Nomen Omen: le rose e il pane

matita
di Alessandra Fantauzzi

Rosa: la rosa, rosae: della rosa, rosae: alla rosa- recitavo, lo sguardo fisso al putto alato che faceva da piantana al lume, tormentando di piccoli nodi la frangia della sciarpa. Mi chiedevo come facesse Don Giovanni ad ascoltarmi senza tremare, immobile, con gli occhi chiusi e le labbra appoggiate alle mani giunte sotto il mento.
Lo stanzone era gelido ma lui, fermo, senza che il candore delle sue mani fosse sfiorato dal benchè minimo rossore, conservava un’aristocratica eleganza di gesti misurati e solenni, nella leggerezza della sottana di Cady di seta. Era il 1978, il mio primo anno di scuola media. Una legge, l’ anno prima, aveva abolito definitivamente lo studio del latino in quest’ ordine di scuola ma mio padre, convinto sostenitore del valore formativo delle lingue classiche, sopperì al vuoto creato dalla legge, mandandomi a prendere lezioni da Don Giovanni, il parroco del paese.

– Rosae, rosarum, rosis, rosas, rosae, rosis.- terminavo la mia declinazione , Don Giovanni riapriva gli occhi e allontanava le mani dalle labbra lasciandole tuttavia intrecciate: – Bene! La rosa: nomen omen.- era il suo lapidario commento, pronunciato come se concludesse una disputa filosofica. “Nomen omen”: la citazione era per me una  chiave, quella che mi avrebbe aperto il passaggio segreto per un mondo che ancora non intedevo ma della cui conoscenza intuivo il valore fondante di architrave culturale e archetipo di humanitas.
Don Giovanni era un uomo colto, aduso  alla pratica della bellezza e a quella del rigore del pensiero: era perciò un raffinato esteta, un pensatore sorprendentemente laico ed educato al metodo.
Amante della poesia di Catullo e di Leopardi, era  lettore insaziabile di Erotodo, Plutarco e Svetonio. Mi sopresero sempre, quando ebbi la capacità di intenderle, le sue citazioni di Sartre e di Marx. Era però un aristocratico sostenitore della cultura per i pochi eletti, un tridentino nel metodo e nello spirito non certamente un parroco “conciliare”.
Nella sua pratica pastorale e didattica era un “selezionatore gentiliano”, così almeno lo definiva Don Savino, il parroco di Morrea che invece era stato partigiano con simpatie per la dottrina sociale o, come dicevano i maligni, socialista.
Don Giovanni era membro del Consiglio d’ Istituto che da quell’ anno e per un triennio, mia madre si trovò a presiedere . Il massimo Organo Collegiale della Scuola e i suoi membri dovettero dare, nel corso di quel triennio scolastico , applicazione  pratica alle norme “rivoluzionarie” introdotte dalla legge 517 nell’ anno precedente: una programmazione degli interventi educativi che rendesse flessibile la rigidità dei Programmi Nazionali e creasse percorsi di apprendimento individualizzati, nei quali si incontrassero  l’ epistemologia delle discipline e le strategie cognitive di ciascun ragazzo. Non era per stigmatizzare le diversità,   ma perchè la scuola potesse esercitare il suo ruolo di “organo costituzionale,   rimuovendo gli “ostacoli di ordine economico e sociale” che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona. In questa operazione di“rispetto della differenza per garantire l’ uguaglianza”, così recitava uno slogan di quegli anni , venivano aboliti i voti sostiuiti da giudizi descrittivi e sintetici e, soprattutto, si istituivano concrete misure di sostegno in favore degli alunni diversamente abili e di quelli socialmente svantaggiati.

