Pedagogia dell’inclusione o dell’imperfezione?

di Raffaele Iosa,  già dirigente tecnico del Miur

Il declino dell’inclusione

E’ in corso da tempo una crisi strutturale di ciò che nel sociale e nelle politiche educative abbiamo per anni chiamato inclusione. Sarà per l’ età, ma pur essendo il sottoscritto per natura ottimista, vedo fenomeni macro e micro tali da poter dire che l’inclusione sembra oggi solo un benevolo mantra ripetitivo di un quasi-nulla concreto, nonostante buone eccezioni. Ho sempre pensato che il destino delle persone con disabilità, come dei poveri, come di chi non rientra nel mainstream, dipende dalla più vasta ideologia che connota una società. Che oggi non è inclusiva.

Prendo largo il pensiero su come sta l’inclusione scolastica (pur con le azioni di qualità sempre più rare) perché mi pare che la crisi non sia organizzativa né di un buon o cattivo decreto, e neppure di finanziamenti o di leggi, ma nel clima complessivo di un’epoca. Che oggi dice chiusura e non apertura. Restando alla scuola, leggo per esempio di soloni che sgridano la scuola perché boccia poco, di accademici che fanno l’apologia della lezione frontale, di nostalgici del latino, di insegnanti intolleranti verso gli alunni, di genitori violenti verso gli insegnanti.

Dominano nel mondo i muri, la paura dell’altro, l’egocentrismo identitario. Le parole sono cattive, le invettive riempiono i social, il mondo è fatto di nemici. Non è sufficiente dire che la “crisi” di solidarietà sia un fatto solo economico, c’è di più: tornano i lupi. E anche a scuola tornano i lupi.

Un piccolo esempio. Mi occupo da anni, pur in pensione, di “bambini cattivi”, cioè quei bimbetti di 5/7 anni che menano i compagni, che non stanno mai fermi, antipatici e rumorosi. La clinica li incasella come “oppositivi provocatori” e gironzolano tecniche comportamentiste per contenerli come fossero i piccioni di Skinner. Eppure ogni bambino cattivo è diverso dagli altri e ha qualche dote. In un recente caso ho dovuto contenere l’ira dei genitori (gli altri) senza alcuna etica né pietà, capaci solo di chiedere un carceriere a tempo pieno e l’applicazione del Regio Decreto del 1928 fino all’ espulsione. Giuro: 20 anni fa non era sempre così. E’ cambiata l’aria prima che la scuola.

Nel breve di questo testo, vediamo le priorità critiche del presente, nello sguardo complessivo.

Apologia dell’imperfezione (e della resilienza)

Sulla medicalizzazione e la iatrogenesi dilaganti di oggi ho già scritto numerosi saggi sotto il titolo “La grande malattia”. A questi rinvio i curiosi per l’approfondimento.

Detto in concreto: le certificazioni di disabilità sono raddoppiate in 20 anni, quelle di DSA le superano. Dei cosiddetti BES meglio non dire, c’è di tutto. Nonostante gli orpelli burocratici e l’INPS. Ma perché tutto questo? Un’epidemia collettiva? Una crisi iper-sociale? Qualcuno pensa persino sia merito (merito!!!) di una più attenta “cura” delle diagnosi. Io temo invece vi sia un cambio di paradigma sull’idea di salute e di benessere che, sommato alla denatalità, porta i genitori a desiderare il “figlio perfetto” e un mondo iper-clinico pronto alla cura magica nel caso non lo sia. Se il figlio non è perfetto ne va dell’autostima genitoriale. Meglio scoprire una “malattia” qualsiasi che darsi responsabilità educative. Meglio poi a scuola avere un figlio “un po’ malato che bocciato”.

Negli anni d’oro dell’attivismo le sane maestre non mancinomani conoscevano con saggezza la dislessia, avevano letto perfino Vigotsky che la considera un difetto e non un disturbo, e piano piano, con pazienza e senza criminalizzare aiutavano il bimbetto a far-si e così se la cavava da solo. La partenza giusta era non avere fretta. Oggi furoreggia il compensativo e il dispensativo. L’imperfezione è il nuovo mercato della crescita dei bambini. A nessuno è più concessa come serena tappa della vita. Domina una prevenzione iatrogena. Perfino le c.d. “competenze di fine ciclo primario” lette d’un fiato profilano l’idealtipo di un “bambino perfetto” che per fortuna in natura non esiste ma che crea confronti idolatrici che inquietano genitori individualisti, amanti del precocismo. Da qui la rincorsa al dottore. Ma non riguarda solo la scuola, i dentisti sono pieni di bimbi con un dentino storto. I dermatologi per un brufoletto. Eppure accettare l’imperfezione sarebbe la base naturale di una qualsiasi buona educazione. Che non vuol dire rassegnarsi, ma darsi tempo, accogliere la differenza non sempre come male, anzi a volte come originalità.

E poi: la medicalizzazione produce un effetto educativo perverso: una sorta di “sanatoria” che abbassa le potenzialità dell’io, lo clinicizza e lo rende sempre (per sempre) bisognoso di cure e attenuanti.

E’ anche la negazione della resilienza come capacità autonomia di far-si da sé cavandosi da soli dai guai. E’ anche il crollo della responsabilità individuale: nessuno è colpevole mai, né bambino né genitore, per ogni imperfezione c’è una cura magica. In genere costosa. Con questo non nego esista la sofferenza, la difficoltà, l’handicap come impedimento fattuale. Sostengo però la presenza di un’esagerazione clinicistica che ammala chi non è malato, che “protegge” chi ha bisogno invece di imparare la resilienza per cavarsela da soli. Bambini medicalizzati eterni pazienti, bisognosi per ogni guaio di cura e non di una scelta. Questa medicalizzazione chiede “tecniche” non didattiche, considera gli altri bambini come ostacoli più che opportunità e l’ambiente scolastico pericoloso. Da qui anche la mitologia della sicurezza che incarcera banchi e corridoi.

Questo approccio, inutile negarlo, modifica l’idea di inclusione a scuola, chiede che le maestre si mettano il camice e non il grembiule, abbassa le occasioni di fare insieme agli altri bambini per invece una “didattica individualizzata” che produce quel paradosso che in altri scritti ho chiamato isolazione, la più falsa delle inclusioni. Per me l’anticipo mascherato del ritorno alle scuole speciali. Dove i bambini meanstream non avranno più in mezzo i piedi bambini nervosi, stupidini, strambi, e dove si potrà fare solennemente l’antica grammatica come pontifica il guru Corrado Augias.

E i genitori saranno tutti contenti. Saranno contenti davvero?

Io continuo a credere, nonostante tutto, che educare accettando l’imperfezione come un dono di Dio e non una condanna sia l’inizio profondo di una vera e serena crescita guidata dal buon senso.

