Messa a punto collettiva dei testi

L’apprendimento della lingua scritta darà luogo a un’acquisizione salda e organica a patto che scaturisca veramente da un processo di vita. L’artificio, il vuoto meccanismo, non possono dare che un precario addestramento, che si mantiene soltanto fino a che son presenti certi stimoli deteriori e non educativamente validi’   [1]

La considerazione dell’errore come tentativo provvisorio e non come dato immodificabile predittivo  di insuccesso è centrale in una pedagogia democratica e che si ponga l’obiettivo di non mortificare e demotivare gli alunni e di valorizzarne le espressioni.

C’è tutto un lungo lavorio che porta da una stesura di testi come trasposizione immediata di un parlato a un parlato ‘pronto per essere scritto’[2]

E’ un lavorio che attraversa fasi diverse e si avvale dell’apporto dell’insegnante che funge da stimolo e rispecchiamento e non da censore, ma ancor più dell’apporto e dei suggerimenti dei compagni che cercano, in quanto comunità linguistica, le soluzioni più adeguate. Il testo viene così rimaneggiato più volte fino ad assumere una formulazione ritenuta soddisfacente. Andrà così inserito nel libro di storie della classe o nel giornalino. Non rimarrà chiuso in un quaderno.

L’insegnante bada allo sbaglio di ortografia o di grammatica: la sua valutazione ha per oggetto quasi esclusivamente la correttezza formale del testo. In questa prassi la ricchezza e la originalità del pensiero non vengono prese in considerazione che a parità di correttezza ortografica. Ma quale ricchezza, quale originalità potrà venir fuori in una situazione educativa i n cui non si bada che alla forma? [3]

Nell’esempio riportato sopra, ‘Carla  che ha scritto la storia e la consegna alla maestra ha molte aspettative, non certo quella di consegnarla a… un correttore di bozze o a un commissario d’esame. […] E’ all’inizio della seconda, la storia l’ha scritta in stampato con un grosso pennarello nero su due fogli A4 in orizzontale, andando a capo quando finiva il foglio. Ha usato per scriverla un tempo del suo piano individuale di lavoro.  Carla non ha nessuna delle preoccupazioni della maestra riguardo alla correttezza, è tutta presa dalla sua storia… [4]

Una volta comunicato il suo pensiero, la sua ‘gelosia’ per il fratellino  che rimane a casa con la mamma, e il sogno che possa venire a scuola con lei, può entrare in azione la squadra di ‘correttori’ di bozze: si discute, si toglie, si aggiunge, si chiede a lei di spiegare, si cancella, si amplia. Si valutano varie proposte (la Lim si presta meglio della lavagna tradizionale).

E’ un’attività impegnativa di ricerca di funzionalità e comunicatività delle scritture  che si alterna a momenti di scrittura collettiva, incluso l’autodettato collettivo a seguito di esperienze della classe.

La conquista della correttezza e della competenza avverranno gradualmente grazie al lavoro paziente del gruppo che, guidato dall’adulto, esplorerà le vie per rendere la comunicazione più efficace.[…]E’ la motivazione di fondo che muta, in questo tipo di revisione del testo, rispetto alla semplice “correzione” dell’insegnante sul testo di un alunno che si è espresso secondo un modello linguistico lontano da quello dell’adulto. La motivazione cambia dal di dentro e profondamente il significato delle nostre azioni[5]

‘I ragazzi generalmente partecipano con entusiasmo a questa  operazione, dato che il testo eletto è diventato un po’ di tutti loro. Una tale partecipazione emotiva non vi sarebbe se il testo non fosse stato scelto dai ragazzi. Il maestro trascrive alla lavagna  il testo in esame, proposizione per proposizione. I ragazzi sono invitati a individuare gli errori […] l’insegnante dà la parola a un ragazzo, il quale si reca alla lavagna e corregge l’errore; tutti gli altri sono invitati a dire se la correzione è giusta o no. Ed è qui che vien fuori la grammatica vivente, la quale sorge dalle difficoltà della lingua viva e non da fredde e meccaniche lezioni. […]L’importante è che i ragazzi prendano da sé coscienza dell’errore; non è mai auspicabile che il maestro corregga direttamente.[6] 

Scriveva Freinet: ‘Abbiamo esposto […] i vantaggi pedagogici della redazione libera e spontanea, motivata dalla stampa, dal giornale scolastico e dagli scambi interscolastici; i vantaggi della scelta da parte dei bambini stessi, della messa a punto in comune, di questa specie di esaltazione e di liberazione psichica che suscitano la presa in considerazione del pensiero del bambino, la trascrizione in caratteri stampati (oggi al PC n.d.a.), l’illustrazione e la sua diffusione.[7]

 

[1] B. Ciari, ‘Le nuove tecniche didattiche’, Ed. Riuniti,Roma, 1971
[2] L. Lentin, ‘Il bambino e la lingua parlata’, Armando, Roma, 1973
[3] B. Ciari, op. cit., p. 99
[4] B. Campolmi, A. Di Credico, N. Vretenar (a cura di) ‘Chi ben comincia…parlare scrivere leggere a scuola’ Asterios, Trieste, 2020 p. 117
[5] N. Vretenar (a cura di) ‘Dire fare inventare parole e grammatiche in gioco’, Asterios, Trieste, 2020 p. 109 sgg.
[6] B. Ciari, op. cit. , p. 104-105
[7] C. Freinet ‘La scuola moderna’, Loescher, Torino, 1969, p. 112, trad. G. Tamagnini (una nuova traduzione è in corso da parte di E. Bottero per i Quaderni di cooperazione educativa




Didattica a distanza, docenti e pandemia.

di Francesco Rocchi

In quanto membro del gruppo “Condorcet-ripensare la scuola”, che per primo ha proposto la rimodulazione dell’anno scolastico, seguo con particolare interesse il dibattito pubblico intorno alla proposta ventilata da Mario Draghi di portare la chiusura dell’anno scolastico a fine giugno, a causa evidentemente dei danni portati dalla pandemia.

Per ora Draghi non ha detto nulla di preciso, ma per quanto riguarda quella di Condorcet, è da novembre che mi confronto con colleghi e addetti ai lavori. L’ostilità di queste ore, quindi, non mi giunge nuova. Oltre a cercare di convincere gli scettici, però, è importante per me sottolineare che la questione del calendario, pur centrale, non è isolata.

Fin dai suoi inizi, la pandemia è stata, ed è, una sorta di violento stress test che ci sta costringendo, nostro malgrado, a ripensare numerosi elementi del nostro lavoro. Cosa è emerso dal mondo degli insegnanti italiani in questi mesi? Come è stata affrontata dai docenti italiani questa battaglia? E’ di questo che vorrei occuparmi qui, pur consapevole tutti i limiti che un tale quadro complessivo del genere comporta.

Capitolo I: primavera 2020

La didattica a distanza (DAD d’ora in avanti) prima di marzo scorso non esisteva. Poi, da un giorno all’altro, è diventata l’unico canale attraverso il quale la scuola pubblica italiana ha potuto continuare ad esistere. Per i docenti non c’era un chiaro inquadramento contrattuale, nessuna obbligatorietà e, almeno all’inizio, nessun regolamento. Nessuna formazione specifica era mai stata fatta per qualcosa che nessuno s’era mai immaginato.
In questo frangente i tre sindacati confederali, sia pure con sfumature diverse, sottolineano tutti l’eccezionalità della DAD e ne denunciano i limiti, ribadendo di contro il valore della didattica in presenza. La nota 388 del governo, con cui si cerca di disciplinare e indirizzare la DAD, viene respinta dai sindacati confederali, che la considerano illegittima.

