di Monica Piolanti
Oggi, in un mondo “sfibrato dalle guerre”, stiamo costantemente passeggiando come “funanboli” su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto ad altezze vertiginose. Non è un’immagine retorica, ma la percezione tangibile di una sfiducia profonda che permea il tessuto sociale, minando la legittimità stessa delle nostre Istituzioni. Questa sensazione di smarrimento, acuita da un’emergenza percepita come endemica, si traduce in una “paura diffusa, sparsa, indistinta”, un’inquietudine baumaniana che ci insegue senza un volto definito, e a cui diamo il nome di “incertezza.”
La complessità del reale, sempre più “ingarbugliata”, ci priva della capacità di decifrare gli eventi, lasciandoci preda di un fatalismo che, seppur seducente nella sua accettazione passiva, è una pura costruzione narrativa della realtà. È il dramma delle profezie che si autoavverano, un meccanismo perverso dove la percezione, ancor prima del fatto, plasma le conseguenze. Pensiamo alla minaccia di un coinvolgimento devastante di conflitti globali, di sistemiche crisi economico-finanziarie, di imminenti pandemie, di irreparabili catastrofi climatiche e ambientali: l’annuncio, a prescindere dalla sua veridicità iniziale, genera la realtà temuta. E in questo vortice, le nuove generazioni, private di un’autorevolezza adulta che indichi la rotta, si trovano a navigare senza bussola, in un rapporto che chiamiamo “contrattualistico” ma che, di fatto, è un abbandono al loro stesso “io”, con tutte le ansie che ne derivano.
In questo scenario, sento forte l’imperativo di un cambio di rotta. Non possiamo, come diceva Buckmeister Fuller, essere semplici vittime del futuro, bensì i suoi architetti. Viviamo un’epoca di inedite possibilità, un’abbondanza tecnologica che ci permette di ascoltare “la voce di tutti”, ma che, paradossalmente, ci trova orfani dei principi etici e relazionali capaci di trasformare questo coro in armonia. È qui che dobbiamo lavorare: sulle persone e sulle relazioni autentiche, le uniche in grado di arginare la desocializzazione e rigenerare quella fiducia collettiva senza la quale lo sguardo non può estendersi oltre l’oggi.
Dobbiamo osare percorsi educativi improntati alla fiducia. Fiducia in noi stessi, negli altri, nella possibilità intrinseca di costruire un futuro positivo. Questo non significa ignorare i rischi – le paure, dopotutto, possono essere anche utili sentinelle – ma costruire nei giovani, per osmosi con realtà concrete e positive, la certezza che le sfide sono fatte per essere affrontate, che il futuro non è un destino già scritto.
La scuola, in questo senso, diventa un laboratorio imprescindibile, un crocevia dove la testimonianza di chi incarna un’etica della persona può creare ponti con le nuove generazioni. Apprendere ad apprendere è la competenza della complessità: la capacità di affrontare l’imprevisto, di integrare saperi, di leggere il mondo e sé stessi. E’, in fondo, il cuore stesso della scuola, dell’istruzione, dell’educazione. Allora la questione non è più soltanto, come scrive Morin, insegnare a vivere, ma interrogarci su come rendere accessibile quel gesto originario che accomuna il comprendere e l’apprendere: il prendere. Come possiamo insegnare a vivere in un mondo sempre più complesso che cambia? Il pedagogista, prof. Alessio Trevisan, nel numero n. 28 della Rivista “La Ricerca” di maggio 2025, ci risponde: ”…insegnando prima di tutto a prendere il mondo con gli occhi, con il pensiero, con le parole…Il sapere, la conoscenza, la lettura sono incontro. E ogni incontro inizia da un gesto di presa: dell’altro, del testo, del mondo.”
In questa visione, il rapporto con il mondo del lavoro si eleva da semplice utilitaristica opportunità a una porta spalancata su una dimensione di slancio creativo e responsabilità. Non si tratta di affidarsi all’imprenditore più facoltoso, ma a chi sa infondere senso e speranza, a chi ha saputo progettare il nuovo, a chi ha creduto nelle proprie possibilità e ha offerto agli altri la medesima occasione.
