Fra decreto continuità e corsi Indire: dove soffia il vento dell’inclusione

di Paola Di Michele

Quest’anno scolastico è stato caratterizzato da un’ampia congerie di provvedimenti che hanno parzialmente riformulato il ruolo e la funzione dell’insegnante specializzato su sostegno. Mi riferisco al DM 32/2025 che introduce la continuità su richiesta della famiglia e previa approvazione del GLO e del Dirigente Scolastico e all’attivazione dei corsi Indire per la sanatoria dei titoli esteri di specializzazione e di coloro che abbiano tre anni di servizio.

Da parte di alcuni si invoca, inoltre, la creazione di una cattedra ad hoc, come se il sostegno didattico fosse una disciplina a sé stante.

Si tratta di una serie di provvedimenti che inducono ad una riflessione sulla direzione intrapresa rispetto alla figura dell’insegnante di sostegno e, di riflesso, dall’inclusione tutta.
Dove ci porta, tutto questo? Quali possibili implicazioni, sia sul versante giuslavoristico, sia sul versante prettamente pedagogico?
La prima contestualizzazione che è necessario compiere riguarda il principio stesso, sacrosanto, che gli studenti (tutti, senza eccezioni) abbiano diritto ad avere gli stessi insegnanti di anno in anno per compiere un percorso educativo armonioso, ovvero ciò che definiamo continuità didattica. Tale principio confligge con una realtà, quella della scuola italiana, in cui si fa un largo uso di cattedre in deroga (circa 75.000 su un totale di 250.000 per il sostegno, fonte: https://www.ilsole24ore.com) e, quindi, di contratti annuali che rendono la precarietà un dato strutturale, alimentato da un sistema di graduatorie sostenute da corsi e certificazioni che obbligano il popolo dei precari ad acquistare corsi su corsi per non perdere posizioni in graduatoria e da un sistema che limita la scelta e introduce ogni anno la “lotteria” dell’algoritmo.

Né i concorsi PNRR hanno posto rimedio alla situazione, dato il basso numero di posti messi a bando. Ergo, in un sistema basato sulla precarietà, l’uovo di Colombo sembra essere il decreto continuità, che garantirebbe il mantenimento dell’insegnante di sostegno precario, quando gradito, per almeno un altro anno su posto assegnato.

Dunque, la scelta personale da parte dei genitori e la conferma da parte dei colleghi de GLO (alimentando la discriminazione fra curricolari e docenti di sostegno, fra docenti di ruolo e precari) e del DS garantirebbe almeno un altro anno d precarietà al nostro insegnante di sostegno.

Tuttavia. Sfugge forse che l’insegnante di sostegno è assegnato alla classe e non al singolo alunno (ergo, dovrebbe essere confermato da tutti i genitori?); sfugge che I criteri di valutazione di un pubblico dipendente devono necessariamente essere trasparenti e non possono in nessun caso essere frutto di scelte personali; sfugge che l’approvazione finale è del DS, cui si aggiunge un onere e un potere che può dare adito a diverse zone d’ombra e clientelismi. E’ possibile immaginare quale sorta di umiliazione e di costrizione possa rappresentare, per un docente precario, essere sottoposto all’approvazione di colleghi che, non avendo specializzazione, basano il loro parere (esattamente come i genitori) su criteri del tutto soggettivi?

Questo sotto l’aspetto formale.
Ma il vulnus peggiore, a mio avviso, riguarda gli aspetti deontologici e pedagogici.

La relazione educativa è frutto di cooperazione e mediazione fra le parti: in una parola, di reciprocità. Per poter costruire reciprocità è necessario che il “potere contrattuale” fra le parti sia in equilibrio; è necessaria una gestione della relazione basata sulla professionalità e non sull’amicalità o la collusione (non mi stancherò mai di ripetere quanto sia profondamente sbagliato utilizzare il proprio telefono personale per le comunicazioni anziché la mail istituzionale, tracciata e registrata).