Nel vademecum alla DAD della FLC/CGIL il giudizio sulla DAD non è ottimista: “Va poi evidenziato che non è pensabile che la didattica a distanza possa surrogare appieno la didattica in presenza. I contenuti e gli obiettivi didattici vanno pertanto opportunamente rimodulati ed adeguati alla nuova situazione“.

Su toni simili anche Maddalena Gissi per la CISL, che aveva addirittura preferigurato una chiusura tout court della scuola italiana, in attesa di tornare in presenza: “guai a pensare che la didattica a distanza possa modificare il senso profondo della scuola, come luogo privilegiato e insostituibile dell’incontro fra generazioni. Tutto ciò che riusciremo a mettere in campo nei prossimi giorni deve aiutarci a riflettere su come stare in aula una volta che potremo tornarci: solo così si può ben sperare che questi non siano giorni vuoti di senso.” (neretto nell’originale).

Alla fine dell’anno si arriva con comprensibile fatica. La cronaca racconta ora di alcuni eccessi di singoli docenti (Antonio Vigilante su “Gli Stati Generali” arriva a parlare di “aguzzini della valutazione“), ora delle furbizie degli studenti per sfuggire al volto telematico dei propri docenti. Le modalità emergenziali della maturità e la promozione generalizzata, seguita da Piani di integrazione dell’apprendimento (PIA) e Piani di apprendimento individualizzato (PAI), suscitano qualche dubbio, ma prevale il principio che non si possano addebitare agli studenti le profonde lacune lasciate da tre mesi di scuola a distanza.

Almeno in parte dell’opinione pubblica e del mondo della scuola, la DAD viene vista come un’esperienza conclusa che non va ripresa. Il comitato Priorità alla scuola (che già ad aprile ha raccolto decine di migliaia di firme in calce ad un appello per la riapertura delle scuole) ed altre associazioni organizzano per il 3 giugno una protesta pubblica contro la DAD in numerose città italiane.

Sempre sugli Stati Generali, Antonio Vigilante riassume efficacemente in calce all’articolo scritto da una madre scontenta della DAD l’animus di molti docenti: “Nessuno vuole continuare con la didattica a distanza. Anche perché non è il nostro lavoro: abbiamo firmato un contratto per insegnare in aule fisiche, non come docenti a distanza“.

Capitolo 2: Il ritorno a scuola

A settembre si ricomincia. L’estate è stata spesa a parlare di plexiglas, banchi a rotelle, sdoppiamenti, nuove sedi, ma alla fine quel che rimane è il blando vincolo del metro tra le ormai celeberrime rime buccali, mentre non si registrano progressi sui trasporti pubblici.  I PIA e i PAI si perdono un po’ per strada e l’idea di cominciare il primo settembre almeno con i recuperi naufraga nella grande maggioranza delle scuole.

La situazione precipita rapidamente. I contagi riprendono e l’opinione pubblica non riesce a farsi un’idea chiara del ruolo delle scuole nella diffusione del contagio. Fioccano analisi contrastanti mentre le rassicurazioni del ministero, pur continue, vengono accolte con scetticismo.

Ciononostante, ad ottobre da uno studio di ottobre della CGIL emergono le perplessità dei docenti all’idea di tornare in DAD. Due docenti su tre riferiscono di un carico di lavoro aumentato (in primavera), ben tre su quattro dichiarano che la didattica in presenza è insostituibile e quella a distanza può essere solo una soluzione temporanea.
Il governo cerca di insistere sulla presenza, ma intervengono i governatori regionali e in un modo o nell’altro, con ritmi diversi da regione a regione, si torna in DAD, anche se di solito soltanto dalla terza media in su.

Il lavoro didattico nel primo trimestre esce martoriato da questa situazione: il governo, a causa del rinnovo delle graduatorie che non ha voluto posticipare, non è riuscito a garantire i supplenti necessari all’attività didattica. Fino a novembre migliaia di cattedre rimangono scoperte, con una perdita devastante di ore di lezione che non possono neanche essere recuperate in DAD, perché in quei casi non c’è un docente che la DAD la possa fare. Alle solite cattedre scoperte, problema strutturale della scuola italiana, si aggiungono quelle dei docenti dichiarati fragili e quelle delle classi sdoppiate, che faticano a partire o non partono del tutto, perché nessuno vuole prendere supplenze che rischiano di saltare non appena lo sdoppiamento venisse revocato. Quando si ritorna ad una DAD tombale, a fine ottobre, l’umore nelle scuole è comprensibilmente piuttosto basso.

Nel frattempo è stato aggiornato il contratto e ora sono obbligatorie almeno 20 ore di attività sincrona (video-lezioni). Non ci sono più vuoti normativi, ma i vincoli ministeriali sono pesanti. La video-lezione diviene, per scelta ministeriale, il canale prevalente della DAD, mentre rimangono non colte le possibilità della didattica a distanza in asincrono. Questa scelta rende la DAD ancora più gravosa, poiché le video-lezioni richiedono connessioni di buon livello che spesso mancano e sono particolarmente faticose sia per docenti che studenti.  Solo le vacanze di Natale riescono a portare un po’ di sollievo a lungo agognato.

Ad un mese dalla fine delle vacanze di Natale, si arriva alla situazione attuale, con la scuola sì in presenza, ma al 50%. Questo ritmo singhiozzante non è l’ideale già di per sé, ed inoltre espone gli studenti ad un ingorgo di prove scritte e orali cui sono sottoposti nei giorni in presenza. Di contro, per i docenti è importante riappropriarsi di una valutazione considerata più affidabile di quella in DAD. Se e quando si potrà tornare ad una situazione stabilmente normale, al 100% in presenza, ancora non si sa.

Capitolo 3: il recupero

A questo punto ritorniamo a Mario Draghi e alla sua proposta, trapelata in maniera molto vaga. Noi di Condorcet a novembre avevamo parlato di una rimodulazione, con l’inserimento di pause o con l’allungamento delle vacanze di Natale e di Pasqua. Abbiamo anche sottolineato più volte la necessità di riposo dalla stanchezza imposta dalla DAD, proprio in virtù dello sforzo eccezionale che ha richiesto tanto ai docenti quanto agli studenti. Abbiamo anche rimarcato che la perdita non riguarda solo chi tra gli studenti è in difficoltà, ma tutti, perché il tempo scuola è stato ridotto e disarticolato da mille ostacoli e ne sono stati danneggiati anche gli studenti più autonomi.

La reazione, dicevamo prima, è stata di ostilità. Gli argomenti a sostegno di questa ostilità sono diversi, anche se spesso si accavallano: la stanchezza degli studenti, dei docenti, il caldo, il fatto che poi, alla fine, due settimane sono troppo poche per fare la differenza, ma soprattutto il fatto che, in realtà, da recuperare non c’è nulla, perché si è ampiamente sopperito con la DAD.

Abbiamo citato precedentemente Antonio Vigilante e la sua delusione per la DAD, vista come strutturalmente estranea al lavoro dei docenti. A fronte della proposta Draghi, la sua posizione è questa:Il bilancio è nel complesso tutt’altro che allarmante.
Maddalena Gissi, segretaria CISL di cui abbiamo riportato i dubbi, risponde invece così:Allungare a prescindere il calendario scolastico significa far credere che con la Dad la scuola ha scherzato“. Contrarietà piuttosto netta è espressa anche da FLC/CGIL e da un po’ tutti i sindacati scolastici.
Sui giornali vengono riportate molte dichiarazioni di docenti contrari. Su La Stampa del 10/02 Raffaella Soldà, di un istituto di La Spezia, dichiara: “E’ come dirci non avete fatto nulla“. E’ una posizione che ci è stata spesso ribadita nei commenti della nostra pagina, e che ricorre anche nell’articolo di Vigilante citato prima.

