Archivi tag: Giunta

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Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita. Continua a leggere

La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perchè pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.

Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico, che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica. Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia. La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione. Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi. Continua a leggere

Far amare agli allievi il sapere che devono possedere


di Raimondo Giunta 

A scuola il dogmatismo metodologico dovrebbe restare fuori dalle sue mura, perché non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche; ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema di sapere quale pratica adottare nell’insegnamento è subordinato a quello di stabilire quali apprendimenti debbano essere conseguiti dagli alunni, resi necessariamente consapevoli della loro importanza e del loro valore. Su questi obiettivi si misura la pertinenza dei mezzi e delle procedure da usare. Si raggiungono i risultati sperati, se l’alunno riesce a sentire come scoperta personale il possesso del sapere e a “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
Per questi obiettivi sarebbe auspicabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento con il modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra. “Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).

Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problema, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta, però, un considerevole cambiamento del modo di insegnare. Continua a leggere

L’economia dell’istruzione non ha titolo per parlare dei saperi del curriculum

di Raimondo Giunta

Cos’è l’economia dell’istruzione

Nel DNA di questa disciplina c’è l’impulso a rendere efficiente la spesa pubblica per l’istruzione e spesso c’è anche la preoccupazione a non aumentarla.
Alcuni suoi cultori, tra le tante affermazioni che fanno, sostengono che non è più sostenibile l’idea che non si debba cambiare la composizione della spesa pubblica per l’istruzione e che questa debba solo crescere. Le risorse per l’istruzione che bisogna strappare all’avidità di altri reparti dello Stato devono essere spese bene, senza sprechi, in modo efficace e ogni innovazione, così come il mantenimento dell’esistente, devono essere sottoposti ad una rigorosa analisi dei costi. Ma è davvero facile definire l’impiego ottimale delle risorse in campo educativo?
Ci sono delle difficoltà e “queste sorgono già nell’identificazione di una metrica comune delle variabili influenti sul prodotto scolastico; emergono nella valutazione delle relazioni fra output e input per individuare la combinazione efficiente di fattori e permangono nella determinazione delle soglie dimensionali e dei criteri organizzativi per l’impiego efficiente dei fattori”(Ugo Trivellato).

A queste difficoltà si aggiungono poi problemi operativi nel tradurre acquisizioni concettuali in interventi nella realtà.  Alle stesse conclusioni arriva E.  Somaini nel suo testo “Scuola e mercato”
L’autore tiene a sottolineare “che non tutte le modificazioni nel soggetto sono risultati dei processi formativi, perché sono influenzati in modo significativo da una serie di fattori di origine naturale, ambientale e sociale, che si manifestano gradualmente e lungo un arco esteso di tempo e che malgrado queste difficoltà, logiche e di misurazione l’adozione (con le dovute cautele) di un approccio produttivistico è auspicabile e ……..  anche possibile”.
Appunto auspicabile e possibile. Non credo che lo statuto epistemologico della disciplina abbia superato questi limiti.

Una teoria economica dell’istruzione, che non abbia eccessive ambizioni, aiuta a orientarsi nelle scelte degli investimenti più efficaci per il miglioramento del sistema formativo, anche se non sono esattamente quantificabili i loro effetti produttivi reali e potenziali.
Aiuta, anche, a comprendere che cosa comporta in termini di sviluppo economico un mancato livello d’istruzione della società, ma non può parlare con autorità sui saperi dell’istruzione che si ritengono necessari per la generalità di tutti i giovani che devono andare a scuola. Precauzione, questa, svanita nel corso degli anni, tant’è che molti cultori dell’economia dell’istruzione continuano a lanciare proclami sui “prodotti “scolastici necessari, redditizi e vantaggiosi per tutti. Continua a leggere

Scuola come istituzione, non come servizio sociale

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disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

La scuola non è solo un servizio sociale; la scuola è anche una istituzione. Come servizio la sua qualità si misura dalla soddisfazione degli utenti; come istituzione la qualità si misura dalla capacità di conservare e sviluppare i valori di una comunità; come servizio si regge sull’attenzione agli interessi individuali; come istituzione si regge sul principio del bene comune. Il bene comune della scuola è costituito dai saperi e dalle conoscenze che è tenuta a tramandare, alcuni dei quali sono fondamentali per la coesione della comunità: lingua, storia, cultura nazionale, valori costituzionali. Saperi necessari.
Saperi che appartengono a tutti e non a pochi privilegiati.