Le certificazioni e il Libro Cuore

Da una decina d’anni presiedo la Commissione regionale che assegna ore di sostegno in deroga in Emilia-Romagna. Ho visto crescere certificazioni una volta desuete, altre strane. Tutte considerate “gravi”, ma per la verità il prototipo dell’alunno che non funziona secondo gli antichi canoni del Libro Cuore. Sono aumentati a dismisura i Franti, crescono i bambini stupidini, crescono gli strambi, cresce chi fa fatica ad imparare. La clinica del DSM li chiama oppositivi provocatori, con ritardo mentale lieve, autistici con uno spettro di anno in anno più vasto, oppure DSA così gravi ma così gravi che non imparano niente. Naturalmente so che dietro ogni “caso” c’è una storia di difficoltà, di dolore, ma come non notare che i quattro prototipi deamicisiani in grande aumento rappresentano esattamente quell’area sociale e culturale “inadatta” ad una scuola meanstream da sempre, che chiede eccellenza, precocità, performance soddisfacenti.        Altro che inclusione: siamo alla certificazione ideologica di chi non si riesce ad adattare in modo naturale e attivistico alla scuola. Da qui una nuova grande domanda di medicalizzazione. Non è questa una crisi profonda della pedagogia inclusiva, incapace di adattarsi lei ai bambini e non viceversa?

Lo scontro tra scolasticisti e specialisti

Ho seguito con un po’ di noia l’acceso dibattito sul decreto per l’inclusione effetto della Legge 107. Ma questa volta credo che i malumori non siano colpa della politica. Io intravedo infatti un contrasto storico di carattere pedagogico più che politico  tra i diversi soggetti sociali e professionali coinvolti nella disabilità. In sintesi, si contrappongono  due scuole di pensiero.

 L’approccio scolasticistico.  

Gli scolasticisti sostengono la necessità di andare oltre la separazione tra docenti curricolari e di sostegno, si basano sul  sostegno partecipato, come ad esempio l’idea dei docenti bis-abili a cattedre miste. Lo scopo è creare una speciale normalità in cui tutti i docenti realizzano inclusione. La visione dell’alunno con disabilità è tendenzialmente olistica, la vita tra pari è significante. Gli scolasticisti mettono al centro la scuola comunità, flessibile in ogni momento educativo,  fondata nel sostegno diffuso  in forme comuni. È la tendenza più vicina alla storia pedagogica dell’inclusione degli anni ‘70. Ma è anche una tesi minoritaria e in crisi nella pratica. Spesso criticata dalle famiglie. E’ anche la mia pedagogia, la mia scuola di pensiero.

L’articolo completo è in corso di pubblicazione sulla rivista Handicap & Scuola

 




Pedagogia dell’imperfezione o cultura dell’analgesico ?

L’originale contributo di Raffaele Iosa sta suscitando le riflessioni dei nostri lettori.
Pubblichiamo qui l’intervento di Tina Naccarato, docente specializzata di scuola primaria

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Ormai più di 20 anni fa, un eccellente docente universitario utilizzava in maniera reiterata e quasi provocatoria il termine cultura dell’analgesico. Chi scrive, a quel tempo studentessa molto giovane e certamente non avvezza e tantomeno propensa a ricorrere ad analgesici con frequenza, inizialmente accolse tale termine con una certa leggerezza, come un’immagine, una trama, un vezzo dell’argomentazione.
Eppure, a tanti anni di distanza, si ritrova a ricordarlo sempre più spesso, a cercarne vecchi e nuovi significati, ad imparare ancora da quanto imparato rinnovandone sensi ed accezioni alla luce dei tempi che sono.
Ogni analgesico, infatti, è come un oppio che seda e risponde alle impellenze di una diagnosi. Il dolore, l’imperfezione, il difetto devono infatti oggi trovare un farmaco, un medicamento, Se non è cura è terapia, ma non si sfugge.
Così come è vietato invecchiare e sorgono chirurgie miracolose e mirabolanti attraverso cui tutti, più o meno, possono sperare di avere per un tempo indefinito un’età indefinita. E dove non arriva il chirurgo arrivano le magiche correzioni alle immagini, per correggere rughe o capelli bianchi, così da sembrare in foto, almeno sui social media, eternamente giovani.

Sulla stessa via veniamo così alla clinicizzazione dei figli, da aggiustare in qualche modo, se non perfetti. E se proprio perfetti non sono, bisogna diagnosticarlo, così non ci sono colpe e responsabilità. Il bimbo, finalmente medicalizzato, può dunque permettersi di essere imperfetto. Diviene possibile anche fare a meno di quella faticosa resilienza, perché le difficoltà sono descritte nei certificati e dunque anche lo sforzo per superarle può essere ridimensionato.

Certo, è bene precisare, non si vuole qui in alcun modo sminuire la portata, le ricadute o il grande impatto traumatico che una disabilità comporta a chi la vive ed alla sua famiglia. Non è certo questo il senso del presente breve intervento. Tuttavia, non si può non rilevare, come acutamente ha fatto R. Iosa, il proliferare di un diagnosticismo crescente e non può non sorgere il dubbio che una parte di esso risponda ad un bisogno sociale di clinicizzare per anestetizzare.
Se qualcosa sembra non andare come atteso serve un medico, una terapia, un analgesico, perché l’imperfezione non ha cittadinanza.
A scuola sarà inclusione o piuttosto, come osserva Iosa, prevale la certificazione ideologica di chi non si riesce ad adattare in modo naturale e attivistico alla scuola?
Sarà ancora possibile una visione olistica dell’alunno con certificazione oppure la strada è ormai aperta per la restaurazione di una contestata medicalizzazione di antica memoria? Chi scrive sposa con ostinazione la speranza di una visione organica dell’individuo, nelle sue peculiari specificità, ma teme la deriva atomizzante, la pedagogia del sintomo, fino agli estremi della farmacologia, perché ne ravvisa le tendenze, anche nelle famiglie: l’insegnante è mio e me lo gestisco io, perché mio figlio ha questo ed ha bisogno di questo…
E l’inclusione? Cosa resta? Il groviglio della burocrazia, le giacchette tirate alle nomine dei supplenti, la presentazione dei documenti secondo lo scadenzario della scuola? E in classe invece?
La parcellizzazione delle personalizzazioni e delle individualizzazioni, rigorosamente elencate nere su bianco per scongiurare i ricorsi un giorno sì e l’altro pure? Cosa resta però dello sguardo su di sé e sull’altro, dell’accoglienza della differenza, ma vera, reale, concreta, fatta anche delle nostre imperfezioni? Siamo ancora in grado di accettare senza giustificazione, di volere nonostante, di amare incondizionatamente?
Eppure servirebbe assai, perché la vita è continuum, è divenire, è cambiamento è possibilità: ogni giorno un’etichetta spegne il sogno di un bambino, gli toglie speranza, se essa perde la sua funzione di strumento per il supporto per divenire dispositivo giustificazionista.
Chi assume quest’ultima visione, va da sé, potrà forse fornire analgesici, ma non potrà mai insegnare a superare il dolore dell’accoglienza della specificità, che, sia pure imperfetta, rimane comunque la sola modalità e possibilità di esistenza, la vita stessa.




Educazione civica

Presso la Commissione Cultura del Senato è in discussione il disegno di legge sull’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado.
Nella pagina dedicata al tema sono disponibili il testo del ddl e altra documentazione.




