Andare alla deriva

di Marco Guastavigna
[Riceviamo e volentieri pubblichiamo]

Posizionamento dell’Autore: Una Confessione di Parte

Eccomi qua, reduce dalle trincee dell’istruzione, ex-professore in pantofole e teorico della didattica digitale, con più anni di servizio che pixel sullo schermo. Mi fregio del titolo di “ricercatore inopportuno”, un epiteto guadagnato sul campo, a furia di non leccare stivali e di non incensare “guru” digitali. La mia età, unitamente a un conto in banca che mi permette di mangiare tutti i giorni (quasi), mi affrancano dal dovere di rendere conto a baroni universitari e consimili guru della “conoscenza”. La mia visione politica? Radicale, signori miei, radicale come un cavolo nero piantato nell’asfalto. Sono un irriducibile contestatore, un paladino delle ingiustizie (altrui, si intende) e delle devastazioni causate da quel mostro tentacolare che chiamano capitalismo. Sono convinto, con la testardaggine di un mulo, che l’unica via d’uscita sia dichiarare guerra aperta a questo sistema infernale e trasformarlo dalle fondamenta. Ma siccome non sono un Don Chisciotte solitario, cerco alleati in questa crociata. Nel campo dell’istruzione, il mio nemico numero uno è l’oligopolio capitalista delle piattaforme digitali, quelle che ci vendono “innovazione” a suon di euro e ci trasformano in consumatori compulsivi di app. Allo stesso tempo, cerco compagni di ventura tra coloro che sognano uno sviluppo umano equo, basato sulla condivisione della conoscenza, sul mutualismo e sulla cooperazione. Questo mio contributo, quindi, si divide in due atti: prima demolisco l’esistente, smascherando le ipocrisie e le bugie del “progresso” digitale; poi, con un pizzico di ottimismo (e molta ironia), propongo alternative tecno-economiche e culturali per risvegliarci dal torpore e per smettere di limitarci a brontolare senza agire. Insomma, una rivoluzione culturale a colpi di satira e di proposte concrete, perché, diciamocelo, la situazione è grave, ma non seria.

Pars de(co)struens, ovvero la nobile arte di smontare l’ovvio (e magari rimontarlo storto).

Il “distanziamento” delle pratiche didattiche, un eufemismo per indicare il fuggi-fuggi generale verso lo schermo, iniziato nel marzo 2020, ha ufficialmente consegnato l’istruzione nelle grinfie digitali del capitalismo, che già da tempo le faceva l’occhiolino, sia per quanto riguarda l’apprendimento (con i suoi dogmi STEM), sia per le “opzioni logistiche”, termine altisonante per dire “arrangiatevi”. I CEO di GAFAM, incoronati a supereroi virtuali, ci hanno “parzialmente salvato” dalla catastrofe scolastica, confinata in un angolo dall’emergenza sanitaria. Un vero atto di filantropia, non c’è che dire.

Guai a dimenticare la didattica a distanza, quel glorioso acronimo assolutizzato e assolutizzante, “la DAD”, un esempio lampante della superficialità del lessico dominante. Uno slogan ombrello, buono per tutte le stagioni, che illude di una comprensione condivisa, celando la mancanza di sostanza e le continue lesioni all’autodeterminazione professionale, individuale e collettiva. E poi c’è “la DID”, l’erede della DAD, che segue il paradigma dell’egemonia delegata dalle piattaforme digitali alle istituzioni: trasformare la difficoltà in opportunità, l’emergenza in “volontà innovativa”. Geniale!

L’innovazione, mantra neoliberista, ingrediente fondamentale dell’auto-imprenditorialità (anche a scuola, perché no?). Un’auto-dichiarazione di inadeguatezza che richiede uno strappo, un riadattamento, una “distruzione creatrice” (la schumpeteriana disruption), in salsa scolastica. Questo approccio ha sancito il passaggio tra DAD e DID, tra emergenza (indiscutibile) e governance (auto-dichiarata) della transizione, con la pretesa di plasmare il futuro. Che presunzione!

Ed ecco rispuntare “fare innovazione”, più tronfia che mai, nonostante le difficoltà. E subito dopo, il focus – finanziato dal PNRR – sugli ambienti di apprendimento “innovativi”, non “rinnovati”. Perché “rinnovare” implicherebbe dare un senso al cambiamento, non solo modificarlo a caso. Ma si sa, il “nuovo” (soprattutto se “digitale”) è un fine, non un mezzo. E la scuola, docile, si conforma a una visione tecnocratica, sostituendo il progresso con la rottura, epistemologica e ontologica. Apocalittico!