Non so spiegare perché la nostra proposta, nata per ovviare a quella Via Crucis che è stata l’ultimo anno scolastico, equivalga a disprezzo per il lavoro svolto dal personale scolastico (quali noi di Condorcet peraltro siamo).
Non so neanche spiegare perché i docenti stessi non ricordino più le difficoltà e i limiti della DAD che denunciavano qualche mese fa. Che un prolungamento possa arrivare a valle di un anno già faticoso non è un argomento privo di senso: ma è un ostacolo su cui si può lavorare e al quale abbiamo posto mente suggerendo non un allungamento, ma una rimodulazione del calendario. C’è stato anche chi ci ha accusato di non aver pensato a delle pause extra, il che rivela che tra i detrattori ci dev’essere qualcuno che si è fermato ai titoli.

Mi riesce infine insondabile perché due settimane debbano essere poche, o perché il tempo della didattica debba essere considerato una variabile indipendente. Con la sua consueta eleganza di toni, Cristiano Corsini  contesta la nostra proposta ricordandoci, sulla base di Dewey, Pontecorvo e Fusé, che l’apprendimento non avviene a ritmo regolare o a comando del docente, ma con esplorazione continua, costruzione di relazioni ed esperimenti ad ampio spettro. A me questo sembrerebbe dimostrare che il tempo è prezioso e ne serve il più possibile (perché a un discente non si può metter fretta), mentre lui ne ricava che il tempo sia un’allegra invenzione da burocrati e che non abbiamo capito niente. E devo concordare sul fatto di non aver capito la logica della sua obiezione, tanto più se penso che per le esplorazioni e le relazioni la DAD non può che essere un collo di bottiglia.

Non è neanche detto, peraltro, che la rimodulazione debba essere l’unica soluzione o che non si possa ragionare più a lungo termine -come noi peraltro abbiamo fatto sin da novembre. Eppure la protesta si ferma qua: il docente italiano è ferito nell’onore e stanco, ancora abbastanza reattivo per protestare, ma non per fare proposte alternative.

Il mio timore è che questo muro di critiche finisca per offuscare lo sforzo che è stato fatto e ingeneri nell’opinione pubblica sospetto e diffidenza verso le istanze legittime dei docenti. Per notare la distanza tra docenti e resto dell’opinione pubblica è sufficiente vedere la differenza di toni tra i commenti alla nostra proposta postati in calce al post del blog “Mammadimerda”, che ci rilancia e dove commentano genitori e famiglie, e quelli in calce a Orizzonte Scuola, dove la nostra proposta la commentano i docenti.

E’ una voragine che mi preoccupa.




Nasce e si sviluppa a Torino 50 anni fa l’idea della CITTA’ EDUCATIVA

Nel canale Youtube di Gessetti Colorati è disponibile una intervista a Ermanno Morello sul tema della CITTA’ EDUCATIVA, un progetto nato e sviluppatosi a Torino (e poi diffuso in altre città italiane) negli anni Settanta

L’intervista prende le mosse anche da un libro pubblicato nel 1978 e intitolato TEMPO PIENO E METROPOLI
Il volume è ormai introvabile, ma qui è disponibile in formato PDF

La premessa

I servizi

L’informazione

Musei, arte e spettacolo

Storia semiseria di Torino




Semplificare vuol dire eliminare

Stefaneldi Stefano Stefanel

La scuola si trova in una situazione di costante criticità in quanto la sua qualità di autonomia funzionale dello stato la pone come crocevia amministrativo di troppi soggetti che agiscono contemporaneamente, con richieste continue e senza alcun tentativo o necessità di coordinare i loro interventi. Così succede che, quotidianamente, si attivino scadenze o arrivino richieste da soggetti con loro proprie tempistiche per nulla in linea con quelle della scuola, per cui la Pubblica Amministrazione scolastica deve interfacciarsi con il ministero, con le autorità di gestione, con gli uffici scolastici regionali e gli uffici scolastici provinciali che non si coordinano, con gli enti locali regionali, provinciali e comunali, con i revisori dei conti, con i servizi sociali, con le ASL, con l’Inps, con l’Inail, con i dipartimenti di prevenzione, ecc. in un elenco che sembra non finire mai. Anche tutta la semplificazione è spesso più annunciata che realizzata, perché si è sempre tramutata in maggior impegno lavorativo e in un aumento di documentazione. Inoltre il passaggio al digitale e la possibilità di allegate documenti in PDF li ha fatti diventare sempre più lunghi e complessi, spesso illeggibili.

Il concetto di semplificazione deve essere collegato a quello di scelta e quello di scelta a quello di riduzione. La prassi consolidata è quella per cui ogni apparente riduzione ha portato sempre a procedure che, invece di ridurre, hanno aggiunto. E’ il caso, banale, ma veramente paradigmatico, del processo di dematerializzazione, che prevederebbe una significativa semplificazione, ma non ha diminuito la quantità di carta stoccata negli archivi della pubblica amministrazione, producendo a volte duplicazioni che appesantiscono quello che è già di per sé pesante. Qui siamo davanti ad una di quelle questioni che costringono ad un certo punto la Pubblica amministrazione ad addentrarsi dentro un coacervo di norme che mal si connettono tra loro e che determinano contenziosi e conflitti, producendo soltanto un aumento delle complicazioni. La piattaforma Inps per la ricostruzione del personale a fini pensionistici è uno dei massimi esempi di sistema che si è avvitato su sé stesso, tra procedura apparentemente semplice di gestione della posizione in piattaforma e documenti cartacei, che si “ribellano” ad ogni riconduzione alle voci che scendono dalle famigerate “tendine”.

Il concetto di semplificazione passa anche attraverso quello di competenza: solo del personale capace e competente è in grado di semplificare, mentre il personale che non conosce bene il suo lavoro per forza di cose è inefficiente e quindi tende all’accumulo e non alla selezione. Per dare conto della situazione attuale e di come potrebbe evolversi in senso positivo se tutto venisse semplificato, cerco di indicare alcuni elementi di inciampo burocratico abbastanza evidenti che, se eliminati, produrrebbero in forma automatica una reale semplificazione nell’attività istituzionale della pubblica amministrazione scolastica e di conseguenza una maggiore efficienza del sistema.

PON e PNSD

La procedura negoziale ed attuativa dei PON e del PNSD è stata pensata dentro l’idea per cui la cosa fondamentale non è la realizzazione dei progetti, ma le possibilità costanti di controllo sui tutti gli atti. Inoltre i controlli continuano per anni e anni bloccando finanziamenti, dentro un mare di burocrazia che ha determinato la resa di molte scuole, la mancata chiusura di molti PON o progetti del Piano Nazionale Scuola Digitale. Tra le richieste del Ministero e dell’Autorità di gestione e le reali capacità delle scuole si assiste ad un incredibile cesura, che determina un’oggettiva difficoltà a spendere soldi che ci sono. Se, però, si eliminassero alcuni passaggi inutili tutto diventerebbe più semplice. Ecco quali:

  • eliminazione della carta nelle rendicontazioni: adesso, infatti, si devono caricare tantissimi documenti in PDF (carta fotografata), mentre tutto dovrebbe avvenire solo in piattaforma;
  • eliminazione dei blocchi alla procedura qualora vi siano degli errori che possono essere sistemati o dalla stessa autorità di gestione o dalle scuole se ben indirizzate;
  • eliminazione della “neutralità” degli USR, che dovrebbero invece essere la task force che elimina i problemi delle scuole che non ce la fanno;
  • eliminazione del controllo da parte dei revisori dei conti, che bloccano le procedure a fronte di situazioni che l’autorità di gestione è in grado di controllare da sola;
  • eliminazioni delle possibilità dio controllo oltre i tre mesi dalla fine del progetto;
  • eliminazione dell’anticipazione di cassa, che costituisce un fardello troppo pesante per molte piccole scuole (quindi finanziamento di tutto il progetto nella fase d’avvio);
  • eliminazione della decurtazione della somma da erogare a causa di assenze di studenti e quindi eliminazione anche della rigidità delle classi, che molto spesso è difficile tenere unite nello stesso progetto, anche perché molte scuole sono piccole e il gruppo di studenti interessati variabile.