Per definizione.
Principio questo che non ha bisogno di dimostrazione, perché altrimenti non ci sarebbe motivo per finanziare la scuola con risorse dello Stato.

Come istituzione la scuola non può darsi nessuna regola d’esclusione, anche perché il suo costo sociale grava di più su chi meno ne trae beneficio. Ne verrebbe meno il valore; se ne macchierebbe la dignità. Nell’apertura della scuola a tutti sta scritto il meglio della nostra civiltà. Possono essere posti limiti al possesso di beni materiali, non al bisogno e al desiderio di conoscenza e al diritto di formazione. I meccanismi di esclusione a scuola fanno impropriamente del sapere una delle più offensive giustificazioni delle posizioni sociali privilegiate.

La scuola come istituzione non può essere diversa da regione a regione, dal centro alle periferie delle città, dalle grandi città ai piccoli comuni.  La scuola come istituzione dovrebbe lavorare per unire e per proporre una valida e riconosciuta gerarchia dei saperi e delle attività, in grado di contrastare la deriva relativistica degli interessi individuali e dei curricoli à la carte.  Purtroppo dura da troppo tempo la lotta per ridimensionare l’aspetto istituzionale della scuola, con la complicità forse inconsapevole di parte del personale scolastico, per ridurla alla pura logica del servizio a clienti.

Lo scopo, nemmeno sottinteso, è quello di degradare la funzione del sapere da bene pubblico a mero privato possesso strumentale.

 

Apprendere ad apprendere. Ma che significa? E per che cosa?

Stefaneldi Raimondo Giunta

Il ritmo inarrestabile dello sviluppo delle conoscenze che bisogna possedere per non restare ai margini dell’attuale società ridisegna i compiti che la scuola deve affrontare.
Un problema di non facile e immediata soluzione. La sua complessità è costituita anche dal fatto che media e internet hanno qualcosa che la scuola non sempre possiede per definire il proprio rapporto con le nuove generazioni: la capacità di seduzione e di coinvolgimento.

Si dice con monotonia sempre più assillante che per inserirsi in una società, segnata dalle continue trasformazioni dei suoi assetti economico-sociali e dalle innovazioni permanenti del patrimonio tecnologico e scientifico, e per essere capaci di dominare l’incertezza che per questi motivi si viene a determinare occorra un considerevole bagaglio di saperi e di competenze e soprattutto che si debba essere capaci di apprendere ad apprendere.
Se ne è fatto uno scopo e anche uno slogan…

Si sa che non si finisce mai di apprendere, che l’apprendimento è inevitabilmente permanente, perché è una condizione esistenziale e coincide con la stessa durata della vita di una persona.
L’apprendimento è un bisogno individuale che si trasforma in intenzione di apprendere, in desiderio di apprendere solo quando se ne fa un fine della propria vita , quando c’è una buona ragione. Continua a leggere

Spunti di riflessione per una educazione buona

di Raimondo Giunta

disegno di Matilde Gallo, anni 10

  1. La scuola è un luogo strano dove chi sa, fa le domande a chi non sa. Non sarebbe meglio il contrario? L’alunno pone le domande e l’insegnante cerca di rispondere. Sarebbe la scuola ideale: alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
    Ogni lezione dovrebbe essere una risposta ad una domanda (Dewey).
  2. “Il professore insegna a tutti la stessa cosa; il maestro annuncia a ciascuno una verità particolare”(B. Rey): l’insegnamento ex-cathedra conosce l’argomento e spesso misconosce la persona che ascolta e che è tenuta ad ascoltare. Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali. L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. Una scuola a misura di ciascuno non è possibile, ma nobilita tutto l’impegno per farne un dovere professionale.
  3. Una scuola non è un’azienda: bisogna smetterla di farne un metro di paragone, di assumerne cultura e valori e di farla finita con l’accanimento docimologico e metodologico che ne è derivato.
    Gli alunni non si possono programmare come la produzione dei pezzi di ricambio.  Per accendere il desiderio di apprendere bisogna recuperare la dimensione esistenziale del crescere nel sapere: “Fatti non foste per viver come bruti/ma per seguir vertute e canoscenza”(Dante). Continua a leggere