Revisione Indicazioni Nazionali: c’è Commissione e Commissione

di Aluisi Tosolini

Mettere mano agli indirizzi generali di un sistema educativo è sempre questione complessa che richiede moltissima attenzione e cura. Spesso si tratta, infatti, di dar corpo a documenti che segnano la cultura di un paese per decenni. E che per definizione vengono in genere affidati ad altissime e riconosciute personalità.
Per fare solo un esempio, pochi sanno che il concetto di post-moderno che ha segnato decenni della cultura contemporanea si deve all’opera di Jean-François Lyotard che nel 1979 pubblicò il volume La conditione postmoderne. Rapport sur le savoir che gli fu commissionato dal Canada in vista della revisione del proprio curricolo di studi. Lo stesso accadde con Edgar Morin e il volume I sette saperi necessari all’educazione del futuro, commissionato dall’Unesco.

Per questo quando in Italia sento parlare di “revisione delle indicazioni nazionali” mi vengono i sudori freddi, soprattutto se le persone di cui si parla come componenti del gruppo incaricato di procedere alla revisione non brillano certo per essere personalità di altissimo ed indiscusso livello intellettuale e culturale.
Così, riflettendo sul caso italiano e dopo aver letto la precisissima ricostruzione fatta da Cinzia Mion del percorso del gruppo di lavoro che ha portato alle indicazioni nazionali sin dal suo avvio con Ceruti (e l’immediato collegamento con Morin e la sua proposta culturale e metodologica) sino all’aggiornamento del 2012 curato da Italo Fiorin ho pensato di confrontarmi con la precedente proposta nata un decennio prima su impulso del Ministro Luigi Berlinguer.

La commissione dei Saggi e la sintesi di Roberto Maragliano

Sono così andato a rileggermi il volume “Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni I materiali della Commissione dei Saggi” pubblicato nel 1997 dagli Annali della Pubblica Istruzione (il testo è reperibile in rete)

Tre sono le cose che mi hanno impressionato:

  1. Le precise domande – “questioni” poste dal ministro alla commissione dei saggi ed il brevissimo tempo dato loro per produrre risposte concrete
  2. L’elenco dei saggi che hanno partecipato alla commissione: si tratta del gotha degli intellettuali e degli esperti (di ogni tendenza culturale) di quel periodo. Riporto in nota l’elenco dei componenti della commissione così come desunto dall’art. 2 del decreto istitutivo. Invito a leggere l’elenco per capire l’altissimo livello delle personalità cui il ministro chiedeva un pare su quali fossero le conoscenze fondamentali per l’apprendimento nei prossimi decenni
  3. La sintesi di Roberto Maragliano che, come adesso si vedrà, è attualissima ancora oggi

Per quanto riguarda la sintesi proposta di Maragliano riporto qui i sette nodi sui quali la Commissione ha centrato prevalentemente la sua attenzione (pp 73).

I nodi sono:

  1. le questioni relative alla sfera dell’identità: dell’individuo che si intende formare, del nostro paese (e delle sue tradizioni storiche, rilette in chiave internazionale), dei processi in atto di globalizzazione (vale a dire europeizzazione e mondializzazione) della cultura, della comunicazione, dell’economia, della politica;
  2. l’esigenza di dare un significato etico ed empirico all’obiettivo di «educare nella e alla democrazia»: l’ultima riforma complessiva dell’istruzione, in Italia, è avvenuta più di settant’anni fa; sia il contenuto di tale riforma, sia la sua distanza temporale dall’Italia e dal mondo contemporanei continuano in varie forme a far sentire il loro peso;
  3. la dialettica che, in ordine all’organizzazione dei contenuti della formazione scolastica, si apre tra un’impostazione curricolare, affidata alla solidità dei quadri disciplinari di base (gli elementi istituzionali delle materie d’insegnamento), e una visione di tipo «reticolare», orientata ad individuare criteri più mobili di aggregazione delle future conoscenze e competenze dei giovani;
  4. il problema della sostenibilità sociale, culturale e ambientale delle dinamiche dello sviluppo, in ordine all’esigenza di coniugare le risorse disponibili con il bisogno di sicurezza e di aspettativa individuale e collettiva nel futuro;
  5. la messa in discussione di una visione esclusivamente «conoscitiva», «verbale» e «acorporale» dell’esperienza individuale e collettiva, e la conseguente promozione di elementi basilari di un sapere pratico, manuale e operativo;
  6. la questione del ruolo della cultura del lavoro nello sviluppo di un nuovo modello educativo;
  7. la sfida che l’innovazione tecnologica e la moltiplicazione delle fonti di informazione e di conoscenza pongono all’azione scolastica e all’individuo in crescita;

Come si può vedere si tratta di nodi attualissimi e sfide non risolte che si ripropongono ogni giorno nel mondo dell’educazione in Italia.

Il tema dell’identità e la sua dimensione plurale

Sul tema “identità”, che oggi è ancora più centrale,  Maragliano scrive:
“molto si è discusso di identità, e lo si è fatto il più delle volte usando il termine al plurale. Nella società del presente, ampiamente differenziata e aperta a un mutamento costante, l’individuo deve orientarsi sulla base di un gran numero di modelli, talvolta anche contrastanti e, lungo tutto il corso della sua vita, deve assumere, di volta in volta, ruoli diversi, a seconda dei contesti di esperienza e di attività. È dunque assai più difficile, oggi, proporre e far sì che un individuo mantenga una sua identità definita: i suoi quadri di riferimento saranno forniti dalla mediazione delle forme sociali e culturali, ma anche da processi centrifughi rispetto a queste, basati sulla possibilità di far leva su una elaborazione cosciente della sua personale esperienza di vita. In questo senso, il problema dell’identità individuale e delle forme di appartenenza dovrà essere al centro dell’attenzione di una scuola rinnovata.
E ciò lo si potrà ottenere sia concedendo un’importanza fondamentale agli aspetti metodologici della conoscenza (si tratta di fornire gli strumenti linguistici, interpretativi, operativi che meglio rispondono alle esigenze attuali di un’alta mobilità tra le diverse forme di specializzazione culturale e professionale) sia lavorando a promuovere un fondamento di solidarietà universale che si anticipi alla definizione delle identità particolari e favorisca il riconoscimento reciproco delle differenze” (pag. 74).