Non si tratta di dare via libera ad un sistema inefficiente, ma di semplificare procedure di controllo ossessive, che semplicemente impediscono la realizzazione dei PON e del PNSD. Personalmente, vista l’emergenza pandemica e la sua drammaticità, penso che sarebbe anche il caso di eliminare dai PON sia il vincolo di progetto che il vincolo di controllo e permettere a questi soldi già stanziati di essere spesi dalla scuola per qualunque necessità. Questa sarebbe un bell’utilizzo dei fondi PON residui, ma non spero tanto. Ma eliminare quello che sopra riportato comunque faciliterebbe le realizzazioni di quello che si può ancora realizzare.

 

RAFFORZARE LE SEGRETERIE

Per rafforzare le segreterie sarebbe sufficiente eliminare l’automatismo contenuto nell’art. 59 del CCNL del 29 novembre 2007 e vincolare la possibilità per un collaboratore scolastico di accettare incarichi a tempo determinato come assistente amministrativo solo dopo l’accertamento del suo livello di competenze. L’eliminazione del passaggio automatico dai ruoli di collaboratore scolastico a quelli di assistente amministrativo senza concorso, dovrebbe anche prevedere, alla fine di ogni anno scolastico un parere vincolante del Dirigente scolastico e del Direttore dei servizi generali e amministrativi che, se negativo, inibisce l’accettazione di nuove supplenze. A chi non conosce il mondo della scuola può sembrare strano che la semplice eliminazione di una possibilità potrebbe semplificare le cose. In realtà il lavoro delle segreterie è sempre più caricato di procedure e impegni che richiedono forti competenze. Se queste non ci sono tutto viene complicato e, spesso, fotocopiato con un aumento di complicazioni dovute a procedure sbagliate e competenze reali non disponibili in forma eguale tra i tutti i dipendenti.

Un altro modo per rafforzare le segreterie è l’eliminazione di tutti i monitoraggi che non comportino una restituzione degli esiti in forma condivisa. Se, cioè, il Ministero o l’Ufficio Scolastico Regionale, o gli Uffici Provinciali, o gli Enti Locali, o l’Invalsi, le Università, qualunque altro soggetto chiede alla scuola o la obbliga a partecipare ad un monitoraggio deve chiarire le motivazioni e la norma di legge a cui si riferisce, ma è tenuto anche a restituire in tempi brevi (dieci giorni, non di più) l’esito del monitoraggio stesso, restituendo i dati a tutti i partecipanti. L’eliminazione dei monitoraggi senza restituzione metterebbe il soggetto che li chiede nell’obbligo di dare una precisa motivazione alla sua azione, evitando alle segreterie di dover quotidianamente seguite il monitoraggio del giorno, che poi non si sa che fine fa.

 

DEMATERIALIZZARE SENZA CONSERVARE

 

La dematerializzazione potrebbe aiutare la semplificazione se fosse collegata a due eliminazioni:

  • tutta la carta dematerializzata va eliminata e pertanto ci possono essere solo “faldoni” digitali e non cartacei (ogni duplicazione è una complicazione);
  • tutto quello che non serve deve essere eliminato, in modo da costringere le scuole a limitare le procedure burocratiche espansive e a limitarsi ai documenti essenziali da conservare, non intasando archivi e protocolli di materiale inutile.

In questo caso la Pubblica amministrazione scolastica dovrebbe solamente eliminare la paura di non avere le famose “pezze giustificative”, ma questo lavoro di cernita ai fini della conservazione del necessario semplificherebbe di molto tutte le procedure, costringendo a tenere traccia dei documenti essenziali e necessari.

Se poi dal settore amministrativo passiamo a quello didattico penso sarebbe molto semplice eliminare tutto il materiale didattico che non può essere “impugnato”. Decorsi i termini dei ricorsi al Tar dovrebbe essere eliminato tutto, in modo da non dover diventare un fardello che comporta sistemazioni e registrazioni. A questo punto le Sovrintendenze dovrebbero avere un tempo limitato per chiedere l’eventuale trasferimento di materiale didattico a fine culturale. Perché pare evidente che, davanti ad una possibilità senza limiti di tempo, nessuna Sovrintendenza avrà interesse a forzare i tempi e chiedere cosa realmente serve al suo archivio o alle eventuali ricerche storiche. In questo modo anche le scuole potrebbero costruire degli archivi della memoria, per nulla burocratici, con caratteristiche di testimonianza e di cultura, producendo magari delle biblioteche di materiali pedagogici, che avrebbero ben diverso valore dei quintali di carta stipati nelle cantine scolastiche a marcire in silenzio e nel disinteresse.




Il nuovo PEI. Tra rose e spine. E un dulcis in fundo


di Raffaele Iosa

Il “nuovo PEI” previsto dal DM 182/2020, con annesse corpose “Linee Guida”, è una cosa seria. Seria e complessa perché il Ministero (di concerto col MEF)  ha messo insieme molte questioni,  alcune delicatissime,  realizzando ben  più di un semplice adattamento del PEI come strumento di programmazione, ma toccando vaste  altre questioni connesse: l’uso dell’ ICF, il calcolo delle  risorse di personale, fino ai temi della valutazione,  anche con l’interessante debutto del tema della transizione alla vita adulta nell’istruzione superiore.

Un’operazione vasta di restyling da leggere bene,  con molta (a volte pesante) scrittura, che tocca non solo la disabilità ma l’intero fare scuola. Spesso questi temi sembrano specialistici e tecnicamente difficili, almeno per gli insegnanti curricolari, e rischiano di restare cosa di nicchia. Per questo cercherò qui di esprimere con un linguaggio il più accessibile possibile un mio commento tecnico sia su questioni generali che analitiche sui punti più “caldi”  .

Esprimo da subito una mia valutazione d’insieme: è un lavoro di  spessore, con aspetti importanti di innovazione (le rose) ma contiene anche alcuni vizi e assenze (le spine) che rischiano di produrre per lo più l’ennesima “grida manzoniana”  di come dovrebbe essere l’inclusione (ce ne sono state molte in passato), con attese di qualità che potrebbero essere difficilmente mantenute.

Ne scrivo qui criticamente ma in modo propositivo sulla base della mia esperienza professionale  pedagogica, scientifica, amministrativa, a livello locale, nazionale, internazionale.

 

  1. Una struttura militarizzata?

Una prima spina di carattere generale. In tutto il testo delle Linee guida è scarsa  l’autonomia, se non piccoli e marginali spazi sulla didattica. Tutti gli elementi  inerenti certificazioni, ICF e diagnosi funzionale, GLO,  perfino la struttura  grafica del PEI,  il calcolo delle proposte di risorse, ecc… sono affidate a precisazioni e  pignolerie che trasmettono una forte ordinatività normativa,  e nessuno spazio di flessibilità. Non sono presenti mai le parole flessibilità, ricerca e creatività che sarebbero invece auspicabili se rispettano i medesimi obiettivi inclusivi.