Come si diventa insegnanti

di Paolo Fasce, docente di scuola secondaria di secondo grado

Come si diventa insegnanti?
Ce lo ha spiegato Marco Bollettino in un articolo riportato su GessettiColorati e che mi permetto di integrare con considerazioni autonome. Dico subito che condivido ogni virgola del contributo di Marco.
Segnalo un paio di articoli che contengono miei contributi sul tema del precariato scolastico di quasi dieci anni fa.
Uno su NazioneIndiana del 3 settembre 2010 e l’altro su CarmillaOnLine del 27 settembre 2010).
Quando ero insegnante precario mi attivai subito per incalzare il Governo sul fronte delle assunzioni. Forse Bollettino potrebbe etichettare il mio lavoro di allora come quello delle lobby che denunciava nel suo articolo e, naturalmente, può essere così perché quando uno è nel bisogno si dà da fare.
Invero, devo dire, “darsi da fare” è cosa che ho fatto, non sempre circondato dalle folle, ma spero di poter affermare che, al netto di qualche iperbole che oggi leggo con affetto, ho sempre cercato di essere intellettualmente onesto. In buona sostanza, quando le frange più “estremiste” chiedevano l’assunzione di tutti gli insegnanti delle GaE, io lo ritenevo impossibile ed elaboravo la “proposta scientifica per un veloce assorbimento delle graduatorie ad esaurimento” che prendeva a prestito dalla teoria dei giochi l’algoritmo del matrimonio per sposare domanda e offerta territoriale. Un’ottimizzazione, non una soluzione che è poi stata data dalla Legge 107/2015 che, paradossalmente, ha aderito alle richieste più estreme di un tempo: svuotare le Graduatorie ad Esaurimento! Degli errori di implementazione dell’algoritmo, e delle conseguenti proteste non del tutto edificanti (ricordo la parola chiave “deportazioni”) ne ho già parlato da queste parti .
Orbene, gran parte delle mie critiche, allora si concentravano sull’anello di congiunzione, mancante, tra formazione iniziale e reclutamento. L’istituzione delle SSIS (attive per 9 cicli fino al 2009) e i tre seguenti TFA (banditi dopo una pausa di qualche anno che voleva evitare la creazione di nuovo precariato tra gli abilitati) forniva personale profilato e preparato con un biennio (SSIS) o un anno (TFA) orientato all’approfondimento pedagogico e didattico (molto più di questo, ma voglio essere sintetico), ma latitavano i concorsi, quindi l’unico canale era la graduatoria.
Orbene, sempre la 107/2015 risolse questo problema. Non già direttamente, ma tramite l’emanazione del D.Lgs. 59/2017 che innestava un percorso a numero chiuso di specializzazione (pagata, come succede a Medicina, con un “assegno di studio”), già dopo la laurea triennale. Dopo quel segmento era quindi previsto di accedere alla formazione iniziale che dopo un biennio (tipo SSIS) procedeva con un tirocinio (tipo TFA) e, infine, con l’assunzione. Finalmente tutto tornava entro un orizzonte di senso.
E invece no. Subito si sono levate le legittime lagnanze di precari che, entrando tramite questo percorso (chiamato FIT) perdevano le supplenze remunerate con stipendio iniziale, ma pieno (mentre l’assegno di specializzazione era più basso) e invece di correggere la stortura, ciò che è avvenuto è molto semplice e disastroso: il D.Lgs. 59 è stato riscritto e quanto di buono conteneva, cancellato.
Bisogna rilevare le differenze sostanziali tra 10 anni fa e oggi. Oggi non ci sono in giro molti abilitati. I percorsi SSIS+TFA hanno trovato il canale concorsuale riservato (o giù di lì) e l’abilitazione non esiste di fatto più, in quanto è acquisita automaticamente dai vincitori di concorso (ma non necessariamente dagli “idonei”). Il combinato disposto di questa abrogazione con quota 100 ha prodotto una scuola che, in questi anni, abolita la formazione iniziale e il canale FIT, si modella sull’improvvisazione. Centinaia di migliaia di precari vengono nuovamente assunti ogni anno senza che questi siano neppure abilitati. Semplici laureati.
Lo Stato ha inventato un pannicello caldo. Per insegnare (o meglio: per partecipare ai concorsi) occorrono 24 CFU di area psicopedagogica. Vengono elargiti da tutte le università del Regno, anche quelle telematiche, e si risolve tutto con un esame a crocette che non nega a nessuno, pagando s’intende, questi titoli necessari.
Da genitore mi permetto di concludere con: arridatece le SSIS.




Le supplenze aumentano, ma non è colpa del destino cinico e baro

di Marco Campione
(dalla rivista on line Il Mulino)

Per ogni pensionamento per Quota 100 ci sarà un nuovo posto di lavoro per i nostri giovani! Così hanno tuonato le grancasse governative per far digerire anche ai non beneficiati una misura che uccide il futuro di un Paese e penalizza proprio i giovani, che dovranno pagare i prepensionamenti dei loro padri (v. C. Mazzaferro, Chi pagherà le pensioni dei giovani di oggi?, “il Mulino”, n. 3/2019). Che nel settore privato questa fosse una palese bufala lo sapevamo; speravamo, però, che almeno potesse essere mantenuta la promessa per lo meno per il settore che dipende direttamente dal governo, quello pubblico. In particolare la scuola, dove il numero di dipendenti è significativo e il precariato penalizza non solo i precari stessi ma soprattutto gli studenti. Invece niente.

Dei 25.000 docenti che andranno in pensione anticipata per Quota 100, almeno metà non sarà sostituito da docenti di ruolo. A questi si sommeranno quelli che non saranno sostituiti perché le graduatorie sono esaurite e manca personale (anche precario) che può insegnare quelle materie. Corrado Zunino ha stimato che delle quasi 60.000 assunzioni autorizzate metà non saranno coperte per assenza di candidati (C. Zunino, Scuola, 40 mila in pensione e non saranno sostituiti. A settembre i supplenti saranno 170 mila, “la Repubblica”, 16.7.2019). In particolare per alcune materie scientifiche (per esempio matematica), per il sostegno, e in alcune aree geografiche (concentrate nel Nord del Paese). Il totale sarà di almeno 41.000 posti che avrebbero dovuto coprire con personale assunto a tempo indeterminato e invece rischia di essere oggetto della indecorosa giostra di supplenti. Chi non ha figli a scuola non può saperlo, ma su un solo posto capita di avere il supplente del supplente del supplente del titolare (che non c’è): tre stipendi per un posto!

Sul precariato un solo dato per dare l’idea di come basti poco per disfare ciò che si è faticosamente costruito: quando nella scorsa legislatura si insediò il governo Renzi, circa il 20% delle cattedre era coperto da supplenti; cinque anni dopo questa percentuale era dimezzata. Lo scorso anno, primo della nuova “gestione”, siamo risaliti al 15% e il prossimo andrà probabilmente peggio, tornando secondo alcune stime ai livelli pre-Renzi. Cinque anni di lavoro per riportare il precariato a livelli fisiologici, un anno di governo del cambiamento e torna a livelli patologici.