Verso una inedita retrotopia

Negli anni successivi sia la commissione Ceruti e che Fiorin si sono mosse lungo lo stesso sentiero coniugando nel glo-cale la pluralità di appartenenze che derivano dall’eterogeneità dei gruppi in cui le identità si sviluppano.
Certamente – come ha espressamente indicato il Ministro –  rispetto al tema dell’identità cla lettura Valditara si colloca in dimensione diametralmente contraria sia al percorso italiano Maragliano – Ceruti – Fiorin che al percorso internazionale Morin – Unesco (Re-immaginare il nostro futuro assieme. Un nuovo contratto per l’educazione, 2021) – ONU (Transforming Education , 2022) e ONU 2024, Summit per il futuro.

E’ un ideologico guardare all’indietro. Esattamente quello che Zygmunt Bauman in uno degli ultimi suoi saggi chiamò Retrotopia. Ovvero la fuga dal presente percepito come incerto e insicuro per rifugiarsi in un passato tanto rassicurante quanto inesistente perché mitizzato e ricostruito ad hoc. Un’utopia al contrario.

I componenti della commissione dei saggi
(DD.MM. n. 50 del 21 gennaio 1997 e n. 84 del 5 febbraio 1997)

Prof. Evandro Agazzi Docente Università Genova
Dr. Giuliano Amato Presidente Commissione Antitrust
Prof. Achille Ardigò Sociologo
Prof. Carlo Bernardini Docente Università «La Sapienza» Roma
Prof. Maurizio Bettini Docente Università Siena
Prof. Carlo Bo Rettore Università Urbino
Dr. Carlo Borgomeo Presidente Soc. imprenditorialità giovanile
Prof.ssa Liliana Borrello Ispettrice Ministero Pubblica Istruzione
Dr. Carlo Callieri Vicepresidente Confindustria
Prof. Carlo Cipolla Docente Università Pavia
Prof. Vittorio Cogliati Dezza Legambiente
Prof. Franco Crespi Docente Università Perugia
Prof. Francesco Dal Co Architetto
Prof. Paolo Damiani Presidente Associazione Italiana Jazz
Prof. Tullio De Mauro Docente Università Roma
Dr. Giuseppe De Rita Presidente CNEL
Prof. Gianfranco Dioguardi Docente Università Bari
Prof. Umberto Eco Docente Università Bologna
Prof. Paul Ginsborg Docente Università Firenze
Prof.ssa Rita Levi Montalcini Presidente Istituto Enciclopedia Italiana Roma
Prof. Mario Luzi Docente Università Firenze
Prof. Roberto Maragliano Docente Università Roma III
Prof. Umberto Margiotta Docente Università Venezia
Dr. Mario Martone Regista
Dr. Alfredo Carlo Moro Magistrato
Prof. Riccardo Muti Teatro alla Scala Milano
Dr. Maurizio Nichetti Regista
Prof.ssa Caterina Petruzzi Ispettrice Ministero Pubblica Istruzione
Prof. Giovanni Polara Docente Università Napoli 2
Prof.ssa Clotilde Pontecorvo Docente Università Roma
Prof. Antonio Portolano Ispettore Ministero Pubblica Istruzione
Prof. Luigi A. Radicati di Brozolo Docente Università Normale Pisa
Prof. Giovanni Reale Docente Università Cattolica Sacro Cuore Milano
Prof. Luisa Ribolzi Docente Università Genova
Suor Enrica Rosanna Preside
Dr. Eugenio Scalfari Giornalista
Prof. Emanuele Severino Docente Università Venezia
Dr. Antonio Tabucchi Scrittore
Prof. Silvano Tagliagambe Docente Università «La Sapienza» Roma
Card. Ersilio Tonini
Prof. Nicola Tranfaglia Preside Facoltà di Lettere Università di Torino
Prof. Uto Ughi Musicista
Prof. Mario Vegetti Docente Università Pavia
Prof. Edoardo Vesentini Docente Università Normale Pisa




Revisione Indicazioni Nazionali: la mania di lasciare tracce

di Mario Maviglia

 Si sa ancora poco di cosa voglia fare esattamente il Ministro Valditara riguardo la revisione delle Indicazioni Nazionali del 2012, su cui dovrebbe lavorare un’apposita commissione di esperti. Per la verità, come osserva il Manifesto on line del 4 maggio 2024, già lo scorso 12 ottobre il Ministro, rispondendo in Senato a un quesito sull’insegnamento della storia e della geografia, aveva annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro per rinnovare la didattica: “La modifica della progressione dei contenuti, degli obiettivi e dei traguardi per le discipline di storia e geografia sarà valutata nell’ambito della revisione delle predette Indicazioni nazionali”.
Adesso che si conoscono i nomi dei componenti la Commissione e ci sono già le prime critiche, il Ministro ha dichiarato attraverso i social: “Si rilassino i contestatori e i polemisti di professione, non appena il decreto di nomina della Commissione di studio sarà registrato, sarà avviata una consultazione ampia del mondo della scuola.”

Lungi da me l’intento di rientrare tra i “contestatori e polemisti di professione” richiamati dal sig. Ministro, però vorrei sommessamente indicare a Valditara alcuni interventi che potrebbero “rinnovare la didattica” senza necessariamente intervenire sulle Indicazioni nazionali di cui, per la verità, non si sente la necessità.