Ciò rappresenta per me la crisi di una normazione  che preveda nel Ministero istruzione il soggetto titolare delle finalità generali ( Reg. Autonomia DPR 275/99, norma di rango costituzionale)  e alle scuole l’autonomia necessaria ad adattare le finalità con diverse vie anche originali. Non mi pare questione da poco, e dovrebbe allarmare non solo chi si occupa della nicchia “inclusione”.

In sostanza una normazione che chiede alle scuole  “l’applicazione” e non “l’interpretazione responsabile”. Non è una scelta qualsiasi, e non era l’unica possibile. Dunque i temi e i problemi non sono nuovi, ma diverse sono le forme di risoluzione.
Sarà certo un segno dei tempi, con la crisi delle autonomie,  ma nel caso della disabilità questa direttività è data da una questione di fondo più “culturale” e  “pedagogica” che amministrativa.
Il fatto è che queste norme escono, a mio parere,  in una fase di “declino dell’inclusione”, in cui sono stravolte   le ispirazioni inclusive degli anni 70. Alle nuove ampie difficoltà inclusive si pensa a risposte con abbondanti dosi di direttività e burocrazia.  In breve  gli elementi principali:

  • In meno di 20 anni le certificazioni di disabilità sono raddoppiate, i posti di sostegno sono di più di questo raddoppio, il rapporto alunno h/docente sostegno è passato dai 2,4 del 1999 a 1.6 di quest’anno.  Gli assistenti all’autonomia dei comuni da 4.000 a 60.000 di quest’anno. Stiamo cioè assistendo ad un fenomeno di medicalizzazione che pesa nell’imaginario delle famiglie e degli insegnanti. Non c’è in Italia nessuna ricerca seria sui motivi e gli effetti dal punto di vista clinico, sociale, demografico e in educazione: una meta-epidemia? Una lettura  ansiosa del dolore umano? La moda legata al mito del ben-essere come perfezione?
    Si  sommi a questo la Legge sui DSA e  l’invenzione dei BES (entrambe  iatrogene) per individuare una profonda mutazione dell’idea di persona, delle relazioni,  dell’apprendere.
  • Questa mutazione accompagna un cambio di paradigma per cui la “clinica” (in primis comportamentista) si impone con terapie paradidattiche dure, riducendo l’educativo  comunitario,  in un qualche modo imponendo agli insegnanti di togliersi il grembiule e di mettersi il camice.
  • Le due questioni sopra descritte hanno determinato l’emergere di una conflittualità nuova tra famiglie  e scuole, il mito del “sostegno” non come “attività di tutti i docenti” ma come azione specialistica separativa  totalizzante. Di fatto lontana dal mainstream della classe. Da qui  cause, tribunali, conflitti. Qualsiasi intervento per regolare le certificazioni  o la ripetizione del mantra sempre più retorico  “il sostegno lo fanno tutti” sono in gran parte falliti.
    Tutti i decreti usciti in questo periodo risentono di questo conflitto trasversale di tipo pedagogico che produce due aree di pensiero in conflitto: quella che chiamo degli “scolasticistici”,   erede della tradizione degli anni 70 (sostegno diffuso azione di tutti) contro gli “specialistici”   (tecniche separative  centrate sui sintomi e non sulla persona). Si pensi, ad esempio,  allo scontro sulla formazione dei  docenti di sostegno: una laurea ad hoc o corsi post-laurea? Grembiule o camici?
  • Accompagna questo conflitto una degradante gestione dei posti di sostegno e la totale assenza di formazione seria per  i docenti curricolari. Quando un figlio cambia sostegno ogni anno, magari precario che non sa nulla di disabilità non ci sono attenuanti. Il degrado è garantito.

Dunque, è il recente passato complesso, mal gestito, con un aumento della spesa fuori controllo, disattenzione al fatto che l’inclusione è di tutti i docenti,  che forse ha portato i ministeriali autori di questi documenti a scegliere una via  così militarizzata: la speranza che mettendo “le braghe al mondo” si riducano i conflitti, un modello imposto renderà  le scuole più brave,  e così si migliorerà (sigh) l’inclusione. Paradossale opzione se si tiene conto che oggi la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità parla invece della loro inclusione come “accomodamento ragionevole”, diverso da caso a caso.

Temo  che queste Linee guida produrranno il fiorire di nuovi quesiti,   un contenzioso infinito che già oggi è fiorente (basta leggere nei social). D’altra parte i malumori di famiglie o insegnanti non chiedono  soluzioni ragionevoli per  un qualche  conflitto, ma “in quale norma”   si precisi pignolescamente una certa questione.  Un  piccolo caso sul quale chiedo  ai lettori di non ridere: un’insegnante di sostegno della primaria mi scrive: “una mia collega mi ha detto che bisogna passare dallo stampatello al corsivo con il bambino perché poi alle medie, quando avrà l’esame,  dovrà per legge scrivere in corsivo. Mi potete dire quale norma prescrive il corsivo?”

Nessuna applicazione obbediente migliorerà la qualità dell’inclusione. L’obbedienza non è sempre una virtù e può mortificare la passione e la fantasia. Rischia invece di produrre soluzioni formalistiche e pesanti.  Ci lavoreranno autori di manuali e avvocati.

  1. Un testo cui manca il prima e il dopo

Questo DM  e Le linee Guida escono prive di altri elementi presenti nella delega della Legge 107/15, tali da rendere insicura oggi la sua applicazione.

2.1 Manca ancora il  “profilo di funzionamento” nella logica bio-psico-sociale ICF, strumento  importante per una nuova modalità di interpretazione della disabilità. Questo profilo è la base e la premessa su cui costruire il PEI, viene prima. La classificazione ICF ci descrive ogni persona con disabilità nella sua natura complessa,   superiore al “sintomo” e al di là della confusa  dicotomia dell’art. 3 della Legge 104/92 tra “lieve” e “grave”. Ogni ragazzino con disabilità viene letto attraverso l’ICF  come “Antonio” o come “Maria” in tutte le sue dimensioni e non solo in base alla mera diagnosi clinica. Non tutti i ragazzi con la sindrome di Down sono gravi e neppure gli autistici. Molte variabili concorrono alla gravità, anche quelle personali e ambientali. L’ICF supera lo stigma della “malattia” e individua le “barriere”, anche esterne, che ostacolano l’inclusione e  i “facilitatori” interni ed esterni che aiutano ad un progetto di vita individuale più congruo ad ogni persona.  Quindi una base teorica e pratica decisiva per realizzare un buon PEI.

L’ICF e il conseguente profilo di funzionamento però non ci sono ancora perché il Ministero Sanità non lo ha ancora scritto. Dunque le citazioni dell’ICF presenti nel DM e nelle Linee guida e persino il sostenere che il PEI deve essere realizzato nella “logica ICF” pecca di  precipitazione e incertezza.

Dovremmo chiederci perché il Ministero Sanità non ha completato il profilo, e non mi pare sia solo causa il carico di lavoro del COVID: c’è perplessità nei clinici nei confronti dell’ICF. E’ più semplice fare diagnosi secche dei sintomi con l’ arido DSM V  che ti dice “cos’ha”  ma mai “chi è”.

2.2 Ma c’è dell’altro. Manca ancora un Decreto sulla governance della disabilità a livello locale, per intenderci dai vecchi “accordi di programma provinciali” della Legge 104/92  a logiche di governance nello stile dei piani di zona della Legge 328/2000.

