativo, costituito da una piramide di regole (dalle leggi alle circolari) la cui messa in opera veniva garantita da una struttura gerarchica nella quale gli ultimi della fila erano meri esecutori di volontà altrui, pur essendo i più vicini a coloro che chiedevano qualità, efficacia ed efficienza al servizio educativo scolastico da essi prestato.

Sapevamo tutti, all’alba di questo terzo millennio, cosa significasse introdurre il principio di autonomia in un sistema rigidamente gerarchico e piramidale:
 liberare risorse di creatività e di ricerca professionale degli operatori scolastici;
 togliere i vincoli di dipendenza gerarchica fra le strutture del governo amministrativo, rovesciandone la funzione: da “comando” a “servizio”
 introdurre strumenti e pratiche di “pianificazione strategica” dei servizi educativi scolastici, coinvolgendo le autonomie locali;
 generare nuove infrastrutture di servizio tecnico-professionale a supporto dei servizi predisposti dalle istituzioni scolastiche autonome
 dar vita a sistemi non più piramidali, ma orizzontali di legami interistituzionali per progetti e per scopi condivisi (reti, intese, accordi di programma….)
 promuovere processi di “ricerca e sviluppo” da parte delle scuole in collaborazione con enti di ricerca accademici e non del nostro paese, ma anche a livello internazionale (o per lo meno europeo).

L’ equipe dell’allora ministro Luigi Berlinguer era talmente consapevole della complessità del processo che si andava ad innescare, che venne varata la immagine della “autonomia come cantiere aperto”, ovvero come luogo definito, ma ad un tempo in continua ristrutturazione, grazie ai contributi che ci si aspettava di ricevere dalla cosiddetta “società civile”… Insomma, per tornare alla metafora iniziale del neonato, il DPR 275 era una creatura neotenica, che aveva bisogno di tutto e di tutti per crescere e diventare quel sistema responsabile ed efficace che si auspicava per la scuola del terzo millennio.
Ed invece il piccolo nato venne subito abbandonato a se stesso. La politica che lo aveva generato lo sottrasse immediatamente ai suoi genitori: dimissioni del ministro su un tema che era strettamente legato all’autonomia, come la responsabilità degli insegnanti e la loro valutazione (anche allora si sottraevano i bambini alle famiglie legittime, con scuse banali!); fine della legislatura e nascita di un governo che prometteva la “restaurazione” del sistema scolastico.
L’amministrazione, che aveva capito tutto, (come sempre!) fu ben lieta di continuare come prima: i Direttori Generali a scrivere circolari che interpretavano le norme (in nome e per conto delle scuole, che non lo sapevano fare!), così come i Provveditori che continuarono imperterriti a gestire gli organici, ovvero il budget professionale delle scuole: come volete che fossero autonome ne4lle loro scelte le scuole, se il numero e la specializzazione dei maestri e dei professori erano decisi nelle stanze dell’Ufficio Provinciale… di concerto con le Organizzazioni Sindacali, naturalmente! Non solo, ma ho sentito con le mie orecchie qualche Provveditore interpellato da un Preside o Direttore Didattico (allora si chiamavano così) su questioni un po’ spinose, gridare irritato.
“Avete voluto l’autonomia, e allora tenetevela!”, e così impiegati e persino uscieri….
Non parliamo poi degli Ispettori, già allora in via di estinzione (per un organico sempre sotto dimensionato): alla sparuta ciurma degli “entusiasti” che, consapevoli della forza che l’autonomia dava al ruolo di chi faceva della consulenza e dell’orientamento il motivo del proprio impegno professionale, si aggiungeva il grosso di coloro che, alla constatazione di perdere tre dimensioni della propria identità (il territorio, il segmento scolastico e la disciplina di studio per la quale erano “Ispettori”), precipitarono in una sorta di anomia professionale; ed, infine, coloro che, per ragioni ideologiche, contestavano l’intero impianto delle politiche scolastiche del Ministro I tentativi di creare dei Centri servizi intermedi che facessero da supporto tecnico- professionale al personale direttivo e docente e creassero le condizioni di sinergia tra i piani dell’Offerta Formativa delle Scuole e i piani per il Diritto allo Studio degli Enti Locali, finirono nel dimenticatoio con le dimissioni di L. Berlinguer.
Le OO.SS ebbero buon gioco ad associare l’autonomia alla legge di riforma dei cicli e con la caduta di questa a far diventare il 275 un Decreto di mera importanza metodologica e didattica, caricando sugli insegnanti e sui capi di istituto tutto il peso della “autonomia”… La reazione del personale, ovviamente in queste condizioni, non poteva che essere quella che considerava l’autonomia un semplice aggravio dei carichi di lavoro.
Se a ciò si aggiungono le tortuose strade burocratiche inventate per aggirare i temi caldi della valutazione (delle scuole, degli insegnanti, dei dirigenti e… degli studenti), la proliferazione dei tipi di disabilità, deficit e disagio che andavano accumulandosi nelle rendicontazioni cliniche e cartacee degli alunni da “includere”, le pretestuose elucubrazioni intorno al new deal dei curricoli: la didattica per competenze di cui si impossessò quasi subito l’amministrazione (che non c’entrava niente, ma che era l’unico modo con cui i poteri sulle scuole (politica, sindacato, burocrazia e giustizia amministrativa) sanno imporre le loro volontà … riportarono ben presto le “professioni” educative scolastiche al loro “alveo naturale”, vale a dire la funzione esecutiva e, con essa, la riconduzione al ruolo impiegatizio…
E, dopo vent’anni, il cerchio si chiude; ovvero: “D.C.”, che non è la Democrazia Cristiana, ma una sigla che significa Da Capo, un invito a ripetere una frase o un brano e che si legge in calce ad uno spartito musicale!