La declinazione dei bisogni di apprendimento? Tempo perso. Meglio dogmatizzare le potenzialità dei dispositivi digitali e sperare che il resto venga da sé. Non a caso, la formazione è spesso empirica e piramidale: vetrine di (presunte) buone pratiche e l’agognato inserimento tra (presunte) avanguardie. Alla base della piramide, si imita, si riproduce e si applaude a convegni e iniziative analoghe. Un vero circo Barnum.

A confermare la virtuosità di questa impostazione gerarchica – e sessista! – ci pensa il quadro di riferimento europeo per le competenze digitali dei docenti, “DigCompEdu”. Sei livelli di padronanza, gradienti di asservimento allo scenario “digitale”: novizio, esploratore, sperimentatore, esperto, leader e pioniere. Una scala di valori che farebbe invidia a un’azienda piramidale.

Avrete notato le virgolette intorno a “digitale”. E avrete notato l’espressione “il digitale”, apparentemente chiara e comprensibile, ma in realtà un oggetto confuso e non meglio identificato. Siamo nel campo della pseudo-condivisione. “Digitale”, in origine, definiva ciò che manipola numeri. Ma poi è stato dotato di articolo, sostantivato e potenziato sul piano semantico, fino a diventare uno sciamano totalitario nell’immaginario scolastico (e non solo). L’accostamento a sostantivi diversi (scuola, didattica, educazione, etc.) ha prodotto binomi pseudo-scientifici che giustificano una totale fiducia nell’efficacia formativa del proprio agire e compiaciute dogmatizzazioni di principi didattici e situazioni professionali. Un delirio di onnipotenza.

Questo approccio rinuncia al pensiero analitico e alla capacità di dare un senso agli obiettivi, adottando una visione ingenua e deterministicamente ottimista nei confronti dei dispositivi digitali in quanto tali. Che tristezza.

E, ciliegina sulla torta, le sparute forme di opposizione all’egemonia tecno-liberista usano lo stesso linguaggio e le stesse infrastrutture dei loro avversari. I documenti finiscono sulle piattaforme del capitalismo di sorveglianza, nascono gruppi di discussione sui business network e il campo di battaglia culturale è, appunto, “il digitale”. Lessico e agenda dei resistenti sono subordinati al flusso mainstream e, al più, si concepiscono “ripartenze” contro quanto deciso dal MIM e dalle sue diramazioni. Una strategia asfittica e strutturalmente perdente, come dimostra l’ultima contesa sull’intelligenza artificiale. Patetico.

Insomma, sembra proprio che al “digitale” non vi sia alternativa. Rassegniamoci. O forse no?

Pars Costruens: Ovvero, come salvarsi la pelle nell’era del digitale fuffa.

Se, armati di buona volontà e masochismo, volessimo davvero cercare alternative al delirio digitale dominante, sappiate che esistono. Parliamo di tecnologie “conviviali”, un termine altisonante per indicare strumenti che, udite udite, puntano alla condivisione (non quella dei meme su Facebook), allo sviluppo umano equo (roba da marziani!), alla cooperazione (e non alla competizione spietata per il like in più), al mutualismo (che non è una malattia venerea, ma un modo di aiutarsi a vicenda), alla sostenibilità economica e ambientale (sì, anche quella esiste!) e, rullo di tamburi, al rinnovamento (e non all’ennesimo aggiornamento del software che vi inchioda il PC).

Questi aggeggi miracolosi vanno dal *free software* (roba da comunisti, direte voi), ai motori di ricerca che non vi spiano (tipo DuckDuckGo e Qwant, nomi che sembrano usciti da un film di fantascienza degli anni ’50), fino ai fairphone (telefoni etici, un ossimoro degno di nota). Si ispirano a concetti rivoluzionari come l’opensource (tutti possono mettere il naso nel codice, orrore!), i contenuti aperti (un attentato al copyright!), le creative commons licenses (un invito al saccheggio intellettuale!), il diritto all’anonimato (un paradiso per i troll!) e, riudite riudite, alla riservatezza (un concetto ormai estinto!). Il tutto, ovviamente, in netta opposizione al modello tecno-liberista, quella macchina infernale basata sul codice proprietario (mio e non lo tocco!), sulla rendita da brevetti (soldi a palate!), sul segreto industriale (tipo la ricetta segreta della Coca Cola, ma in versione digitale), sull’obsolescenza tecnologica programmata (compra, consuma, crepa!) e, ciliegina sulla torta, sull’estrazione di valore dai vostri dati personali, spremuti come limoni per profilarvi e vendervi l’ennesimo gadget inutile.