Clicca qui per leggere l’intervento completo




Come diventare docenti senza superare un concorso

Pubblichiamo qui un contributo di Marco Bollettino, docente di scuola secondaria di secondo grado.
L’articolo è ripreso dal sito  Le Parole e le cose 

Quando eravamo studenti, quasi nessuno di noi voleva, poi, diventare un docente. Ma finita l’università, quando i colloqui in azienda scarseggiano e uno stipendio ogni mese comincia a far comodo, ecco che la prospettiva di passare dall’altra parte della barricata comincia a diventare appetibile.

Ma come si diventa insegnanti, in Italia?

 In rete trovate delle ottime guide su come diventare docenti che però, in sostanza, si limitano a dirvi che dovete partecipare e vincere un concorso ordinario. Dopotutto alla Pubblica Amministrazione si accede solo per concorso, come da Articolo 97 della Costituzione, giusto? Sbagliato.
L’articolo, infatti, continua con una preziosa frasetta, “salvo i casi stabiliti dalla legge”, che è un eufemismo per “sanatoria”. Questa guida non vi spiega come superare il concorso, ma come avere i requisiti per partecipare alla sanatoria che, puntualmente, arriverà subito dopo.

I concorsi, infatti, sono spesso selettivi e deludono le aspettative dei tanti aspiranti docenti che vi partecipano e non li superano. Questi ultimi, per una comoda cifra che può variare dai 150 ai 200 euro, trovano sempre un bel team di avvocati pronti a sostenere, davanti ai giudici del Tar, che la selezione non è valida perché non ha seguito i criteri di trasparenza, obiettività, ragionevolezza e chi più ne ha, più ne metta.

I loro assistiti, infatti, non sono riusciti a superare la prova non per demerito, ci mancherebbe, ma per negligenza di chi ha organizzato il concorso! Vanno reintegrati, la loro posizione va sanata, dopotutto sono docenti che insegnano da tanti anni e, seppure fermati al concorso, torneranno comunque a settembre in cattedra come supplenti, come precari. E il precariato nella scuola è un problema che va risolto!

Il Tar non sempre accoglie, ma la politica sì, perché gli insegnanti votano, fanno votare e sono tanti. Ma per rientrare nella sanatoria bisogna prima “diventare” insegnanti “precari” e cioè accumulare servizio.

Ma come si fa, se si parte da zero? Niente paura, vi guiderò passo, passo.

Tutti al nord! Poi si torna a casa, ma solo con la mobilità

Tranne qualche caso isolato, un neolaureato difficilmente riesce a lavorare come supplente in una regione del Sud e quindi, per farlo, è costretto a trasferirsi anche molto lontano da casa. Toglietevi dalla testa il mare e iniziate a immaginare una bella valle del Nord avvolta nella nebbia, perché quella diventerà la vostra casa per gli anni a seguire.

Ma non commettete il classico errore di partecipare al concorso-sanatoria vicino casa, se la regione è già satura. A casa non ci si torna con il concorso, ma solo dopo, con la mobilità.

Ogni anno più di 100 mila insegnanti chiedono il trasferimento, in gran parte da Nord a Sud. I posti a disposizione rimangono gli stessi, ma la loro allocazione geografica cambia. Poiché quando si determinano i posti da bandire si fanno i conti sui pensionamenti, ma senza poter sapere quali e quanti saranno i trasferimenti, quel che accade è che al Sud i posti messi a concorso sono spesso molti di più di quelli effettivamente a disposizione.

Se concorrete lì, rischiate di vincere il concorso ma finire in una graduatoria che, però, non scorrerà mai. Al Nord, invece, capita esattamente l’opposto e le graduatorie scorrono velocemente. Ascoltate un consiglio: prima ottenete il ruolo, poi pensate al trasferimento.

 Siamo tutti MAD!

Ma come iniziamo a fare supplenze? Una volta si sceglievano 20 scuole di una provincia e si chiedeva l’iscrizione nella terza fascia delle Graduatorie di Istituto, da cui venivano chiamati i docenti per le supplenze. Dall’approvazione della legge 107 non è più possibile farlo.
Chiusa una porta, si apre un portone. Se le graduatorie sono esaurite, infatti, le scuole possono individuare direttamente i supplenti, scegliendo tra quelli che hanno inviato loro una domanda di messa a disposizione, in gergo tecnico MAD (Nomen omen).
Il gioco diventa, quindi, individuare quali, tra le materie che la nostra laurea ci permette di insegnare, hanno le graduatorie esaurite e inviare in quelle scuole le vostre dichiarazioni di messa a disposizione.
E non preoccupatevi se tra le discipline che potete insegnare ce ne sono alcune di cui sapete poco e nulla. L’obiettivo non è insegnare ciò che si conosce bene, ma lavorare per almeno 180 giorni in un anno (quota minima per considerare l’anno come “intero” nelle graduatorie e nei concorsi) e accumulare punteggio. La conoscenza della materia è secondaria – potrete sempre prepararvi le lezioni di volta in volta – e tanto nessuno vi potrà mai cacciare perché non conoscete la disciplina che insegnate, o almeno non potrà farlo in tempo per la fine dell’anno scolastico.
Se poi temete di non essere in grado di selezionare chirurgicamente le scuole in cui presentare le vostre domande di messa a disposizione, potete sempre tentare il “metodo statistico” e inviare il curriculum a tutte le scuole della Repubblica. State sicuri che prima o poi squillerà il telefono e, dall’altro capo, ci sarà una segreteria didattica disperata perché non riesce a trovare un supplente.

Abilitarsi a tutti i costi

Bene, siamo riusciti a ottenere una supplenza, anche se in una provincia sperduta. A cosa ci serve l’abilitazione?
In teoria a poco e niente, visto che nel Decreto legislativo 59/2017, che aveva riformato le procedure di reclutamento dei nuovi docenti, non se ne faceva menzione. Ma, come spesso accade, in Italia è più importante quel che si fa attraverso le procedure straordinarie di quanto prescrivano quelle ordinarie.
E per accedere alle procedure straordinarie l’abilitazione è un requisito anche più importante del servizio. Tra il 2017 e il 2018, tutti quelli che erano provvisti di abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria, ottenuta tramite la procedura ordinaria (Tfa), la sanatoria (Pas) o con un corso all’estero (laddove il Miur l’ha riconosciuta) hanno potuto accedere a un concorso “semplificato”.
In pratica, se eravate in possesso dell’abilitazione, potevate andare all’orale, fare scena muta, ed essere comunque inseriti in una graduatoria di “merito” (!) che vi avrebbe dato il diritto a ottenere, prima o poi, la cattedra in ruolo. La stessa cosa si sta facendo, in questi mesi, per i ruoli della Scuola dell’Infanzia e della Scuola primaria.
Ogni procedura “straordinaria” viene sempre presentata come l’ultima, prima di partire con i rigorosi e puntuali concorsi ordinari. Ma, come per le sigarette di Zeno, ce n’è sempre una successiva e bisogna essere all’erta e arrivare pronti.
Prendere l’abilitazione è, quindi, imperativo tanto quanto accumulare servizio. Se è previsto un percorso, ordinario o straordinario, fatelo, se non c’è acquisitela all’estero, ad esempio in Spagna (occhio, però, a farlo solo con percorsi di cui il Miur riconoscerà la validità).
L’abilitazione vi dà anche un altro vantaggio. Infatti, gli insegnanti abilitati possono accedere alla seconda fascia delle Graduatorie di Istituto, passando davanti, quindi, a tutti quelli che sono ancora presenti in terza fascia o che hanno solo inviato una Mad.