E’ lecito chiedersi se la riconferma dell’insegnante di sostegno si possa basare su relazioni “emotivamente connotate” e non necessariamente professionali? Se l’implicazione emozionale, che è evidentemente un importante fattore in gioco (e ciò è assolutamente comprensibile nel caso dei genitori) finisce per connotare la corresponsabilità educativa si sostituisce una relazione basata sulla competenza ad una relazione basata sullo sbilanciamento dei poteri.

E’ semplice comprendere che, di fronte allo spauracchio dell’ennesima lotteria dell’algoritmo (sistemone informatico pieno di bug che frulla le persone come variabili, con risultati imprevedibili) e della precarietà che aumenta, anche il collega più convinto  dell’antipedagogicità di questo provvedimento, possa vacillare di fronte ad una richiesta di continuità. Per comprendere ulteriormente le dimensioni del fenomeno (e ricollegarmi alla presunta necessità di specializzare quanti più insegnanti possibile mediante i corsi Indire), la sola graduatoria su sostegno delle scuole superiori nella provincia di Roma è passata da circa 1.200 nominativi di quattro anni fa agli oltre 7.000 attuali; in considerazione di costi sostenuti sia economicamente che personalmente particolarmente alti, fra TFA e corsi abilitanti. Lascio ad altri le riflessioni sull’esplosione del fenomeno. Ma giova ricordare, en passant, che molti di questi insegnanti sono ex educatori con anni di esperienza alle spalle, esperienza negata dal loro essere stati operatori “esterni” alla scuola e la cui esperienza è nulla in atto di punteggi, mentre invece basta che un giovanotto di vent’anni col diploma, il Servizio civile e il TFA entri dalla porta principale con punteggio già alto.

Giuslavoristicamente questi provvedimenti sono discriminatori e privi della necessaria trasparenza. Basti pensare quanto, negli anni passati, le chiamate dirette (le cosiddette MAD) hanno consentito di accumulare punteggi a persone fuori dalle graduatorie e chiamate ad assoluta discrezione delle scuole. Si introduce l’idea che l’insegnante di sostegno precario, beninteso) sia, esso soltanto, oggetto di valutazione personale e soggettiva da parte di famiglie, colleghi e DS, solo responsabile del progetto di inclusione dell’alunno con disabilità, in una visione delegante e privatistica.

Pedagogicamente, rappresentano un vulnus della necessaria reciprocità della corresponsabilità educativa, uno spostamento drastico e irreversibile degli equilibri che fanno della cooperazione su un piano di parità la base di un vero gruppo di lavoro.

Umanamente, fanno leva su bisogni basilari e paure fondate: da una parte, i genitori esasperati da un’inclusione presente quasi solo sulla carta , dall’altra, docenti che hanno impiegato tanto tempo e impegno per ritrovarsi sempre e sempre in un giro di eterna precarietà (e a cui è richiesto di essere “sceglibili” a rischio di non lavorare l’anno successivo, scavalcati da quelli che hanno accettato). Leggo da più parti di scuole e sindacati che stanno offrendo modulistica per un provvedimento che presenta troppi lati oscuri: sognerei invece una presa di posizione unitaria in cui ci si rifiuti di aderire ad un progetto così profondamente antipedagogico.

La riflessione finale è sui principi fondanti: un’inclusione che sia equa, in cui ogni parte in causa sia latrice di sensibilità e professionalità diverse ma convergenti, in cui la formazione e l’aggiornamento, continui e qualificati (non solo corsi online giustificati da sperperi PNRR, ad esempio) rappresentano un obiettivo mai abbastanza raggiunto. La vera continuità è data dalla stabilità degli organici, dalla capacità di tutti di collaborare senza arroccarsi su posizioni di potere (un esempio per tutti è la diffusa abitudine di considerare i docenti di sostegno insegnanti di serie B, relegandoli all’angolo delle classi), dalla capacità di guardare nella stessa direzione, consapevoli dei diversi punti di vista.

L’idea è quella di una responsabilità diffusa, lontana da ogni forma di delega, in cui la comunità educante tutta, su un piano di parità e collaborazione, si assumano l’onere e l’onore di realizzare davvero l’inclusione secondo una vera idea di equità e solidarietà.

 

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