Un primo intervento riguarda la qualità dell’insegnamento e dunque degli insegnanti. Il sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti attualmente vigente è quanto di più lontano si possa immaginare per garantire un rinnovamento della didattica. A parte la querelle sui 24/30/60 crediti per poter insegnare, dal sapore più kafkiano che pedagogico, siamo sicuri che i test siano gli strumenti più idonei per selezionare i migliori candidati docenti? Sono sicuramente molto “economici”, ma che siano in grado di conseguire l’obiettivo per cui vengono utilizzati è tutto da dimostrare. A ciò si aggiunga che la stessa individuazione dei commissari di concorso è diventata un’operazione quanto mai macchinosa e difficoltosa in quanto coloro che accettano questo tipo di incarico (docenti e dirigenti scolastici particolarmente masochisti) non sono esonerati dal servizio e questa prestazione aggiuntiva viene retribuita con compensi talmente irrisori che suonano offensivi.
Difficile che questo sistema sia in grado di selezionare i migliori docenti. E d’altro canto fare l’insegnante in Italia non è una professione così attrattiva, né sul piano economico né su quello sociale, come avviene in altri Paesi occidentali e non solo. Ecco una bella sfida che il Ministro potrebbe accogliere se volesse davvero “rinnovare la didattica”: valorizzi la professione docente!

Un secondo intervento riguarda la sburocratizzazione della scuola. Difficile forse chiedere questo a chi di burocrazia vive. Però ci solo livelli di decenza sotto i quali non si può scendere. Se il Ministro volesse passare alla storia potrebbe cominciare a mettere il bavaglio (non quello che la sua maggioranza mette alla stampa che nelle classifiche internazionali è passata dal 41° dal 46° posto in quanto a libertà) alla produzione di atti amministrativi rivolti alle scuole.
Misura ed essenzialità: questi potrebbero essere i principi guida dell’apparato amministrativo del MIM. E soprattutto: non molestare le scuole con richieste di dati che l’Amministrazione ha già, in un modo o nell’altro.
Certo, anche le singole scuole (e particolarmente i dirigenti scolastici) devono stare attenti a non andare oltre la misura del lecito nel processo di burocratizzazione. L’attenzione va rivolta al lavoro d’aula e alla cura dei processi di apprendimento, non alla produzione di rapporti, relazioni, verbali, progetti, piani et similia che nessuno legge. Ma l’esempio deve essere dato dal management amministrativo: il Ministro può fare molto sotto questo profilo, anche senza il supporto di alcuna Commissione…

Un terzo intervento riguarda la cura dei risultati scolastici e, dunque, delle azioni politiche da attivare a questo fine. Ogni anno l’Invalsi provvede a rilevare lo stato dell’arte delle conoscenze e competenze degli studenti delle canoniche classi filtro. Invece di elucubrare sulla possibilità di inserire i risultati Invalsi di ogni alunno all’interno della scheda di valutazione (decisione tecnicamente scellerata in quanto le prove Invalsi nascono con un altro fine), bisognerebbe considerare piuttosto tutti i risvolti “politici” dei risultati e su questo un Ministro avrebbe molto da dire (e da lavorare).
Così, ad esempio, se dall’analisi dovessero emergere situazioni particolarmente critiche su alcuni apprendimenti in determinate aree del Paese (come succede), il decisore politico dovrebbe farne oggetto di attenta analisi e provare a mettere in atto interventi di vario tipo per invertire la rotta.
Ad esempio, possono essere definiti interventi di tipo formativo per incrementare le competenze metodologico-didattiche dei docenti negli ambiti considerati, oppure l’adeguamento della strumentazione didattica o altri interventi di diverso segno. In ogni caso, il decisore politico dimostrerebbe di saper intervenire per tentare di dare una risposta ai problemi rilevati. Qui invece si interviene sulle Indicazioni nazionali senza sapere quasi siano i problemi rilevati.

È tipico di molti animali marcare il territorio per lasciare il segno della loro presenza; spesso si ha l’impressione che alcuni Ministri adottino questo comportamento etologico per marcare a loro volta la loro presenza, per lasciare traccia del loro passaggio.
E su come gli animali marchino il proprio territorio preferisco non approfondire.

 

 

 

 

 

 

 




Revisione Indicazioni Nazionali: l’assalto alla diligenza di Galli Della Loggia & C.

di Cinzia Mion

Operatori scolastici vi prego : state tutti con le orecchie alzate! Sono una vecchia dirigente scolastica in pensione e mi permetto di allarmarvi.

Il  Ministro Valditara e il suo entourage stanno per sferrare un attacco alle “Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e del il primo ciclo”, testo che ha visto la sua prima stesura nel 2007, con il Ministro Fioroni.

Presidente della commissione che allora ha steso la prima versione del documento è stato Mauro Ceruti, allievo del grande Edgar Morin,  ancora prolifico nonostante la veneranda età.
Alla presentazione ufficiale  delle Indicazioni era stato invitato anche Morin stesso ed io mi sono “fiondata” a Roma, a quel tempo potevo permettermelo(!), per ascoltare e vedere da vicino il grande saggio di cui avevo letto uno scritto all’interno di una  raccolta di altre dissertazioni dal titolo “La sfida della complessità” (1985) a cura appunto di Bocchi e Ceruti, che mi aveva affascinato! Era presente tutto il Gotha (compreso Cerini) della scuola e non solo.

Sono tornata a casa gasatissima. Eppure ero già in pensione ma non avevo smesso il mio lavoro di formazione.
Nel 2011, presso una scuola dove ero stata dirigente, ho partecipato a Treviso ad un focus group organizzato da Cerini sulla rivisitazione delle Indicazioni per la scuola dell’infanzia, ricavandone ulteriore entusiasmo.
Nel 2012 ha avuto l’imprimatur la nuova edizione delle “Indicazioni nazionali”, a cura appunto di Giancarlo Cerini, spesosi sempre in nodo molto illuminato per la Scuola , soprattutto dei più piccoli, mancato di recente e che ci mancherà sempre.