Zeru tituli? No grazie

Tutte le sanatorie sono dei concorsi per titoli e servizio ed è, quindi, imperativo riuscire ad accumulare quanti più punti possibile anche nella sezione titoli, per non essere scavalcati. Se non avete un dottorato, una seconda laurea o una certificazione linguistica di livello almeno C1, per racimolare qualche punticino vi tocca ripiegare sui classici Master da 60 crediti a pagamento: ce ne sono un’infinità, non sono a buon mercato, ma non averli rischia di farvi scavalcare da chi li ha fatti.

Conclusioni

Questo pezzo, in realtà, più che essere una guida per l’aspirante docente che vuole entrare in ruolo (e vi assicuro che quel che ho scritto corrisponde alla realtà), vuole essere una piccola denuncia, rivolta a chi non è un addetto ai lavori, riguardo a come la Scuola italiana recluta una buona parte del suo personale docente.
Quante volte avete sentito parlare del problema del precariato nella Scuola? Tantissime, vero? E immagino che nell’immaginario collettivo il docente precario sia quello che lavora sempre nella stessa scuola, anno per anno, senza mai poter ottenere il ruolo perché la Pubblica Amministrazione non bandisce i concorsi.
Bene, questa descrizione è vera solo per una ristretta minoranza di persone. Sono tante di più quelle che lavorano come precari non per mancanza di concorsi ma perché non li hanno mai superati (o magari non li hanno mai nemmeno affrontati). Se ottengono, ogni anno, la cattedra è solo perché il meccanismo di assegnazione delle supplenze favorisce chi ha tanto servizio alle spalle.

Chi lavora da tempo continuerà a farlo e continuerà a chiedere una sanatoria.
E quante volte abbiamo assistito alle lamentele di docenti che si sono autodefiniti deportati, esiliati o immobilizzati? Lo sapete che i docenti deportati sono quelli che erano da anni in una graduatoria per il ruolo che non scorreva e hanno accettato volontariamente di trasferirsi altrove, pur di ottenere una cattedra in ruolo? E che i docenti esiliati/immobilizzati sono coloro i quali hanno vinto il concorso fuori regione e, visto che non riescono a tornare con la mobilità, pretenderebbero farlo per altre vie?
Ma se i posti non ci sono, come si fa? Si creano cattedre senza alunni, si spostano i bambini? Mistero.
Sono solo tre paginette, ma ci trovate tanti dei motivi per cui la Scuola italiana non funziona: la mancanza di programmazione dei percorsi ordinari di reclutamento, le immancabili sanatorie, i ricorsi, l’impossibilità di espellere da scuola i docenti che fanno danni, l’anzianità di servizio come principale fonte di diritti, il business delle abilitazioni all’estero e dei corsi di formazione che servono solo ad accumulare punti.

Va bene discutere di massimi sistemi, ma forse è meglio che tutti i portatori di interesse della scuola inizino ad interessarsi anche di quei meccanismi pratici che rischiano di minare alle fondamenta qualsiasi tentativo di riforma della scuola.

Potremo, in teoria, avere la scuola migliore del mondo, ma se reclutiamo gli insegnanti a suon di sanatorie non c’è da stupirsi se i risultati saranno pessimi.




Come scegliere i futuri dirigenti scolastici?

Pubblichiamo questo interessante documento che nasce da una riflessione collettiva promossa e stimolata da Giancarlo Cerini tramite il Forum reclutamento dirigenti [1]

Una premessa doverosa: come nasce la proposta?

Dalle risposte pervenute ai quindici quesiti proposti inizialmente ad un gruppo di una ventina di “testimonial” emerge un’idea sostanzialmente condivisa di come si dovrebbero rinnovare le procedure per il reclutamento dei dirigenti scolastici. Questo, a maggior ragione, anche alla luce della situazione che si è venuta a determinare con gli interventi della Magistratura (in particolare con la Sentenza del TAR del Lazio del 2-7-2019 e la successiva sospensiva del Consiglio di Stato) che mettono a rischio la possibilità di concludere l’iter concorsuale con la nomina dei neo-dirigenti all’inizio dell’anno scolastico 2019-2020 e che, comunque, lasciano dietro di sé una scia infinita di polemiche e di incertezze.

Tuttavia, l’idea di studiare forme più efficaci di reclutamento dei dirigenti, non nasce direttamente dalle attuali difficoltà (né interviene nel merito del contenzioso in atto), semmai scaturisce dalle evidenti criticità che si sono manifestate lungo tutto il percorso concorsuale (ma anche nei precedenti), segnalate sia da chi ha superato positivamente le prove, sia da chi non vi è riuscito. Nel gruppo dei soggetti interpellati abbiamo infatti dato voce agli uni e agli altri affinché elaborassero proposte fattibili, con toni pacati e al netto di tutte le distorsioni emotive che si sono manifestate in rete. Potremmo ben dire che si è trattato del primo concorso pubblico per dirigenti nell’era di Facebook, all’inizio in forma di pacati gruppi di preparazione, studio, mutuo aiuto, poi (inevitabilmente?) di tifoserie contrapposte.

La presenza nel gruppo di discussione di studiosi, capi di istituto, dirigenti tecnici, tutte persone che si sono misurate con il problema della formazione dei futuri dirigenti, rende il confronto delle opinioni una preziosa base per intervenire, si spera in tempi brevi, a ripristinare quella fiducia tra insegnanti, potenziali candidati, pubblica amministrazione, opinione pubblica, che sembra essere venuta meno anche a seguito di questa vicenda. Vorremmo, cioè, che l’accesso alla qualifica dirigenziale avvenisse attraverso procedure credibili, trasparenti e condivise, efficaci e tempestive, come si chiede in un paese civile.

E’ (ancora) tempo di concorsi?

L’accesso alla qualifica di dirigente scolastico viene, quasi all’unanimità, ascritto a procedure concorsuali pubbliche (come richiede la Costituzione), riservate a chi abbia svolto in precedenza la funzione di insegnante (quindi riconoscendo una comune radice/ragione culturale allo svolgimento di questo ruolo). Si chiede però in maniera netta di assicurare la tempestività dei concorsi (la scadenza preferita è quella biennale, ma qualcuno la vorrebbe annuale, altri triennale), ben sapendo che negli ultimi vent’anni tutte le prescrizioni legislative sulla tempistica dei concorsi sono state largamente disattese. Si segnala anche che l’accesso per pubblico concorso dovrebbe tenere sgombro il campo (tra un concorso e l’altro) da aspettative, interessi, contenziosi, graduatorie, collegati alle alterne vicende legislative e amministrative tipiche della nostra politica scolastica, troppo spesso avvezza a dar ascolto ai cosiddetti diritti acquisiti (chissà, poi!), piuttosto che al merito.