In questa pacifica rivoluzione, il Consiglio d’ Istituto della Scuola Media Statale di San Vincenzo Valle Roveto, si trovò a gestire una partita di finanziamenti da utilizzare per i viaggi d’ istruzione di più giorni . Durante la riunione che avrebbe dovuto autorizzare il primo di   questi viaggi, quello ad Ercolanoe, Pompei e Paestum, fu sottolineata la discrasia tra il finanziamento assegnanto nominalmente, “sulla carta”, alla scuola e quello concreto.
Non c’ erano i soldi. C’ era soltanto il “pagherò” del Ministero. La preside Barbadoro, una donnona selvatica  cresciuta nelle faggete dell’ Appennino Emiliano, sapeva bene come gettare il cuore oltre l’ ostacolo. La sua proposta fu quella di autorizzare comunque il viaggio: tra i suoi ragazzi ce n’ erano di quelli che non avevano mai visto il mare e  non sapevano nemmeno immaginare il mondo oltre l’ orizzonte della Valle.
Per loro quel viaggio era necessario come il pane.  I soldi sarebbero concretamente arrivati di lì a poco, in caso contrario, lei, s’ esponeva in prima persona a sostenere i costi del viaggio. S’animò la discussione fra i consiglieri favorevoli alla proposta e quelli contrari.
Don Giovanni, nemmeno a dirlo, era fra i contrari. Per lui, uomo abituato alla ponderatezza della Curia e alla diffidenza verso il laicismo dei successori dello Stato Sabaudo, il comportamento del Ministero era sinonimo di insensatezza amministrativa e quello della preside pericolosamente ispirato a una sorta radicalismo dolcininano, di egulitarismo giacobino che minava l’ ordine del Creato.
Non riusciva a capacitarsi che i reperti di quella classicità di cui lui era geloso cultore, potessero essere mostrati e dispensati a tutti e a tutti i costi. Perchè regalare le rose a chi avrebbe dovuto avere soltanto il pane quotidiano? Montò perciò un fuoco di fila contro la proposta della Preside e della Presidenza, paventando responsabilità civili di inenarrabile gravità, scomodando perfino il codice Rocco. Alcuni consiglieri capitolarono e si giunse ad una situazione di sostanziale parità fra favorevoli e contrari, che impediva qualsiasi decisione. Era tardi e gli animi s’ erano accalorati anche per la presenza di pubblico tra il quale io e mio padre .
La preside rivolse il suo ultimo appello a Don Giovanni con un: “Ma perchè negare ai ragazzi questa possibilità ? Lei ha capito che” in ultima res”, sarei io a pagare qualsiasi conseguenza? “ e lui “Sì, ma rimango contrario anche e soprattutto per il suo bene e quello dei ragazzi!”
Fu allora che la Preside sbottò: “ Ma Lei è veramente una gran testa di c..o!”.
Tacquero tutti, improvvisamente, in attesa che castigo divino s’ abbattesse su quella blasfemia, ma niente: non s’ aprirono le cataratte del cielo , nessun fulmine a ciel sereno colpì la Preside, e lo stesso Don Giovanni che da allora finì nell’ anneddotica rovetana come mirabile esempio di calma olimpica pur nel fervore della dialettica politica, si limitò a un:  “ Bene. Metta a verbale la definizione della mia testa. Io rimango contrario!”
Si alzò e se ne andò, avvolto nel pastrano di vigogna.
Fu allora che il professor Tebaldi di Educazione Tecnica si convinse e spostò l’ ago della bilancia. Il viaggio si fece. Era l’ aprile del 1979. A Sorrento, dove eravamo a pensione, in un piccolo albergo sospeso sulla costa, nell’ azzurro tra cielo e mare, travammo una fioritura di zagare e rose. La sera saliva dai Lattari e noi, ispirati anche dalla nostra improvvisa libertà, capivamo gli alfabeti del mondo e sentivamo quanto pesa il profuma della rosa. Nomen Omen. Imparammo, per esempio,  che più sù, tra la Costa e la montagna correva un sentiero , sospeso sul magico golfo delle sirene e vi passeggiavano gli Dei.
Potevamo vedere all’ orizzonte le vele di Ulisse e sentire il suono delle tammorre della dea Astarte salire dal mosaico di Pompei, fino alla Cala delle Lampare, dove ballavano i turchi. Anche la Madonna Avvocata, a Maiori, cammina sui petali di rosa, ci disse lo stesso Don Giovanni, che fu, sorprendentemente, fra gli accompagnatori di quel viaggio.  Dei petali raccolti e conservati rigorosamente vicino al cuore , si fa dono agli ammalati che ne cospargono l’ acqua per i lavacri di sanificazione. La salute ritrovata passa attraverso l’ impalpabile profumo della rosa.
Nomen Omen. Da quel viaggio imparammo tutti qualcosa ma più ricchi tornarono quelli che non avevano mai visto il mare, quelli che ritrovarono il tempo perdendolo nella contemplazione del Golfo, quel tempo che mai avevano avuto perchè lo avevano impiegato   nel precoce utilitarismo del saper fare a tutti i costi, per bisogno o per buon esempio.
Nomen Omen.
Quel viaggio mi insegnò a capire, vent’ anni più tardi, quando da insegnante di sostegno tentennavo all’ indulgenza  del pietismo pedagogico, soltanto   perchè mi parevano invincibili   le sterotipie di Davide o la la rigidità muscolare di Diana, che volevo le rose e le volevo per tutti, che i percorsi di libertà e dignità passano per il “nome della rosa”, che intorno alla rosa si costruisce la semiotica dell’ humanitas, la vera mission della scuola.
Nomen omen. La rosa porta scritto nel nome il suo profumo, nè è possibile nominarla senza sentirlo come dice  Giulietta nel dialogo del balcone.” “Rosa fresca aulentissima”:  la rosa è il segno e il simbolo dell’ assoluta necessità del superfluo. La rosa è la resilenza e la resistenza del mondo,  Nomen Omen. La rosa è la bellezza che salva e la fragilità che  fortifica. “Un petalo, un sepalo, una spina.[ …] è tutto quello che serve per cambiare il mondo.
A Greta Thunberg