2.3 Mancano infine i profili professionali degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di competenza dei comuni, il cui profilo vago e generico non offre una competenza precisa su cui contare. Ma nel PEI si dovrà scrivere se serviranno per l’inclusione di un certo alunno, nella vaghezza piuttosto che nella precisione degli obiettivi per cui si utilizza.
Questo lavorare a sprazzi, senza una visione armonica tra diverse norme sullo stesso tema è grave, rischia una fatica alle scuole immeritata, un’incertezza del mai completato.

Se penso al povero insegnante di sostegno senza titolo che sarà costretto (com’è d’uso in moltissime scuole) a farsi carico di scrivere questo malloppo pesante e direttivo del PEI, mi tremano i polsi. Rischiamo la parodia.  Il PEI è cosa seria, se mancano i contorni di contesto  l’unica soluzione è…copiare da uno dei tanti manuali che usciranno. E sperare in Dio che a qualcosa serva.

  1. Mediazione versus controparti

E’ sorprendente il fatto che nelle pubbliche amministrazioni, in particolare in quelle che erogano servizi di carattere sociale e alla persona,  siano del tutto assenti sedi e modalità di mediazione dei conflitti a fronte del pullulare di malessere, disagio, litigiosità sempre più vivide. L’amministrazione pubblica segue vie giuridiche  o di controllo prevalentemente legate alla forma o ispezioni che devono rilevare se esistono lesioni o errori. Il tema conflitti nella scuola è caldissimo, al punto  che ormai molti genitori considerano spesso la scuola controparte. Nel mondo della disabilità il tema è ancora più caldo ed ha la sua ,massima espressione nei ricorsi ai tribunali sulle ore di sostegno, da cui ricevono sentenze spesso non pedagogicamente fondate.

Basta leggere nei siti le tantissime lamentele di carattere prevalentemente relazionale.

Il nuovo PEI contiene così tante e delicate decisioni e confronti tra istituzioni che pensare alla soluzione per via giudiziaria o amministrativa mi pare dolorosamente ingiusto.
Sulla base della mia lunga esperienza di ispettore considero gran parte dei conflitti tra genitori e scuola frutto di divergenze dove non c’è necessariamente un colpa in senso stretto, ma la compresenza di punti di vista, atteggiamenti, approcci diversi se non divergenti. Molto spesso  in entrambe le “controparti” vi sono aspetti di ragione e di torto, soprattutto sugli aspetti educativi, ma non ci sono strumenti precisi per portare ad una ricomposizione se non la buona volontà.

Io penso sia giunta l’ora di pensare invece a sedi, professionalità e modalità di mediazione tra erogatori ed utenti che sia predisposta da tecnici terzi non in forma giudiziaria ma, appunto, in forma mediativa. E che sia necessaria sempre prima di ricorrere al tribunale.

So bene che non era  tema centrale dell’oggetto PEI,  ma propongo si cominci a pensarci anche con sperimentazioni come un importante passo in avanti. Altrimenti ognuno avrà il suo difensore, si sentirà sempre controparte. La mediazione aiuta anche a migliorare il senso civico e delle responsabilità individuali e collettive.

  1. I dolori del giovane GLO

Il GLO è la nuova sigla del vecchio GLI, con le stesse persone. Il DM e le Linee guida  precisano fino alla pignoleria  regole, puntigli, lacci di cui capisco in parte le ragioni: finora in molte scuole il GLI non esisteva di fatto, il PEI veniva redatto dall’insegnante di sostegno  e i genitori coinvolti solo per la “firma”. Dunque bene richiamare un impegno collettivo. Ma forse si è esondato.

  • In una prima bozza il GLO era stato ridefinito “organo collegiale”. Ne capivo le ragioni per responsabilizzare tutti i suoi componenti, dagli insegnanti, alle famiglie ai servizi sociosanitari.
    Ma è nata una violenta querelle sulla questione del “voto” che ogni organo collegiale prevede per le decisioni da assumere, al punto che la collegialità è scomparsa nella versione finale.  Però merita  una riflessione  il tema delle “decisioni” negli organi  a diversa composizione com’è il GLO.  Se anche fosse rimasto  il GLO “organo collegiale” va ricordato che, a parte il Consiglio di Istituto che è di natura elettivo,  tutti gli altri “organi” della scuola  non sono democratici  in senso politico ma organi tecnici competenti cui compete individuare soluzioni tecniche. Dunque il concetto di “maggioranza” in questi organi nasce dal bisogno di prendere una qualche decisione ma niente più. Se un genitore o un insegnante non condividono una certa scelta va registrata e può avere effetti per comporre il conflitto o per ricorrere. Questa confusione sugli organi collegiali come il ,collegio docenti se sono o no democratici è vecchia come i decreti delegati. Negli organi collegiali dove chi ci sta c’è d’ufficio, il cosiddetto “voto” è una via solo decisionale. Dunque professionale di carattere deontologico. Ciò vuol dire attenzione alla necessità di cercare sempre più ciò che unisce di ciò che divide. Questo è ancora più vero perché nel GLO i genitori sono una parte non qualsiasi, sono di fatto utenti diretti.
    Riflettiamo quindi di più su come costruire un PEI davvero condiviso e ben praticato, che non è questione di forma ma di sostanza relazionale e pedagogica.
  • C’è poi la  complicata questione della “proposta di risorse” del GLO per le ore di
    sostegno, assistente autonomia, ATA per assistenza di base, strumenti e strutture.
    Cerco di spiegare il nuovo metodo che il GLO dovrà adottare evitando il più possibile al lettore le vertigini. Per quanto riguarda il sostegno, finora le “proposte di ore di sostegno dei GLI”  derivavano  più  dalla diagnosi clinica e sulla presenza di “gravità” (art. 3 comma 3 Legge 104/92).   Poi interveniva l’USR   che assegnava ore in più dell’organico di diritto in una specie di “rabbocco di ore” un po’ discrezionale simile alla vecchia “deroga”, ore che venivano date a docenti a tempo determinato.  Per effetto di una certa Sentenza della Corte Costituzionale questo “metodo” è stato in parte cassato sul principio del considerare diversamente la “gravità”.  I tribunali coinvolti dai genitori per ottenere più ore di quante assegnate dall’USR giudicano la proposta del GLI quella “necessaria” cui riferirsi perchè frutto del progetto educativo. Ma spesso fanno di più: se l’alunno in causa è “grave” la decisione dei tribunali è quasi scontata: a tutti il rapporto 1 a 1, magari più di quanto avesse proposto il GLI nel PEI.  E così tante cause perse dal MIUR.
    Con il nuovo GLO, sostanzialmente, cambia poco: decide sempre l’USR! Ma  cambia il metodo di calcolo di ore della proposta del GLO.  E’ stata inserita nella scheda PEI  una tabella  in cui il nuovo GLO (ex GLI) “ spacchetta” la gravità o meno dell’alunno con disabilità su cinque “dimensioni”  desunte dall’ ICF e dal profilo di funzionamento dell’alunno  (relazione, interazione, comunicazione, autonomia, cognitivo neuropsicologico). Per ognuna di queste dimensioni, il GLO  pesa i cd.  “debiti di funzionamento” (brutto termine, ma pazienza), intesi più prosaicamente come “difficoltà-barriere per l’inclusione”. Pe ognuna di queste dimensioni il GLO propone  la quantità di ore necessarie a recuperare il “debito”  in una progressione a 5 livelli  di “ore di sostegno necessarie a settimane”.  Ogni livello contiene un  range di + o – ore. Per esempio il  range lieve” nella scuola dell’infanzia corrisponde a una gamma tra  0-5 ore/settimana,  il “range  molto grave” oscilla tra 20 a 25 ore settimana per la scuola dell’infanzia. La media dei 5 range individuati  è la proposta di range delle ore di sostegno settimanali proposte dal GLO.  Poi tocca all’USR la finale definizione delle ore settimanali scegliendo la cifra entro il  range proposto dal GLO.  Sperando che  chi mi legge sia ancora sveglio, faccio notare come  la proposta del GLO sia ben più articolata di prima e anzi va ben oltre alla solo generica dizione di “grave”.