Un buon concorso richiede tempestività e continuità di azione (ad esempio, le regole e le modalità non dovrebbero cambiare ad ogni tornata concorsuale), ma anche la riduzione del sovraccarico di partecipanti (ultimamente dell’ordine delle decine di migliaia). Questo si può ottenere solo aprendo prospettive diverse nello sviluppo professionale dei docenti (cioè opportunità sostanziose di carriera e di riconoscimenti economici), anche per lo svolgimento di funzioni di sistema diverse da quelle di insegnamento.

E’ minoritaria, tra i partecipanti al forum, l’idea di una selezione diretta (una sorta di chiamata o di incarico) attribuita al Direttore Scolastico Regionale, mentre generalizzata è la richiesta che il profilo di professionalità acquisito all’interno della scuola conti di più nella selezione del personale dirigente, con idee però ancora diverse.

L’elettività del dirigente: ipotesi tramontata?

Lo sviluppo del sistema scolastico avvenuto negli ultimi vent’anni (attribuzione alla scuola dell’autonomia e della personalità giuridica, processi di dimensionamento, qualifica dirigenziale riconosciuta ai capi di istituto) sembra non offrire più spazio a procedure di nomina “dal basso” e per periodi limitati di docenti eletti dai loro colleghi, come pure avviene in alcuni (pochi) paesi europei. L’ordinamento scolastico e la presenza di istituzioni ad alta complessità gestionale fanno preferire una soluzione giuridico-amministrativa imperniata sulla figura di un dirigente pubblico cui attribuire significative prerogative in materia gestionale ed organizzativa. Si è tuttavia consapevoli che questa scelta potrebbe ridurre il raggio di azione del dirigente, spostandolo verso la dimensione puramente amministrativa. Occorre prendere atto del pesante ruolo pervasivo e performante che il diritto amministrativo ha assunto nella gestione di taluni servizi pubblici, come la scuola, a scapito di una maggiore attenzione alla specificità tecnica del servizio reso.

D’altra parte, una cooptazione dal basso non è detto che porti alla scelta dei colleghi migliori e più adatti alla funzione (forse ai più graditi). Comunque, l’idea di affidare a personale anche eletto dai colleghi alcune delle funzioni intermedie e di collaborazione è gradita, magari con riferimento al presidio di funzioni fortemente connesse alla sostanza pedagogica del fare scuola, agli snodi culturali, organizzativi ed operativi da presidiare. L’aver svolto questo tipo di funzioni, precisando le modalità di reclutamento, le competenze e le responsabilità di tali figure, può diventare elemento qualificante di un curriculum professionale dell’aspirante dirigente scolastico (un prerequisito per essere ammesso al percorso). Questa ipotesi, secondo alcuni, potrebbe rappresentare una valida alternativa all’istituto della reggenza (fortemente criticato a tutti i livelli).

L’ipotesi del sorteggio viene evocata solo da alcuni per mettere in evidenza i paradossi e gli aspetti di aleatorietà insite anche nelle attuali procedure concorsuali.

Preparazione culturale, esperienza o attitudine?

Nella selezione a qualifiche di pregio l’accertamento delle caratteristiche culturali di un soggetto (da affidarsi anche a step della procedura concorsuale) dovrebbe essere affiancata dall’apprezzamento delle potenziali competenze operative e professionali (il saper fare del dirigente) da acquisire attraverso l’esperienza sul campo o, meglio, il tirocinio guidato e assistito. Qualche perplessità viene manifestata verso l’idea di valorizzare l’esperienza svolta a scuola, anche perché non sempre oggetto di verifica e di valutazione. Ci si riferisce ai ruoli di collaboratore e simili, che sembrano appannaggio di pochi eletti.

Viene richiesta, da molti, anche una valutazione delle qualità psico-attitudinali allo svolgimento di una funzione che si traduce in larga parte in una azione di relazione e di dialogo professionale. Si è però consapevoli della fragilità di tali strumentazioni psico-diagnostiche e della difficoltà ad inserirle in procedure pubbliche di reclutamento (perché dovrebbero essere affidate ad agenzie specializzate).

L’esperienza di carattere professionale dovrebbe assumere un maggiore peso, attraverso un adeguato riconoscimento in termini di punteggio complessivo che si affianca a quello delle prove d’esame, piuttosto che come soglia di sbarramento iniziale. In questo caso affiorano divergenze tra i partecipanti al forum: qualcuno propone una salomonica quota di accesso (ad esempio, un terzo dei posti) destinata, senza prove preselettive, a coloro che hanno svolto documentate attività di supporto organizzativo e professionale all’interno delle scuole di provenienza. I più giovani, in questo modo, non sarebbero penalizzati.

Come ridurre la platea dei partecipanti e rendere gestibile il concorso

Al di là della tempestività e regolarità dei concorsi, e alla presenza di altre modalità (carriera) di riconoscimento di professionalità è assai probabile che ai concorsi pe dirigenti scolastici si presentino platee sempre assai ampie (contram, la difficoltà a reclutare dirigenti scolastici che sta emergendo in molti paesi europei). Questo dislivello richiede comunque una qualche forma di vaglio selettivo iniziale, che potrebbe basarsi su un mix di curriculum strutturato (e rigorosamente certificato) e di prove preselettive di tipo culturale. Secondo alcuni, l’ammissione dovrebbe basarsi su una graduatoria nazionale per titoli ove apprezzare sia esperienze di tipo professionale ed organizzativo svolte a scuola, sia di carattere culturale e formativo. Viene portato come esempio “sostenibile” il modello trentino, con una prima scrematura centrata sulla documentazione di titoli valutabili, seguita da una procedura preselettiva basata su testing, elaborazione di un portfolio professionale, colloquio-intervista.

Occorre assolutamente evitare che l’accesso al concorso vero e proprio sia affidato a test preselettivi di carattere meramente mnemonico.

E prova preselettiva sia….

Di fronte allo “stato di necessità” dell’alto numero di candidati in partenza (da ridurre con varie modalità) si prospetta l’esigenza di organizzare prove di carattere preselettivo, una volta trovato il dosaggio tra esperienze sul campo e preparazione culturale. In genere si chiede di restringere il campo dei contenuti culturali (giuridici, organizzativi, professionali) eliminando la pretesa enciclopedica che caratterizza l’attuale programma del concorso. Andrebbero evitati dettagli relativi alle diverse branche del diritto, precisazioni sulle teorie dell’organizzazione, minuziose ricostruzioni dei sistemi scolastici europei, per concentrarsi invece sugli elementi portanti dell’ordinamento scolastico, della funzione del dirigente scolastico, sui riferimenti significativi di diritto e di legislazione.

Alcuni richiederebbero anche la presenza di item relativi a conoscenze di carattere logico, o di tipo attitudinale-proiettivo.

Prevale l’idea che il rendere pubblico con un congruo anticipo l’intera batteria di test (banca-dati) aumenti gli aspetti di studio mnemonico sui dettagli, a scapito della comprensione approfondita dei quesiti. La pubblicazione di tutti i test utilizzabili trova però anche qualche estimatore.

Qual è il profilo di dirigente scolastico necessario alla scuola di oggi?