Il “paradigma culturale della complessità” ha intriso di sé tutto il documento delle Indicazioni, rendendolo adeguato ai tempi per poter  affrontare da parte delle nuove generazioni, che abiteranno ancora più la complessità, la difficoltà della coniugazione delle logiche anche contrapposte (Morin) facendo in modo di tenere insieme, per esempio, “l’uguaglianza e la differenza” (cfr:”La scuola raccoglie con successo una sfida universale, di apertura verso il mondo, di pratica dell’uguaglianza nel riconoscimento delle differenze”da : Premessa Indicazioni, primo paragrafo,Cultura, Scuola, Persona”)

Questo paradigma doveva in parte soppiantare quello precedente della “linearità” che obbediva alla logica binaria caratterizzata dalla “o” escludente: o bianco o nero, o vero o falso, ecc.
Nel caso preso in considerazione, alla luce delle dichiarazioni del Ministro:” italianità“ o ”non italianità”.

L’applicazione del paradigma della complessità richiede un “pensiero riflessivo”, molto impegnativo, che supera di gran lunga quello “riflettente” di semplice restituzione dei contenuti dei libri di testo o della lezione frontale, tanto cari a quelli che si stanno attrezzando oggi per attaccare le “Indicazioni”, e che è stato anche esaltato sempre da Galli della Loggia e dalla sua cerchia.
Insieme alla riflessività, che attraversa tutto il testo del documento, si rintraccia anche la l’importanza della competenza del “decentramento” del proprio punto di vista che risulta essere un altro filo rosso a partire dalla scuola dell’infanzia!
Il compito di monitorare l’applicazione delle Nuove Indicazioni è stato affidato a Italo Fiorin che ha curato molto bene e accuratamente, anche come Coordinatore del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni, il più recente testo (2018) “Indicazioni Nazionali e nuovi scenari”, su sollecitazione sia delle spinte dell’attualità, sempre più digitale,  sia della’Agenda 2030 che ha fatto uscire dallo sfondo il tema della “sostenibilità”.

Accanto a queste tematiche stavano anche emergendo problematiche derivanti dalle migrazioni e dalle difficoltà a fare interagire culture diverse, aspetto che spesso invece di essere agevolato da modalità corrette di “interculturalità” è stato cavalcato nel frattempo da alcune forze politiche al fine di creare scontri e sollevare rifiuti nei confronti delle “diversità” etniche, culturali e religiose.
Il nuovo testo ha affrontato questi scenari al fine di modernizzare il testo delle N.I. del 2012.

State “in campana” ragazzi (posso chiamarvi così?) perché stanno per scipparci una bussola fondamentale per la nostra scuola, bussola che ci indica la strada maestra per quella “riflessività” che potrà salvare noi e i nostri giovani futuri dal rischio di subire manipolazioni e farci trovare spiazzati e indifesi rispetto a tutte le complessità che abitano oggi il mondo. Tra le quali oggi compare “l’Intelligenza artificiale” che potrebbe aiutare la funzione del “problem solving” ma non di sicuro quella del “problem posing”. Essere in grado di problematizzare la realtà e i suoi eventi è una competenza che affonda le sue radici nella riflessività sofisticata tipica solo della mente umana ben coltivata.

Anche Edgar Morin recentemente ha fatto sentire la sua voce con un agile  pamphlet dal titolo emblematico “Svegliamoci” con cui intende salvare il PENSIERO che è a forte rischio di inaridimento.




Revisione Indicazioni Nazionali, pedagogia identitaria e dinosauri

di Raffaele Iosa

Se qualcuno del mondo della scuola pensava che il governo Meloni, (cioè il ministro pro tempore Valditara) avrebbe governato la scuola concentrandosi su questioncelle contrattuali, o gestionali o occupazionali, si sbagliava di grosso.

Al centro, confuso e loquace,  dell’operare di questo docente di diritto romano antico, puro leghista  non alla Bossi ma  alla Vannacci, c’è invece una questione grande e delicata: cambiare nel profondo  il cuore culturale del fare scuola.
Cambiarlo mettendo al centro quella che viene decantata “identità italiana”, messa contro quella da loro chiamata “cittadinanza planetaria”, brutta figlia del pensiero globale e della visione interculturale di Edgard Morin, considerato (giustamente) l’ispiratore delle attuali indicazioni nazionali per la scuola di base.

Una  regressione nazionalista quindi, che ha giù avuto numerosi segnali, dalla guerra contro la scuola di Pioltello per la giornata di chiusura in occasione del ramadan, a continui distinguo nazionalisti,  con la patria italica da riscoprire e con i nostri piccoli concittadini da curare con una nuova terapia dell’identità nazionale,  perché maleducati da una scuola soi disant troppo multiculturalista.

Questo pensiero “nazionale” è al cuore  della destra, espresso con  messaggi culturali cui il facondo ministro della cultura offre ogni giorni simpatici siparietti di banalità. D’altra parte che cosa aspettarci da questa alleanza politica così bizzarra: un partito erede del fascismo nazionalista con un partito separatista e trafficone, con un partito pseudoliberal figlio dei danè lumbard.

Eccoci oggi alla formazione di una Commissione che dovrebbe  ri-scrivere la scuola di base per una agognata rivoluzione di destra  di tutti gli italici da Bolzano a Trapani, avente come scopo quello di “rifare gli italiani ritornando alla tradizione autoritaria”.
Il previsto ritorno ai voti in scala camuffati nel primo ciclo, come il voto di condotta  che boccia sono primi segnali di questo neo-vetero-scuola, ma c’è anche altro nel sociale, come gli interventi in tema di aborto. Esempi  di un tentativo nazional conservatore di cambiare l’anima degli abitanti di un paese europeo chiamato Italia.

Interessante è che la Commissione sia (per ora) composta da soli pedagogisti. Brutta immagine per un ministro che vede costoro come “pedagoghi” portati al discorrere  della chiacchiera separata dall’essere scuola  come incontro tra generazioni e luogo di costruzione del futuro,
Più che di futuro il ministro  vuole tornare al passato, un passato banalmente  italico, dall’imparare a memoria Fratelli d’Italia a leggere ogni settimana un pezzetto del libro Cuore, a studiare fin da piccoli con storielle i “grandi”  del nostro stivale, mescolando Machiavelli (che era fiorentino e uomo globale) e Giulio Cesare (più romano di lui non con c’è) come padri della patria.