Questo artificio tecnico sembra esser uno dei tanti modi per superare la secca simmetria grave = posto intero sostegno. Naturalmente vedo una richiesta del Ministero Economia di trovare metodi più documentati per diminuire le cause giudiziarie,   e ovviamente i rischi di spreco e disparità.

E’ evidente  che il metodo creerà non poche discussioni tra i componenti del GLO, in primis la famiglia  con reciproche accuse  di sottovalutare o drammatizzare il debito di funzionamento. Temo però che questa soluzione, di per sé interessante non basterà a ridurre a sufficienza i contenziosi, e la sua applicazione sarà  complessa da scuola a scuola e da classe a classe.

Per la verità, le commissioni regionali USR che assegnano in via definitiva le ore di sostegno per i gravi utilizzano criteri comparativi e range simili a questo proposto nelle linee guida.

Mi pare giusto che si chieda al GLO un impegno più analitico di valutazione dei bisogni dell’alunno, anche se quello inventato dai ministeriali mi pare oneroso. Ma nello stimare  il range più opportuno c’è sempre una discrezionalità quasi naturale. E, quindi, temo che continueranno ad esserci (anche se in minor numero) avvocati che chiedono l’accesso agli atti dei nostri PEI. Perché, a questo punto, la responsabilità non è più dei soli USR, ma anche dei GLO se a parere di un giudice hanno sottostimato i debiti di funzionamento.

4.3  E infine faccio notare come questo nuovo GLO avrà un carico di impegno certo maggiore e più complicato di prima. In alcune classi vi sono anche 2 disabili, nei primi anni delle superiore perfino 4 a classe. Quindi una miriade di GLO, riunioni, carte da compilare, Teniamone conto.

  1. L’errore della separazione tra “progetto di vita” e PEI

Con la normativa sul nuovo PEI si persevera nell’errore di separare il PEI dal Progetto di vita previsto dalla Legge 328/2000. E’ una separazione sbagliata, nata dagli equivoci tra il MIUR e i Comuni  che separano educazione da assistenza. L’ispirazione del concetto di “progetto di vita” è che tutti (tutti) i soggetti locali che agiscono verso una persona interagiscano tra di loro condividendo i diversi percorsi educativi, clinici e sociali con una comune visione interdisciplinare, tale da rendere il soggetto  protagonista partecipe del proprio progetto di vita. Questa visione coincide anche con il concetto di “accomodamento ragionevole” previsto dalla Convenzione Onu sulle persone con disabilità, che prevede appunto una governance attiva locale come strumento per facilitare  lo sviluppo armonico di ogni persona. Invece in questa strana separazione tra “progetti individuali” di carattere “assistenziale”  dei comuni soggetti ai piani di zona della Legge 328/2000 e il nostro PEI si prevedono solo “dialoghi diplomatici” qualora serva e qualora lo richiedano le famiglie. Non solo, il “progetto clinico” verso la persona rimane lontano, al punto che i clinici nel GLO “supportano” le scuole se serve e non necessariamente condividono. Assurdo.

Occorre a questo proposito ribaltare del tutto il punto di vista che non si è mai riusciti a modificare in venti anni. Per me il PEI è semplicemente una parte, quella scolastica, del progetto di vita della persona con disabilità in età scolare.   Essere una parte vuol dire “essere compreso” da una visione unitaria e multidisciplinare in cui tutti i soggetti che erogano servizi alla stessa persona dialogano e condividono le diverse pratiche, cercandone armonia e connessione.

In termini eleganti si chiama governance centrata sulla sussidiarietà e al servizio della persona.

Invece, niente da fare. Nel nostro caso al clinico spetta compilare l’ICF, parlare ogni tanto con i docenti e le famiglie, se serve “sostiene” il GLO,  ma nulla dice di ciò che intende fare di terapeutico sul bambino. Altrettanto il Comune è presente al GLO se serve nei casi particolari.
E infine perché manca il gran mondo del territorio, fatto da volontariato, aggregazioni sociali ecc.. che agisce verso il nostro alunno con disabilità? Non abbiamo nulla da dirci?.

In un’esperienza di ricerca-azione che ho fatto a Jesi (Ancona) alcuni anni fa abbiamo prodotto un percorso che non a caso si è chiamato “progetto di vita-PEI” in cui tutti i soggetti coinvolti  nella “cura della persona” condividevano e  registravano in un unico strumento tutti gli interventi di inclusione che ogni soggetto prevedeva nel suo settore, cercandone una sintesi e una correlazione. Dal punto di vista del genitore uno strumento formidabile: la scuola scrive la sua parte, la clinica racconta quali terapie ha in corso, il Comune quali azioni di sostegno vuol realizzare, se si vuole  gli scouts raccontano cosa faranno col nostro ragazzo nella sua esperienza scoutistica in corso.

Vorrebbe dire governance effettiva e non questa mania della canne d’organo dove ogni istituzione pensa solo al suo pezzetto di impegno.  Mescolare insieme vuol dire costruire anche una comunità multiprofessionale, dove tutti imparano dagli altri e si connettono a cercare la quadra. E dulcis in fundo… anche ai genitori a Jesi toccava scrivere il loro impegno familiare verso il figlio. Perchè i genitori sono importanti e occorre anche  dar merito alle loro competenze in atto.

Questo modello è radicalmente diverso da questo PEI monumento della scolasticità. Pensa a servizi capaci di progettare la vita per la persona “con la persona” e non ognuna per conto suo.

  1. La privacy e la trasparenza

C’è una questione surreale che sta creando molte discussioni sulla produzione del nuovo PEI.

Dunque: nel nuovo PEI si devono scrivere le ore effettive che ogni alunno/studente con disabilità frequenta davvero e le materie scolastiche effettive che apprende. La cosa ha creato molte critiche e sa anche di un “controllo” indiretto di certi presunti abusi.  Si teme anche che rendere trasparenti l’esonero da ore o discipline favorisca la legittimazione di un abuso.  Il tema è delicatissimo perché tocca una grande varietà di situazioni, alcune periodiche, altre stabili, in cui  ci si trova a lavorare nei diversi anni scolastici.  Eppure è un tema vero e molto serio. Se abbiamo alunni con disabilità iscritti al tempo pieno della primaria che escono alle 14 dopo il pranzo  piuttosto che alle 16 si deve scriverlo o nasconderlo? Se un bambino è costretto, per colpa dei servizi terapeutici, a fare logopedia di mattina che colpa ne ha? I casi sono più di quanto si creda, possono servire per fare una statistica delle diverse forme di inclusione, ma niente più.

Eppure questo tema tocca una questione delicata sulla flessibilità didattica e organizzativa della scuola, legata anche alla sua autonomia. Bizzarro  che il modulo PEI chieda le ore effettive ma non le ragioni pedagogiche o cliniche di questo evento.

Sulle discipline, invece, ricordo che fino all’esame di terza media gli studenti con disabilità vengono formati e valutati secondo il PEI che potrebbe anche valorizzare alcune discipline e considerare meno significative altre. Ma anche qui le Linee guida si prolungano su questioni legate alla frequenza e agli esami.

