L’economia dell’istruzione non ha titolo per parlare dei saperi del curriculum

di Raimondo Giunta

Cos’è l’economia dell’istruzione

Nel DNA di questa disciplina c’è l’impulso a rendere efficiente la spesa pubblica per l’istruzione e spesso c’è anche la preoccupazione a non aumentarla.
Alcuni suoi cultori, tra le tante affermazioni che fanno, sostengono che non è più sostenibile l’idea che non si debba cambiare la composizione della spesa pubblica per l’istruzione e che questa debba solo crescere. Le risorse per l’istruzione che bisogna strappare all’avidità di altri reparti dello Stato devono essere spese bene, senza sprechi, in modo efficace e ogni innovazione, così come il mantenimento dell’esistente, devono essere sottoposti ad una rigorosa analisi dei costi. Ma è davvero facile definire l’impiego ottimale delle risorse in campo educativo?
Ci sono delle difficoltà e “queste sorgono già nell’identificazione di una metrica comune delle variabili influenti sul prodotto scolastico; emergono nella valutazione delle relazioni fra output e input per individuare la combinazione efficiente di fattori e permangono nella determinazione delle soglie dimensionali e dei criteri organizzativi per l’impiego efficiente dei fattori”(Ugo Trivellato).

A queste difficoltà si aggiungono poi problemi operativi nel tradurre acquisizioni concettuali in interventi nella realtà.  Alle stesse conclusioni arriva E.  Somaini nel suo testo “Scuola e mercato”
L’autore tiene a sottolineare “che non tutte le modificazioni nel soggetto sono risultati dei processi formativi, perché sono influenzati in modo significativo da una serie di fattori di origine naturale, ambientale e sociale, che si manifestano gradualmente e lungo un arco esteso di tempo e che malgrado queste difficoltà, logiche e di misurazione l’adozione (con le dovute cautele) di un approccio produttivistico è auspicabile e ……..  anche possibile”.
Appunto auspicabile e possibile. Non credo che lo statuto epistemologico della disciplina abbia superato questi limiti.

Una teoria economica dell’istruzione, che non abbia eccessive ambizioni, aiuta a orientarsi nelle scelte degli investimenti più efficaci per il miglioramento del sistema formativo, anche se non sono esattamente quantificabili i loro effetti produttivi reali e potenziali.
Aiuta, anche, a comprendere che cosa comporta in termini di sviluppo economico un mancato livello d’istruzione della società, ma non può parlare con autorità sui saperi dell’istruzione che si ritengono necessari per la generalità di tutti i giovani che devono andare a scuola. Precauzione, questa, svanita nel corso degli anni, tant’è che molti cultori dell’economia dell’istruzione continuano a lanciare proclami sui “prodotti “scolastici necessari, redditizi e vantaggiosi per tutti.

Efficacia degli investimenti nel sistema formativo

L’efficacia degli investimenti nel sistema scolastico-formativo e quindi la loro sostenibilità politica si deducono dal contributo dato dalla scuola allo sviluppo delle conoscenze, alla diffusione della cultura, alla crescita del potenziale tecnico e professionale delle nuove generazioni e alla loro capacità d’inserimento nel mondo del lavoro e nella società come cittadini consapevoli.
La giustificazione della spesa per l’istruzione, cioè, viene dimostrata dal ruolo che essa ha nella formazione e nello sviluppo del capitale umano, sociale e culturale disponibile in una comunità, la cui importanza è stata messa in evidenza dagli studi di Coleman, Bourdieu e Putnam. Il valore del “prodotto scolastico”, per usare il lessico congeniale a questa disciplina, quindi, deve essere riferito alla sua qualità, cioè alla sua corrispondenza agli scopi sociali e istituzionali che una nazione si dà in un determinato momento della sua storia per le nuove generazioni. In questo caso la spesa sarebbe efficace e produttiva.
Non lo è più quando parte rilevante della popolazione scolastica viene espulsa dal sistema scolastico e dalla formazione senza il possesso di un bagaglio accettabile di competenze civiche e professionali; quando si allarga la distanza tra il sistema formativo e l’organizzazione sociale del lavoro e viene a mancare qualsiasi collegamento tra istruzione e sbocchi professionali.