L’assenza degli storici di professione e l’assenza di un dibattito iniziale aperto a diverse scuole di pensiero ci dice chiaro e tondo  la logica, che è quella  separativa tra “noi italici” e “loro anti-italici” (che potremmo anche chiamare con un nome più semplice e naturale: antifascisti).
Personalmente ritengo questa operazione puramente di facciata e di corto respiro.
Non pare d’altra parte fulgida la carriera ministeriale dell’attuale ministro della Minerva.
C’è infatti un limite al discorrere pedagogico che giorno per giorno rileva la banalità  di questo dicastero.

L’ultima novità, massimo esempio di dilettantismo, è la polemica sul fatto che i bambini si occuperebbero troppo…di dinosauri.
E’ probabile che nessuno a viale Trastevere abbia pensato al fascino di altre epoche molto lontane e misteriose, troppo lontane per servire a fare di un bimbo un robusto e obbediente italico.  Davanti ai dinosauri il povero italico scoprirebbe malgrè soi che la storia non comincia lungo il Tevere. E’ pericoloso. Ma si dimentica, questo ministro,   così come la questione dei dinosauri ha avuto  nella favolistica infantile ma anche adulta, riferimenti profondi al vivere e al convivere, al sé che incontra l’altro, come ci ha insegnato l’amico dei bambini Spielberg, non solo con i suoi film dinosaurici ma ad esempio con ET, capolavoro dell’amicizia dell’alterità.
A viale di Trastevere forse non si conoscono  le teorie di Propp sulla favolistica popolare. Non si sa nulla di bambini reali. Lo dimostra questo fatto:  cadere nelle polemiche contro i dinosauri è francamente troppo.  Da ridere e piangere.

Ma proprio queste banalità ci devono preoccupare, ci obbliga a tener alta una  dialettica coraggiosa e franca, sviluppando l’autonomia delle scuole come luogo elettivo di pluralismo da difendere giorno per giorno perfino dalla dinosaurofobia.




E’ mancata Paola Falteri, una combattente per l’insegnamento della storia

C’è molta commozione nel mondo della scuola per la scomparsa di Paola Falteri, geniale docente di antropologia culturale all’università di Perugia che a partire dagli anni ’70 molto si impegnò per costruire un approccio innovativo e progressista all’insegnamento della storia.

Riportiamo qui il ricordo di Antonio Brusa, già docente di storia all’università di Bari e presidente della Società Italiana di Didattica della Storia.

Paola Falteri è stata una combattente  per l’insegnamento della storia.
Scrisse un libro con Mila Busoni nel quale rompeva le barriere fra l’insegnamento della storia e quello dell’antropologia e sosteneva che fin dalle elementari ai bambini si dovessero offrire orizzonti culturali vasti e la conoscenza di popolazioni lontane e diverse. Un percorso affascinante, non solo per l’Mce, il Movimento del quale Paola è stata grande animatrice.
Lavorai con lei nell’Osservatorio interculturale, diretto da Milena Santerini. Dovevamo affrontare la questione: quale storia insegnare in una società ormai multiculturale come quella italiana? La storia mondiale, fu questa la nostra risposta, l’unica in grado di abbracciare tutti, uomini e donne di ogni parte del mondo.
Ci lascia, Paola, mentre dal governo giungono sirene identitarie e la proposta di una storia che, di fronte all’esplosione delle diversità umane, chiede agli italiani di ripiegarsi su se stessi, sulle proprie leggende, sui Pinocchi e sui Libri Cuore. Così, ci accingiamo a questa nuova battaglia in difesa di una storia cognitiva, libera dai gioghi identitari, senza di te, ma con la ricchezza dei tuoi libri e del tuo insegnamento.

Nel sito del Movimento di Cooperazione Educativa una pagina in cui la ricorda chi ha avuto modo di conoscerla e di lavorare con lei.




E la chiamano estate … educativa

Stefaneldi Mario Maviglia

Vogliamo dare credito al Ministro Valditara e al suo Piano estate per il biennio 2023-2024 e 2024-2025. Sul sito del MIM il Ministro sostiene che l’obiettivo del Piano è quello di considerare la scuola come “punto di riferimento per gli studenti e per le famiglie anche d’estate, con sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento, ricorrendo a tutte le sinergie positive possibili, dagli enti locali alle associazioni del terzo settore. Una scuola che sia sempre più un luogo aperto, parte integrante della comunità per tutto l’anno, realizzando attività di aggregazione e formazione soprattutto per i bambini e i ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari”.
Parole assolutamente condivisibili.
Il problema è valutare se le misure proposte (e i comportamenti del Ministero stesso) sono in grado di conseguire questi obiettivi tenendo conto della specifica realtà delle scuole, che hanno tempo fino al 24 maggio 2024 per avanzare la loro candidatura (l’adesione al piano è, com’è noto, su base volontaria).

 I tempi

Questo è già un primo problema, sia nel breve che nel medio periodo. Pensare che le scuole abbiano lo spazio mentale, prim’ancora che progettuale, di condurre una progettazione adeguata delle attività estive in collaborazione con le agenzie del territorio in questa fase conclusiva dell’anno scolastica (già affollata da altri adempimenti rituali) vuol dire non conoscere le scuole e l’affanno che vivono in questo periodo dell’anno scolastico, oppure considerare l’intero Piano come un’operazione per spendere soldi perché debbono essere spesi. A prescindere.

La durata biennale del Piano, peraltro, non dà alcuna garanzia che – esaurito questo arco temporale – le attività possano proseguire. Questo limite temporale del progetto e l’adesione volontaria delle scuole potevano avere senso all’interno di una esperienza controllata in vista di una generalizzazione nel prossimo futuro. Infatti è plausibile immaginare che anche fra qualche anno si porrà il problema di dare l’opportunità a quei “bambini e ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari” di fruire delle attività previste dal Piano estate. La mancanza di una visione a medio-lungo termine (se non è dettata da verifiche empiriche che suggeriscano la necessità di abbandonare determinate scelte per gli accertati esiti negativi) rischia di trasformare queste iniziative in spot sospesi nel vuoto.