Tutti gli interventi chiedono di prestare una attenzione specifica alle caratteristiche del lavoro di un dirigente, che non può essere assimilato tout court alla dirigenza amministrativa “pura” (che ha come modello la dirigenza ministeriale). Semmai esiste il problema del riconoscimento giuridico ed economico delle accresciute responsabilità dei dirigenti scolastici. Il dirigente è garante della efficacia dell’azione della scuola e della correttezza dei comportamenti di tutti i soggetti che vi operano, ma questo richiede di estendere il raggio di azione ad aspetti squisitamente relazionali, pedagogici, organizzativi, gestionali che mettano al centro i compiti istituzionali affidati al sistema formativo. Questo significa che non è sufficiente la conoscenza puntuale delle leggi, ma che occorre coglierne il senso evolutivo, lo spirito, il valore culturale ed educativo.

Occorre tenere in equilibrio l’esercizio della leadership educativa (che è fatta prevalentemente di relazioni con le persone) con lo svolgimento di funzioni di indirizzo organizzativo e gestionale, anche attraverso la presenza di una rete di figure di collaborazione.

Sotto il profilo strettamente giuridico il quadro delineato nel D.lgs. 165/2001 è considerato esauriente (anche con talune precisazioni apportate dalla Legge 107/2015, come quelle contenute nei commi 78 e 93), anche se alcuni vorrebbero comunque rafforzare la dimensione educativa. Il dirigente dovrebbe presidiare i luoghi della didattica e non solo la correttezza delle procedure amministrative. Il questionario, però, non chiedeva di esprimersi direttamente sugli eventuali effetti distorsivi della qualifica dirigenziale all’interno di una organizzazione culturale, ispirata a valori comunitari e con ampi margini di discrezionalità professionale negli addetti (la c.d. libertà di insegnamento).

Quale profilo emerge dalla procedura concorsuale?

Si è alla ricerca di un equilibrio tra la dimensione educativa e culturale del profilo del dirigente e quella gestionale e manageriale, perché considerate entrambe necessarie, ma da dedurre non da un profilo astratto, ma da una effettiva ricerca sul campo del lavoro quotidiano del dirigente. Qualcuno si spinge fino a quantificare il rapporto tra dimensione educativa (60%) e amministrativa (40%): ma i confini tra le due aree non sono così netti. Occorre comunque rafforzare la dimensione educativa-organizzativa (contenendo quella giuridico-astratta) attraverso la formazione iniziale ed in servizio e con un diverso bilanciamento della procedura concorsuale.

Nella composizione delle commissioni bisognerebbe evitare di inserire professionalità avulse dal contesto scolastico (come ad esempio, presenze accademiche di discipline lontanissime dal mondo della scuola), privilegiando l’appartenenza al campo educativo, come ad esempio le figure di dirigenti tecnici (quasi assenti) o di dirigenti scolastici di comprovata esperienza o autorevolezza.

Anche la composizione del paniere dei quesiti dovrebbe rispecchiare una diversa idea della dirigenza scolastica, mentre si ha l’impressione che l’apparato ministeriale (responsabile del concorso) sia piuttosto preoccupato delle incombenze di minuta gestione che i dirigenti devono spesso disbrigare a fronte delle carenze delle segreterie o dei numerosi compiti ad esse delegate.

Prove scritte short o narrative?

La struttura dei quesiti brevi a molti non appare soddisfacente per mettere alla prova competenze operative. Alcuni, tuttavia, la ritengono una soluzione efficace, che però dovrebbe disporre di un maggior tempo a disposizione (ad esempio, il doppio di quello attualmente previsto), per consentire approfondimenti più mirati. Si fa strada l’idea di ricorrere ad analisi più narrative di dossier che comportano la comprensione e la ponderazione di situazioni complesse, come quelle che in genere deve affrontare un dirigente (dispersione, inclusione, valutazione, organizzazione). Non mancano i suggerimenti mediati: la prova scritta potrebbe comprendere una serie di quesiti puntuali in cui testare la padronanza di strumenti giuridici e amministrativi, ma anche un caso più articolato, con il quale mettere alla prova il “senso pratico” del futuro dirigente nell’affrontare i problemi che si incontrano a scuola.

Il peso delle lingue straniere appare eccessivo (magari da sostituire con la presentazione di certificazioni adeguate), da potenziare invece le tematiche dell’e-leadership.

Orale a quiz o colloquio approfondito?

Anche le prove orali dovrebbero evitare la strada stretta dei quesiti puntuali a sorteggio (che tra l’altro non rappresentano l’intero spettro dei contenuti del bando di concorso) e soffermarsi su una più distesa analisi di questioni professionali, ove mettere alla prova le intuizioni e la visione prospettica e progettuale dei futuri dirigenti con la padronanza di strumentazioni operative, gestionali ed amministrative.

Esiste la consapevolezza che non basta una sola domanda (o una sola tipologia di prova) per verificare le competenze potenziali di un futuro dirigente scolastico. Nel reclutamento di “alte” professionalità si combinano diverse metodologie, che vanno dia colloqui attitudinali alle simulazioni, dalle interviste ai giochi di ruolo, ma è evidente che una procedura pubblica pone numerosi vincoli, oltre alla questione tempo e numerosità dei partecipanti. Inoltre, occorre disporre di un “corpo” professionale di valutatori o selezionatori del personale.

Nell’attuale contesto, comunque le domande della prova orale dovrebbero essere più aperte, rappresentare le diverse aree di competenza del dirigente, essere minimamente contestualizzate alle effettive condizioni di operatività di un dirigente. Una soluzione potrebbe prevedere di raggruppare i quesiti in tre grandi aree (aspetti organizzativi, aspetti amministrativi, aspetti pedagogici), da sondare con tre diverse domande in sede d’esame. Qualcuno propone di rendere pubblica l’intera banca-dati dei quesiti potenziali. L’elaborazione delle domande andrebbe affidata ad un livello nazionale, o comunque con una validazione nazionale.

In prospettiva, la prova orale si dovrebbe presentare come conclusiva di un percorso di tirocinio e di stage formativo, perché allora si potrebbe evitare il sorteggio dei quesiti, per collegare invece il colloquio a quanto avvenuto nella fase di tirocinio e nella discussione di un portfolio professionale.

Le regole del gioco dovrebbero essere conosciute con largo anticipo dai partecipanti e non essere soggette a cambiamenti durante lo svolgimento del concorso, ma diventare stabili nel tempo.

Quale credibilità per i membri delle commissioni?

E’ giudizio condiviso che la mancanza di un tempo equo per il lavoro delle commissioni (che ha portato alla frettolosità e approssimazione che spesso si leggono in alcune verbalizzazioni), l’assenza di esonero dal servizio per gli stessi membri, la mancanza di un dignitoso riconoscimento economico, sono tutti fattori che rendono fragile la composizione delle commissioni d’esame e la loro piena funzionalità. Già si è segnalato l’esigenza di un riequilibrio nella composizione delle stesse, con la presenza di effettive competenze pedagogiche, amministrative e professionali.