E’, però, nell’ordine delle cose che ci sia uno scarto tra istruzione e mondo del lavoro e che sia difficile eliminarlo.
Tutto ciò dipende dal fatto che per quanti cambiamenti possano essere fatti nella scuola si resterà sempre un passo indietro rispetto agli alti e continui sviluppi tecnologici nel mondo della produzione e dei servizi, all’esplosione delle conoscenze e alla rivoluzione dei sistemi che le trattano, le accumulano e le diffondono.
Uno scarto che non dovrebbe diventare inconciliabilità tra i due sistemi.  Il sistema dell’istruzione e il mondo del lavoro con opportune misure di adeguamento devono, ad ogni buon conto dialogare e integrarsi.
Questo non significa auspicare una rigida finalizzazione dell’istruzione al sistema produttivo, impossibile nel breve e nel lungo periodo, anche perché non è l’unica ragione di esistere per il sistema scolastico e formativo.

Servizio alla persona o alla società?

Il sistema scolastico e formativo è servizio alla persona ed è contemporaneamente servizio alla società: nessuna delle due vocazioni può essere trascurata e deve pertanto essere sostenuta sia la sua natura di servizio alla persona, sia la sua crescente prospettiva di essere fattore dello sviluppo economico.
Privilegiando uno dei due aspetti si può lacerare un sistema che si trova all’incrocio di diverse richieste ed esigenze, che vanno armonizzate, ma non alternativamente subordinate. Non si può assecondare un generico e vago desiderio collettivo di istruzione e formazione, di crescita culturale senza chiedersi l’uso che se ne farà; non si può ferreamente legare i processi di istruzione e formazione, in cui si giocano scelte fondamentali del destino individuale dei giovani, alle necessità, ai fabbisogni del sistema socio-economico, predeterminando settori e quote dei vari indirizzi di studio.

L’istruzione è un bene pubblico la cui funzione primaria è la crescita e lo sviluppo integrale della persona di ogni bambino, di ogni ragazzo, di ogni giovane che varca la soglia di un istituto scolastico, ma la disciplina economica, invece, la considera solo con l’ottica di un bene di consumo o di un bene di investimento sia individuale, sia collettivo. L’economia dell’istruzione ci porta alla logica dei costi, degli sprechi e dei vantaggi.

Non proprio una dimessa ancilla della pedagogia; anzi finisce per imporre prima il proprio lessico e poi le proprie finalità. Ma sono i costi in sé che vanno ridimensionati a prescindere o le finalità da realizzare che qualcosa sempre costano?
Il criterio di giudizio sulle attività messe in atto dal sistema dell’istruzione è solo economico o può e deve essere invece di natura pedagogica?
L’economia dell’istruzione, purtroppo, è una disciplina che non si mette al servizio di nessun altro sapere di cui deve nutrirsi la scuola e dal proprio punto di vista non potrà che parlare di risultati, di valutazione, di spendibilità del prodotto scolastico. L’economicismo può arrecare danni alla dimensione umana e culturale dell’istruzione e della formazione, se non si sta bene attenti.

Quale rapporto fra istruzione e mondo del lavoro

L’unico problema in cui si arrovella l’economia dell’istruzione è il rapporto tra istruzione e mondo del lavoro.
Gli altri problemi, quelli afferenti ai valori, alle tradizioni, alla conoscenza del mondo e alla cultura dell’integrazione le sono nella migliore delle ipotesi indifferenti. La rude e solida disciplina dell’economia dell’istruzione, infatti, può trascinare verso la diffidenza e la sottovalutazione della pedagogia e farsi portavoce di tutta e di tanta avversione verso ogni idea di scuola, di insegnamento che ci ricorda la complessità in democrazia del compito di crescere e di educare i giovani. Alla scuola da qualche decennio sono state somministrate dosi massicce di questa cultura e non pare che l’abbiano migliorata e che abbia aiutato ad affrontare l’emergenza educativa.
La scuola non può perdere il controllo del proprio programma culturale e non può disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci col mondo del lavoro e con la società. La scuola deve essere autonoma, efficace e giusta, sapendo che gli esclusi dalla cultura e dai saperi sono e saranno i vinti e gli umiliati della nostra società.

La scuola sarà migliore, solo se resta e si sviluppa come comunità educativa.