Peraltro i tempi così ristretti nella progettazione delle attività si trasformano, ancora una volta, in una sorta di tour de force per quelle scuole che intendono aderire al Piano. Un progetto di questo tipo deve essere annunciato a settembre, non nel mese di aprile. I tempi di reazione della scuola non sono quelli delle aziende private; al Ministero ciò dovrebbe essere noto.

Le scuole e i docenti

In che cosa si distinguono le attività proposte dalla scuola all’interno del Piano estate rispetto a quelle tradizionalmente realizzate dai centri ricreativi estivi gestiti dagli enti locali o da altre agenzie del territorio? O rispetto ad altre forme aggregative estive come summer camp, campi scout ecc.? La domanda non è peregrina per almeno due ordini di motivi: se non si definiscono le caratteristiche dell’offerta ministeriale rispetto alle altre proposte estive non si rischia di fare concorrenza a queste ultime?  E perché l’utenza dovrebbe scegliere le proposte della scuola, a parte gli eventuali vantaggi economici? L’altro aspetto riguarda la preparazione professionale dei docenti: essi sono “formati” per trasmettere conoscenze in modi più o meno formalizzati e attraverso percorsi più o meno strutturati, spesso privilegiando approcci comunicativi unidirezionali (la lezione); quando il Ministro parla di attività quali “sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento”, sembra alludere ad ambiti del fare e dell’agire non così presenti nella liturgia scolastica canonica. I docenti sono in grado di gestire attività di questo tipo al di fuori della ritualità consolidata che costituisce il loro normale contesto professionale?

Insomma, se i docenti affrontano queste attività da “animatori” o “educatori” evidentemente fanno riferimento ad una serie di competenze del tutto specifiche e personali, non certo istituzionali (e dunque non diffuse allo stesso modo all’interno delle scuole); se invece le gestiscono secondo le loro abituali competenze allora c’è il fondato rischio che vengano “scolasticizzate” con tutto ciò che ne consegue in termini di sostenibilità e appeal per gli studenti. Si può obiettare (giustamente) che vi sono tante scuole in cui l’approccio laboratoriale è fortemente presente e dunque non dovrebbero sorgere problemi nella gestione delle attività previste dal Piano estate; ma queste scuole aderiranno al Piano estate?

In realtà, se si va a leggere l’Avviso pubblico con il quale il MIM invita le scuole a proporre la loro candidatura per i “percorsi educativi e formativi per il potenziamento delle competenze, l’inclusione e la socialità nel periodo di sospensione estiva delle lezioni negli anni scolastici 2023-2024 e 2024-2025” (prot. 59369 del 19/04/2024) si ricava una generale impressione di impostazione fortemente “scolasticistica” e verticistica in ordine alla progettazione delle attività. E infatti vengono individuati 9 moduli di intervento: Lingua madre, Matematica, scienze e tecnologie, Lingua straniera (inglese per gli allievi della scuola primaria) Competenze in materia di cittadinanza, Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare, Competenza imprenditoriale, Consapevolezza ed espressione culturale, Educazione motoria, Pensiero computazionale e creatività e cittadinanza digitali.
E se una scuola intende agire su altri ambiti in relazione alle specifiche esigenze della realtà in cui opera?

Per ogni modulo è prevista una durata di 30 e 60 ore, a scelta della scuola proponente, nel limite del massimale di spesa; i soli percorsi di lingua straniera possono avere durata anche di 100 ore. Viene specificato che “i moduli rappresentano l’unità minima di progettazione e sono contraddistinti da una specifica configurazione in termini di ambito disciplinare/tematico, durata e figure professionali coinvolte (alcune obbligatorie – “esperto” e “tutor” – e altre facoltative).”  Anche in questo sarebbe interessante capire se questo perimetro temporale scaturisce da un’analisi tecnico-scientifica riguardo lo sviluppo di un modulo o da ragioni amministrativo-contabili o da altre imperscrutabili ragioni. Definito un tetto di spesa (sulla base del numero di studenti iscritti ai moduli) le scuole non sono in grado di stabilire la durata dei moduli stessi? Non hanno il know how adeguato? Il MIM ce l’ha?

Più in generale, c’è da chiedersi che fine ha fatto l’autonomia delle scuole. Ma anche che fine hanno fatto quei “progetti che prevedono attività di potenziamento didattico, sportive, musicali, teatrali, ludiche e ricreative, a tema ambientale e, più in generale, tutte quelle iniziative che favoriscono la relazionalità, l’aggregazione, l’inclusione, la socialità, l’accoglienza e la vita di gruppo” richiamati dal Ministro nella nota prot. 56244 dell’11/04/2024. Sembra quasi che nel passaggio dall’ufficio politico del Ministro a quello del management amministrativo il Piano estate sia diventato un sottoprodotto della normale attività scolastica con lacci, lacciuoli e ammennicoli vari che ormai contraddistinguono la vita della scuola nell’impostazione mentale e operativa del MIM. Ma che problemi ha il Ministero con l’autonomia delle scuole? Ha paura che non siano in grado di partorire idee in autonomia? O teme che sperperino il pubblico denaro? Sembra che, parafrasando un incipit molto pericoloso, “uno spettro si aggira per viale Trastevere: lo spettro dell’autonomia scolastica.” Non sia mai!

Il territorio

Attivare “sinergie positive possibili” con gli enti locali e le associazioni del terzo settore per realizzare il Paino estate sembra costituire il mantra del Ministro. Prospettiva suggestiva, senza dubbio, e va sottolineato che non si parte da zero, anche se la situazione appare molto differenziata a livello nazionale, con punte di eccellenza e altre di grande difficoltà. Per la verità, perfidamente, si potrebbe far notare che è lo stesso Ministero a non ricercare queste “sinergie positive”. Infatti il DM 11/04/2024 n. 72 che lancia il Piano estate non sembra sia stato concordato con gli Enti locali; e d’altro canto, quasi contemporaneamente all’emanazione di questo decreto, il Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, in un’intervista ad un giornale nazionale, rassicura le famiglie e i Comuni che i centri estivi saranno finanziati anche nel 2024 con 60 milioni di euro. Un supporto concreto, dice il Ministro per la Famiglia, che si aggiunge alle attività estive organizzate dalle scuole. Insomma, nella compagine governativa non sembra esservi quella sinergia di interventi che pure viene richiesta alle scuole. “Fate quel che dico, non quel che faccio!”