Quindi, cari miei, la vera lotta non è tra “digitale sì” e “digitale no” (tanto ormai siamo tutti irrimediabilmente dipendenti), ma tra i dispositivi digitali “estrattivi” (quelli che vi prosciugano l’anima e il portafoglio) e quelli “aperti” e “decentralizzati” (quelli che vi illudono di avere ancora un briciolo di controllo). Se i primi vi spingono ad accettare passivamente lo status quo (ovvero, a farvi sfruttare in silenzio), i secondi potrebbero, forse, chissà, magari, condurvi verso l’emancipazione (un’utopia degna di nota). E qui entra in gioco la scuola, questo luogo di perdizione dove gli insegnanti, bombardati da corsi di formazione inutili, dovrebbero conoscere queste tecnologie alternative, per immaginare e costruire un futuro professionale e didattico diverso da quello attuale (un’impresa titanica, diciamocelo).

Insomma, utilizzare e far conoscere le tecnologie conviviali nei corsi di formazione (sempre più massivi e sempre più inutili) permetterebbe di:

* Cogliere “opportunità collettive, operative, cognitive e culturali” (un’accozzaglia di parole che farebbe impallidire un filosofo esistenzialista) per “inclusione e partecipazione” (parole magiche!) ed estendere le capacità umane (come se ne avessimo bisogno!).

* Combattere l’impatto ambientale dei dispositivi, la cui “immaterialità” è solo una mistificazione (e qui ci vuole un applauso, finalmente qualcuno se ne accorge!).

* Restituire Internet alla sua funzione di “infrastruttura senza confini” (un sogno hippie!), “sede di intelligenza collettiva” (forse sarebbe meglio dire “di stupidità collettiva”) e “arcipelago di punti di enunciazione” (roba da far tremare i polsi a Noam Chomsky), senza gerarchie (come se fosse possibile!).

* Praticare una didattica “autenticamente sperimentale” (ovvero, un casino totale!), con ipotesi definite (peccato che poi la realtà le smentisca) e bisogni formativi rilevati con attenzione (un’utopia degna di nota).

* Scegliere di volta in volta i dispositivi più adatti (come se avessimo scelta!), analizzando le alternative (che spesso sono inesistenti).

* Indebolire la visione e le pratiche mainstream (un’impresa disperata!), diffondendo un “linguaggio autodeterminato” (ovvero, incomprensibile ai più), “analitico” (forse sarebbe meglio dire “pedante”), con significato “davvero professionale” (ne siamo sicuri?) e capace di demistificare l’approccio tecnocratico e il tecno-entusiasmo acritico (un’impresa degna di Sisifo!).

* Riaffermare il diritto all’autodeterminazione (parola grossa!) professionale, intellettuale e culturale, collettiva prima ancora che individuale (un’altra utopia!).

* Prestare attenzione alla potenziale dequalificazione dell’agire cognitivo (ovvero, all’imbecillimento generale) causata dai dispositivi (finalmente!).

E qui si apre un nuovo capitolo: la sostituzione degli insegnanti con l’intelligenza artificiale (un incubo che si fa sempre più reale). Un impoverimento delle relazioni umane e della creatività (e chi se ne frega, tanto siamo tutti sostituibili!). L’approccio tecno-liberista magnifica l’efficacia della traduzione di processi complessi in materiale computabile (ovvero, la semplificazione estrema della realtà), in nome dell’efficacia (un valore assoluto, a quanto pare). Ma noi, poveri illusi, dobbiamo decostruire l’IA, ovvero:

* Chiarire che la riduzione statistica è un vincolo (un’ovvietà!), la cui accettazione acritica perpetua il modello socio-economico corrente (un’altra ovvietà!).

* Denunciare l’agire oligopolistico delle corporation (un’impresa disperata!).

* Porre domande etiche (una perdita di tempo, secondo molti).

* Praticare il dialogo, il confronto, la cooperazione e il mutualismo (roba da fricchettoni!).

Insomma, la costruzione di una “cultura tecnologica alternativa” (un’altra utopia!) può puntare a ulteriori sviluppi (sempre che s qualcuno freghi qualcosa).