Piuttosto meriterebbe rilevare quante ore uno studente con disabilità sta in classe e quante nei ghetti delle aule h. Lì c’è il principale problema educativo da considerare, perché una frequenza totale in una classe-ghetto non è inclusione ma isolazione pura.

Si veda, quindi, come questioni collegate alla cd.. “trasparenza” nascondano non tanto la risposta giusta o la bugia, ma il bisogno (prima di tutto pedagogico) di conoscere le diverse condizioni di scolarità e le ragioni delle scelte delle scuole, se pedagogicamente fondate o solo forme di difesa o di sconfitta di una buona scolarizzazione. Il tema riguarda, ad esempio, le troppe scuole che suggeriscono ai genitori di tenersi a casa i figli all’inizio anno se non c’è ancora l’insegnante di sostegno, o ai tanti bambini “cattivi” che si tengono a casa non con una “sospensione” ma come “aiutino” per calmarsi, sia loro che i compagni di classe.

La scuola è per molti bambini e ragazzi molto comp0lessa, sia per quelli con disabilità che gli altri, a volte non c’è spirito comunitario tra famiglie. C’è di tutto, e non solo il bene.

Infine, non comprendo un’ansiosa apologia della privacy sui documenti scolastici degli alunni con disabilità. Spesso insegnanti nuovi non vengono messi in condizione di leggere i PEI dei loro nuovi alunni perché c’è “la privacy”. Sui documenti c’è sempre discussione sulle formulazioni da mettere. In genere chi si vergogna meno e chiede poca privacy è proprio la famiglia del nostro alunno con disabilità, che sa bene come sta il proprio figlio, ma che vorrebbe che tutti gli adulti che operano col figlio fossero messi in grado di conoscere e agire insieme per la qualità dell’inclusione. Dunque, almeno questo nuovo GLO sia un luogo aperto di conoscenza e dialogo, in cui le “carte” non siano strumenti top secret, ma piani di lavoro da condividere serenamente.

  1. Novità sull’inclusione sul secondo grado, un po’ rose un po’ spine

Trovo una bella rosa per l’istruzione secondaria di 2° grado la presenza della questione “transizione alla vita adulta” per il loro PEI. Per un ragazzo con disabilità spesso questa scuola rischia di essere l’ultima che condivide con coetanei, e per lui il passaggio alla vita adulta è certamente più difficile.

E’ un tema appassionante, ho iniziato a lavorarci più di venti anni fa all’Agenzia europea per i bisogni educativi speciali e finalmente si dice qualcosa. Anche se non basta, è per esempio poco marcata la necessità di connessione con la Legge 68/99 sull’inserimento lavorativo agevolato per le persone con disabilità.

Si tratta di avere una visione dell’alunno non solo scolastica, ma integrale delle competenze di autonomia e responsabilità di ogni studente, con percorsi di orientamento, inclusione effettiva, esperienze sul campo,  collegamento con i servizi territoriali che seguono la disabilità adulta. Il rischio altrimenti è che troppi nostro studenti con disabilità finiscano nei cronicari o strutture protette pur avendo abilità maggiori da sviluppare. C’è dunque un vasto campo di crescita della qualità inclusiva del nostro sistema secondario.

Ricordo che se i nostri ragazzi con disabilità frequentano l’istruzione superiore non è merito di una legge ma di una sentenza della Corte Costituzionale. Per il resto la scuola è rimasta la stessa, con quella ridicola separazione tra “percorso equivalente” e percorso differenziato”, cui il MIUR non ha mai messo mano. Anzi, è stupefacente (una vera spina) il tormentone nelle linee guida sulla valutazione dei disabili nella secondaria, dove si arriva  a dire “i disabili hanno il diritto allo studio, ma non il diritto al titolo di studio”. Frase quanto mai sgradevole e persino offensiva, come se i ragazzi con disabilità fossero “ladri” di titoli. Si sa bene che la questione è ben altra, e cioè che ad ognuno va dato il massimo di sviluppo delle potenzialità individuali, cognitive e sociali,  e ad un ragazzo con disabilità il sogno di un futuro migliore possibile, non una carta col timbro.

  1. Dulcis in fundo

Qualche anno fa, in un istituto professionale alberghiero della mia regione.
Viene in visita ufficiale la direttrice generale del Ministere de l’education national di Francia. E’ qui per preparare il viaggio del suo ministro nella nostra regione,  dedicato all’inclusione.
Al tavolo per il pranzo ho la preside a sinistra e la direttrice francese a destra. All’antipasto ci serve un ragazzo di terza, giacca e cravatta, e la preside gli chiede: “Come va, Giovanni?” (nome di fantasia). E Giovanni risponde: “Molto bene, preside!”.  E poi sottovoce mi dice: “Giovanni è arrivato con una diagnosi psichiatrica pesante, una brutta bipolarità, e timori di autolesionismo, ma mi pare che qui stia bene”. Traduco alla ,collega francese che mi ascolta stupita.  Al secondo giro, la preside dice a Giovanni “ma stai davvero bene, Giovanni? Cosa abbiamo fatto qui per farti star bene?” E Giovanni risponde “Da quando mi avete nominato tutor di un ragazzino di  prima sono felice. Devo farmi veder bravo per lui”.

Dunque: ad un ragazzo psichiatrico grave, art. 3 comma 3, la scuola affida (cioè si fida, da fiducia) un ruolo tipico di queste scuole: i ragazzi di terza si prendono in cura un ragazzino di prima facendo loro quasi da fratello maggiore. E questa scuola di affidarne uno a Giovanni!  Che si è accorto che forse non tutto in lui è follia, che anche lui può dare non solo ricevere.

Racconto brevemente questo piccolo caso per suggerire a tutti coloro che avranno a che fare col nuovo PEI un approccio certamente attento  ai suoi diversi aspetti formali, ma con uno sguardo di fondo squisitamente pedagogico. Servono carte ben scritte che hanno al centro non l’adempimento ma una spinta  di impegno a farne un progetto di inclusione davvero utile  per tutti i nostri vari Giovanni. Dunque che sia  la ricerca di soluzioni positive, di scambio, di apertura alla partecipazione di tutti.

L’esempio di Giovanni dimostra che una buona inclusione è ancora possibile.  L’esperienza italiana di inclusione, nonostante le difficoltà e regressioni, è ancora un valore, va salvaguardata.
Per questo mi offro volentieri a  fare formazione con chi vorrà accogliermi per gestire bene questo nuovo PEI con gli occhi di Giovanni. Per la qualità pedagogica vera fatta sul concreto, senza arrendersi alla forma e alla ritualità.




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Finally, remember that finding love requires more than a one-night stand. You need anyone to spend the associated with your day with and play with you for hours at a time. Ultimately, love-making is a healthful part of a romantic relationship. So , don’t let expectations stand in the way of true love. So , get out there and experience the world! You will find the soul mate! Bare in mind to never forget that it requires two people to produce love happen.

Whether you are contemplating a romantic romance or a unique one, there are numerous ways to satisfy the right person. Dating is challenging, but it could be a lot of entertaining. If you’re searching for a long-term romance, you need to spend time exploring your self. Besides, you need to have a sense of what enables you to tick. Simply by putting yourself out there, likely to be likely to catch the attention of the right person.

Once you’ve uncovered your true love, the next step is to learn yourself. You can actually find the perfect partner throughout your interests. Experiment with different persona types, nationalities, and actions. This will help you understand your self better and attract the ideal kind of person. You’ll be able to locate love if you’re happy. This will likely make your life considerably more meaningful. For anyone who is looking for a wife, you can start a relationship with someone who motivates you and is normally willing to invest in you.




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