La verità è che i rapporti con il territorio rappresentano un rebus molto complicato e le “sinergie” non si creano in un mese. Non è un caso che lo stesso Ministero è ondivago al riguardo. Infatti, mentre nelle dichiarazioni ufficiali (sito web MIM) si dice “nell’ambito dell’autonomia organizzativa di cui dispongono, le istituzioni scolastiche potranno ulteriormente arricchire l’offerta del Piano Estate, singolarmente o in rete tra loro, grazie alle alleanze tra la scuola e il territorio, gli enti locali, le comunità locali, le Università, le associazioni sportive, le organizzazioni di volontariato e del terzo settore, nonché attraverso il coinvolgimento attivo delle famiglie e delle loro associazioni”, nell’Avviso pubblico richiamato sopra si afferma, in maniera più lasca e indefinita, che “è favorita la collaborazione con gli enti locali, le associazioni del Terzo settore, le organizzazioni e i centri di volontariato, le associazioni sportive, gli attori del territorio, le comunità locali, gli enti, le università e i centri di ricerca, nonché il coinvolgimento attivo di studenti universitari e delle famiglie e delle loro associazioni”. Anche in questo caso troviamo una progressiva diminutio nel passaggio dalle enunciazioni di principio alle istruzioni operative.

Probabilmente il Piano estate produrrà buoni risultati grazie all’impegno e alla competenza delle scuole che vi vorranno aderire. Ma quanta fatica e quanto merito ci vuole per educare un Ministero dell’Istruzione e del Merito!

 

 

 

 




Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.

Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.

Ma che cosa sono le competenze?

Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione.   Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M.  Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009).

Per Ph. Perrenoud la competenza è un costrutto sociale e in quanto tale è un concetto necessariamente provvisorio, il cui valore è il valore d’uso.
Lo si misura dalla sua fecondità, non dalla sua verità assoluta.  Opinione questa condivisa da G. Di Francesco.  A suo parere ci sono processi che stanno costruendo il valore d’uso del concetto di competenza e ne verificano in questo modo la possibilità di essere funzionale come modello di riferimento.
La costitutiva polivalenza del concetto di competenza non impedirebbe che si formino comunità di pratiche che lo utilizzano con efficacia rispetto alle diverse finalità.
Si tratterebbe di una soluzione pragmatica che consiste nell’accettare la provvisorietà e l’ambivalenza teorica e nel distinguere tra definibilità teorica ed utilizzabilità pratica del concetto di competenza.  (cfr “Il laboratorio della riforma-Annali P.I.  1999).
S. Monchatre con esemplare semplicità: “La nozione di competenza rende dei servizi, se si mettono in secondo piano i suoi limiti teorici”.
”Gli usi che sono stati fatti della nozione di competenza non aiutano alla sua definizione e la difficoltà di definirla cresce col bisogno di utilizzarla”(J.  Dolz-E.  Ollagnier).

E’ proprio questo il problema: un concetto polisemico e non ancora stabilizzato come può diventare un principio sicuro ed affidabile di regolazione e di organizzazione dei curricoli?
Perché proporre curricoli per competenze se le difficoltà d’uso del concetto sono non solo di ordine epistemologico e teorico, ma anche pratico?

Per Jonnaert -Barrette-Masciotra-Yaya la competenza “è la messa in opera di una persona in situazione, in un contesto determinato, di un insieme diversificato ma coordinato di risorse.  Questa messa in opera riposa sulla scelta, sulla mobilitazione e sull’organizzazione di queste risorse e sulle azioni pertinenti che esse permettono per un trattamento riuscito di questa situazione” (2006-Ginevra IBE-UNESCO).
Non è per nulla facile redigere un curriculum di studi sulla base di questa idea di competenza, innanzi tutto perché nemmeno si parla del ruolo e della funzione delle conoscenze e poi perché con tutta la buona volontà di questo mondo e con buona pace di tutti la scuola non è il luogo delle situazioni concrete, dove si esercita e si rivela una competenza, ma quello dove si apprendono saperi che sono alcune delle sue risorse e dove con propri mezzi si cerca di capire (stage/simulazioni/attività laboratoriali) l’effetto che fanno.
”Una persona o un collettivo di persone non possono essere dichiarati competenti, se non dopo avere trattato con successo la situazione con la quale si sono confrontati, non prima”(Ph.  Jonnaert).
Lo studioso canadese non si è mai scostato da questa concezione della competenza.

LE COMPETENZE E LE CONOSCENZE

Che il sapere, di cui istituzionalmente tutte le scuole del mondo dovrebbero ancora essere luoghi di trasmissione e di rielaborazione, possa finire per contare poco in orientamenti di questo genere si desume anche da ciò che viene detto in altri parti del documento citato (un documento con l’imprimatur dell’Unesco).
“L’agire competente in situazione si appoggia su una pluralità di risorse e non soltanto su dei saperi disciplinari” e altrove “Il riferimento unico e costante ai programmi disciplinari tradizionali della scuola è un vero ostacolo epistemologico in senso bachelardiano per lo sviluppo situato delle competenze”.
E’ una posizione estremistica dell’approccio per competenze, ma che non è estranea alla sua logica e che apre all’idea sciagurata di opporre conoscenze e competenze.  Per lavorare bene con le competenze si deve dar prova, come dice Perrenoud, che con esse non si voltano le spalle ai saperi.