Tuttavia, il mio sguardo si posa con apprensione su un fenomeno che considero un sintomo di questa deriva: il declino dell’Associazionismo. Associazioni che un tempo erano fari per la nostra scuola italiana, piazze privilegiate di dibattito pedagogico – come ad esempio il CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), l’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici), il MCE (Movimento di Cooperazione Educativa), l’UCIIM (Unione Italiana Cattolica di Insegnanti, Dirigenti, Educatori, Formatori) – oggi sembrano vivere un “crepuscolo” che mi addolora profondamente. La loro luce si sta affievolendo, e mi chiedo: “Perché i giovani non ne sentono più il richiamo?” E’ necessario interrogarsi sul perché non c’è un ricambio generazionale. E la nostra percezione non è isolata: come ben evidenziato da Michele Damiani su Italia Oggi il 14 novembre 2024, nel suo articolo “L’associazionismo italiano è in crisi”, il fenomeno che osserviamo nella Scuola è parte di un trend ben più ampio e preoccupante a livello nazionale. A rafforzare questa lettura, il più recente contributo di Mariella Stella su IRIS BICOCCA MILANO del 28 febbraio 2025, intitolato “Se la politica non vuole scomparire punti sull’associazionismo sociale”, ci invita a considerare il legame profondo tra la vitalità dell’associazionismo e la stessa tenuta della democrazia. Le ragioni sono complesse, un intreccio di fattori che Michele Damiani e Mariella Stella hanno lucidamente evidenziato. C’è un mutamento profondo nel contesto socio-culturale, che ha virato verso un individualismo marcato, allontanando le grandi spinte ideali del dopoguerra. La “società liquida” rende difficile la costruzione di legami duraturi, e la “disintermediazione” allontana i cittadini dalle forme organizzate di partecipazione. Le Associazioni, che per loro natura sono fucine di valori condivisi, faticano a trovare terreno fertile.
Anche la nostra categoria, quella degli insegnanti, è cambiata. Da comunità unita a un “esercito eterogeneo”, spesso ripiegato su sé stesso. Le comode micro-aggregazioni online frammentano la discussione, rendendo difficile la nascita di azioni concrete. E la scuola stessa, trasformata in una sorta di “azienda” burocratica, con una “corsa all’efficienza” e alla “valutazione per obiettivi”, sottrae tempo e risorse all’impegno volontario, soffocando l’innovazione dal basso.
Ma il punto che più mi inquieta è la frattura generazionale. I giovani colleghi, giustamente sommersi dalla mole di lavoro, spesso ignorano il patrimonio di battaglie e idee che queste Associazioni hanno lasciato. C’è una vera e propria “amnesia storica”, un’incapacità di passare il testimone. E, a volte, un pregiudizio le etichetta come “vecchio stampo”, nonostante i loro principi – la centralità dell’alunno, la didattica cooperativa, la cittadinanza attiva – siano di un’attualità disarmante. Forse, non siamo stati bravi a “tradurre” queste idee per il loro mondo. E, diciamocelo, il tempo stringe. La precarietà e lo stress rendono l’impegno associativo un lusso che in pochi possono permettersi. La scuola, invece, ha un bisogno matto di persone che pensano, che discutono, che si confrontano, che si uniscono per migliorarla.
Questo declino è un campanello d’allarme per l’intera scuola italiana e per la nostra società. Non si tratta di nostalgica restaurazione, ma di una riflessione profonda su ciò che ha funzionato allora: lo spirito di impegno, studio, ricerca e solidarietà.
Il 4 gennaio 2025 lo stesso Papa Francesco, come ci ricorda il Prof. Luciano Corradini il 17 giugno 2025 nel Giornale di Brescia, ricevendo i convegnisti dell’UCIIM e dell’AIMC alla celebrazione dell’ottantesimo della loro fondazione, ha concluso con queste parole: “All’inizio della vostra storia c’è stata l’intuizione che solo associandosi, camminando insieme, si potesse migliorare la scuola, che per sua natura è una comunità, bisognosa del contributo di tutti. I vostri fondatori, vivevano in tempi nei quali i valori della persona e della cittadinanza democratica avevano bisogno di essere testimoniati e rafforzati per il bene di tutti; e anche il valore della libertà educativa. Non dimenticate mai da dove venite, ma non camminate con la testa girata indietro, rimpiangendo i bei tempi passati! Pensate invece al presente della scuola, che è il futuro della società, alle prese con una trasformazione epocale. Pensate ai giovani insegnanti che muovono i primi passi nella scuola e alle famiglie che si sentono sole nel loro compito educativo. A ciascuno proponete con umiltà e novità il vostro stile educativo e associativo. Tutto questo vi incoraggio a farlo insieme, con una sorta di Patto tra le Associazioni.”
La sfida, allora, è ripensare l’Associazionismo, renderlo più inclusivo, più vicino alle esigenze di chi si affaccia oggi alla professione La sfida, per tutti noi che crediamo che la scuola possa davvero cambiare il mondo, è rimboccarci le maniche.
Solo così, forse, vedremo nascere nuove energie, nuove idee, nuove “avanguardie” che illumineranno il cammino della nostra scuola. E chissà, magari allora, anche i grandi giornali torneranno a parlare di loro, non solo per il passato glorioso, ma per il bellissimo futuro che stanno costruendo. Un futuro che, ne sono convinta, è ancora nelle nostre mani. “Non dobbiamo temere di svelare fino in fondo a noi stessi il potenziale che ci portiamo dentro”(Thomas Leoncini “La società liquida – Che cos’è e perché ci cambia la vita” Il Sole 24 Ore febbraio 2023).