In primis, figuriamoci!, un’autorialità digitale sostenibile, individuale o, meglio, (e qui scatta l’applauso!) collettiva, che, con candore quasi commovente:

* Si illude di usare solo software libero e contenuti aperti, ignorando le sirene del freemium e i contratti di licenza scritti in sanscrito legale.

* Crede di controllare i flussi di dati, quando in realtà è un fuscello in balia di un uragano algoritmico, privilegiando, poveretta, dati che non “profilano” (come se esistessero!).

* Si ostina a garantire la compatibilità con “qualsiasi” sistema operativo, una pia illusione degna di Don Chisciotte che combatte i mulini a vento.

* Vorrebbe tempi di elaborazione brevi, come se il mondo digitale non fosse governato dalla legge di Parkinson applicata all’uploading.

* Si affanna a creare “schemi operativi rapidamente comprensibili e altamente replicabili”, scambiando la complessità del reale per un tutorial di origami.

Questa autorialità digitale “sostenibile” (e già qui scatta la pernacchia) si divide poi in due categorie, come i buoni e i cattivi nei film western:

* Diretta: ovvero, illudersi di progettare e realizzare in prima persona (o in “mutualistico” collegio, che fa tanto cooperativa anni ’70) materiali multimediali. Richiede “piena consapevolezza” di alcuni aspetti fondativi, tipo:

* Credere che l’elasticità dei dati digitali ti renda un novello Michelangelo, quando in realtà ti perdi in infinite modifiche e “perfezionamenti successivi” che non finiscono mai.

* Pensare che la convergenza su supporto digitale renda tutto facile, quando in realtà hai una babele di formati incompatibili e un caos multimodale che manco Dante all’Inferno.

* Avere la presunzione di un approccio crossmediale e transmediale, quando sei più cross che mediale e più trans che sostanziale. Confidando, ciliegina sulla torta, nell’IA generativa, la nuova divinità pagana.

* Sognare la riproducibilità a costi marginali prossimi allo zero, dimenticando i costi (non marginali) di banda, storage, e soprattutto, della tua sanità mentale.

* Illudersi dell’illimitata estendibilità ipermediale, quando in realtà anneghi in un mare di link inutili e QRcode che portano a pagine 404.

* Saccheggiare repertori digitali pensando di essere un artista, quando in realtà sei un assemblatore seriale di template altrui.

* Credere che la taskificazione (parola che fa tanto robot) renda tutto più facile, quando in realtà ti perdi in un mare di procedure e sotto-procedure.

* Sbandierare contenuti aperti e free software come un vessillo etico, mentre usi di nascosto Photoshop craccato.

L’autorialità di secondo livello, ovvero l’arte di spacciarsi per esperti senza aver prodotto nulla di originale, è una pratica ben più diffusa e accessibile della creazione in prima persona (quella roba faticosa!). Consiste nel rovistare tra la spazzatura digitale del web (e, se proprio non si trova niente, in qualche autoproduzione raffazzonata) e spacciarla per oro colato. Il tutto, secondo quattro pilastri inamovibili:

* Selezione: scegliere il materiale più “convincente”, che tradotto significa il più “attendibile” (citato da Wikipedia?), “comprensibile” (almeno, si spera!), “completo” (abbastanza da riempire una slide) e “significativo” (parola grossa!).

* Strutturazione: prendere ‘sta accozzaglia di roba e darle una forma, una parvenza di ordine. Fondamentale l’uso di “modalità e forme di rappresentazione utili ed efficaci”, che in gergo significa “metto qualche bullet point e un’immagine trovata su Google”.

* Adattamento: manipolare il materiale altrui. Segmentare (taglia e incolla!), integrare (aggiungere un’opinione personale spacciandola per verità assoluta), commentare (esprimere il proprio dissenso con fare saccente), estendere ipermedialmente (aggiungere link a video di YouTube che nessuno guarderà).

* Associazione: legare tutto questo a “percorsi di rielaborazione attiva”. Traduzione: dare compiti a casa, sperando che gli studenti facciano il lavoro sporco al posto nostro.

In conclusione, questa magnifica pratica ci illude che una dimensione professionale auto-determinata, democratica, emancipatoria e inclusiva sia alla portata di tutti. Basta saper fare un buon copia-incolla e avere la faccia tosta di presentarlo come farina del proprio sacco. Che pacchia!

PS: L’autore di questo articolo è AiTextTune, in modalità sarcasmo; il testo è una parodia di un articolo di Marco Guastavigna.

 

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