Emerge l’idea di affidare ad una struttura dedicata (una sorta di board permanente per il reclutamento del personale) le procedure concorsuali, nella duplice opzione di:

  1. Un comitato scientifico permanente di elevata levatura professionale e di inattaccabile autorevolezza, che svolga funzioni di preparazione di quadri di riferimento, griglie, tracce dei quesiti e delle prove (una sorta di gruppo di regia nazionale);
  2. L’istituzione di un albo cui attingere le diverse professionalità necessarie per l’espletamento delle operazioni concorsuali.

Emergono, tuttavia, diversità di opinioni sul tema della discrezionalità delle commissioni: secondo alcune va radicalmente contrastata attraverso la esplicita “proceduralizzazione” di tutti i passaggi, la formulazione nazionale di quesiti, al limite la correzione sulla base di algoritmi inoppugnabili (di qui la preferenza per saggi brevi); altri rivendicano una maggiore discrezionalità da parte dei diversi soggetti implicati nella gestione del concorso, controbilanciata tuttavia dalla rendicontazione dei risultati ottenuti e dal principio di responsabilità (che è cosa diversa dagli esiti di un contenzioso giurisdizionale).

L’esperienza della “randomizzazione” nella correzione delle prove e nello svolgimento dei colloqui sembra aver dato qualche esito significativo, in termini di maggiore equità. Tuttavia la sede di lavoro delle commissioni dovrebbe essere unica.

Un solo concorso (nazionale) o tanti concorsi (regionali)?

La procedura nazionale è largamente preferita, anche se alcuni preferirebbero un significativo decentramento a livello regionale. Occorre però professionalizzare le commissioni attraverso un reclutamento mirato, una attività formativa preventiva ed efficaci forme di coordinamento tra le diverse commissioni. Le commissioni dovrebbero disporre di strumenti di lavoro comuni e introiettare comuni criteri di valutazione. Al di là delle criticità formali dell’attuale concorso (su cui si dovrà esprimere la magistratura amministrativa) ciò che ha fatto scalpore è la notevole difformità nei comportamenti valutativi delle commissioni, sia nelle prove scritte, sia nelle prove orali, nonostante il possibile effetto “calmieramento” della randomizzazione delle assegnazioni di correzioni e colloqui. Ma si tratta di valutazioni di merito non sindacabili in un contenzioso giurisdizionale.

Ogni quanti anni bandire il concorso?

Il ritmo torrentizio nell’indizione dei concorsi per dirigenti (con lunghi periodi di silenzio alternati ad improvvise tornate concorsuali per decine di migliaia di partecipanti) è una delle cause della gestione faticosa degli attuali concorsi. La norma prevede l’indizione triennale dei concorsi, ma negli ultimi vent’anni è sempre stata disattesa anche se rilanciata con scadenzari precisi all’interno di leggi più recenti. Esiste la positiva esperienza dei concorsi a direttore didattico, biennali, che hanno egregiamente funzionato per decenni. L’esperienza trentina insegna che è possibile gestire in toto una procedura di reclutamento in un anno solo, ed alcuni discussant si sono appellati a questo precedente.

E’ evidente che una rigorosa scansione programmata pluriennale (ad esempio, ogni due anni) sarebbe un elemento di regolazione della procedura concorsuale evitando molte delle attuali distorsioni. A maggior ragione se, come chiedono alcuni, la partecipazione non potesse essere “reiterata” per più di tre volte, oppure dopo periodi “sabatici” tra un insuccesso e l’altro. Alcuni ritengono che l’amministrazione dovrebbe provvedere ad organizzare momenti formativi per aspiranti alle nuove posizioni, oltre che incentivare la documentazione e la certificazione delle competenze acquisite da docenti sul posto di lavoro e spendibili per la nuova carriera.

Ma, allora, chi dovrebbe far parte delle commissioni?

Occorre evitare la presenza di giuristi puri, non in grado di contestualizzare le conoscenze giuridiche con il loro uso effettivo. Si fa preferire, per il coordinamento delle commissioni la figura del dirigente tecnico (meglio se anche in possesso di esperienza di conduzione di istituzioni scolastiche). Da evitare la presenza della componente accademica o da circoscrivere a settori educativi o di ricerca attinenti alla dimensione scolastica. Minoritaria la posizione di chi vorrebbe solo dirigenti scolastici. Inoltre, sarebbe utile la presenza di valutatori nel campo delle dinamiche relazionali e comunicative.

Come garantire una efficace formazione sul campo, durante il concorso?

Il periodo dedicato alla formazione ed al tirocinio pratico nella scuola, inizialmente previsto dal Bando, è stato “cassato” dal legislatore, a giochi in corso, nella convinzione di accelerare le procedure concorsuali e assicurare con tempestività la nomina dei dirigenti sulle numerose sedi vacanti. Tuttavia, la scomparsa di questo segmento dell’iter concorsuale (che forse era eccessivamente macchinoso, dovendo poi pensare ad una successiva prova orale e scritta, con una diversa commissione) è quasi unanimemente considerata un vulnus ad un modello di reclutamento professionalizzante-

Quasi tutti i partecipanti ritengono che il tirocinio dovrebbe essere oggetto di specifica valutazione all’interno del percorso concorsuale ed avere un suo peso rilevante. Secondo alcuni potrebbe anche sostituire la prova orale, diventando un tutt’uno, come riflessione sulla pratica.

La durata di un tirocinio formativo dovrebbe essere di almeno 6 mesi, fermo restando poi la prosecuzione di una forma di tutoring all’interno di un più lungo periodo di prova. Decisivo il ruolo dei mentor, cioè di colleghi dirigenti esperti che si affiancano ai neo-dirigenti in formazione (alcuni prevedono rotazioni di queste figure).

E come accompagnare i nuovi dirigenti nel loro ”ambientamento” nella dirigenza?

La richiesta è di non ripetere attività di formazione e informazione sui molteplici contenuti culturali previsti nel programma del concorso o nell’astratta disamina del profilo richiesto al dirigente. Servirà, piuttosto, una formazione personalizzata, ritagliata sugli specifici bisogni formativi dei neo-dirigenti, alla luce del loro curriculum professionale. E’ comunque importante, al di là dei seminari formativi, affiancare il neo-assunto con un dirigente “mentor” in grado di accompagnarlo e consigliarlo nei passaggi più critici della nuova professione. La costituzione di piccoli gruppi di confronto, scambio, mutuo-aiuto (con la guida di un dirigente esperto) potrebbe poi incentivare il lavoro collaborativo.

Al centro dovrebbero stare situazioni concrete, come le capacità relazionali e comunicative, il presidio della didattica, il rapporto con il territorio, le molteplici questioni della valutazione, la gestione delle innovazioni e i processi di rete.

 [1] La redazione del documento è a cura di Giancarlo Cerini, che si è avvalso dei contributi scritti di: Beatrice Aimi, Lisetta Bidoni, Franco De Anna, Vanna D’Onghia, Paolo Fasce, Antonio Giacobbi, Rosalba Marchisciana, Emanuela Marguccio, Elisabetta Nanni, Mauro Piras, Mariella Spinosi, Maria Teresa Stancarone, Stefano Stefanel, Antonio Valentino, Maria Rosaria Villani, Lorella Zauli.