Si riportano di seguito due definizioni che costituiscono un ragionevole fondamento per l’approccio per competenze e che legano in modo persuasivo le conoscenze e le competenze.
La prima delle due è stata rifatta, dopo 10 anni, con modifiche non del tutto soddisfacenti
(1*cfr.  nota a piè di pagina).

A)  ”Una competenza è la comprovata capacità di UTILIZZARE CONOSCENZE, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale personale.  Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” (Allegato 1 alla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-4-2008).

B)  ”La competenza è la capacità di METTERE IN MOTO e di COORDINARE le risorse interne possedute(CONOSCENZE, abilità, disposizioni interne stabili) e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti o di situazioni sfidanti”(M. Pellerey-2008).

Queste due definizioni, molto autorevoli, ci dicono che le competenze non sono esse stesse dei saperi, ma che li UTLIZZANO,  li MOBILITANO e li COORDINANO insieme ad altre risorse personali; ci dicono anche che utilizzazione e mobilitazione sono pertinenti soprattutto in situazione.  Se le competenze funzionano così è evidente che si pongono due seri e grandi problemi: il primo è quello dei contenuti e il secondo è quello delle metodologie.  Non tutti i contenuti, infatti, (o tutte le discipline o tutti i saperi) si piegano ad alcune particolari logiche di utilizzazione, anche se universalmente sono parte imprescindibile dei curricoli.
Le metodologie, poi, devono innestarsi sulle “situazioni” o riproporne il modello per essere idonee ad esercitare gli alunni alla mobilitazione, all’integrazione, al coordinamento delle risorse interne possedute e a quelle esterne disponibili.

DAL MONDO DEL LAVORO ALLA SCUOLA

La competenza entra con forza nel mondo della scuola, perchè è diventata la parola d’ordine degli accadimenti e delle relazioni sociali dei nostri giorni, ma ha cambiato molto dell’antico significato che aveva nelle attività formative.  Il nuovo senso della nozione di competenza nasce nelle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, dove è diventata strumento di analisi della professionalità, modalità di classificazione dei lavori, categoria giuridica per la definizione dei rapporti di lavoro, modello di riferimento per la formazione, assumendo un significato socio-professionale, contrattuale e formativo (D.  Nicoli).
Il possesso di competenze pregiate, direbbe la Di Francesco, che il sistema di istruzione si dovrebbe preoccupare di formare, viene ritenuto la condizione per affrontare le molteplici sfide della complessità della nostra società.

E’ indubitabile il rapporto tra l’emergenza del concetto di competenza e le esigenze attuali del mondo economico-aziendale.  La nozione di competenza, infatti, esalta la disposizione all’adattabilità, alla mobilità e al senso dell’iniziativa, qualità umane non solo richieste, ma quasi prescritte oggi dal mercato del lavoro.  Non c’è, però, da sciogliere inni e canti di gioia.  Nel mondo del lavoro il ricorso alle competenze fa parte di un’offensiva contro i diplomi e le qualifiche, per indebolirli più che per sostituirli per inefficacia (M. Stroobants).

”La logica delle competenze è innanzitutto una tecnica manageriale di gestione che mira a sostituire con nuove regole le antiche.
Una logica di risultato che sostituisce la logica del posto; il riconoscimento del merito individuale che sostituisce la progressione sistematica per anzianità; la retribuzione delle competenze che sostituisce la remunerazione del livello” (A.  Dietrich).

Nei posti di lavoro la gestione delle competenze è una tecnica al servizio di obiettivi di razionalizzazione.
”Il concetto di competenza permette di fare dell’uomo un oggetto di gestione.  Se Taylor scomponeva il lavoro in gesti elementari per impiantare la misura dei tempi e dei movimenti e ottimizzare il rendimento, la nozione di competenza identifica e scompone le capacità e le attitudini di un individuo per mobilizzarle e ottimizzarle in un contesto dove la reattività organizzativa diventa essenziale.  Ciascuna di queste capacità puo’ essere misurata, sviluppata con l’apprendimento, accresciuta con la formazione, trasferita con la mobilità o il tutorato” (D.Cazal-A.Dietrich).

L’azienda con le competenze si appropria della dimensione personale interna e soggettiva del lavoratore.
Il giudizio di competenza, funzionale alla carriera interna e alla progressione economica, rischia di essere a differenza di quello inerente alla qualifica un giudizio su una persona in quanto persona e non in quanto lavoratore.
C’è di più.  Mobilità, flessibilità e competenze, tratti strutturali dell’attuale organizzazione del lavoro, cambiano le relazioni sociali e rendono transitori e fragili i legami tra i lavoratori.
La gestione delle risorse umane attraverso le competenze può facilmente diventare funzionale alla strategia di disfare ogni forma di solidarietà di categoria nel posto di lavoro.
Le competenze possono essere utilizzate, inoltre, per sottrarre potere contrattuale al lavoratore, il cui patrimonio cognitivo-professionale potrà essere riconosciuto e valorizzato non in sede di contrattazione, ma in quello del giudizio non sempre sindacabile della controparte.

LA SFIDA DELLE COMPETENZE

Se nella sociologia del lavoro si incominciano a intravedere i rischi della gestione delle competenze, nel mondo della scuola si continuano, a prescindere, a celebrarne le magnifiche sorti progressive.
E questo non è un fatto positivo.  La mancanza di senso critico può condurre ad esiti negativi nel processo di formazione.
Se è corretto contrastare il rifiuto pregiudiziale dell’approccio per competenze, è anche necessario guardarsi bene dall’assunzione dogmatica delle indicazioni istituzionali e dalle suggestioni economicistiche del modello aziendale-economico.

Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare curricoli che formano le competenze richieste, in una data fase storica, dalla società nel suo insieme.  La formazione dovrebbe garantire alle nuove generazioni gli strumenti che consentono l’adattamento al proprio ambiente, al proprio tempo, al proprio mondo del lavoro.  La scuola è servizio alla società; ma è anche servizio alla persona: due compiti che devono armonizzarsi senza il bisogno di doverne sacrificare uno dei due.
”L’istruzione e la formazione hanno sempre come funzione essenziale l’integrazione sociale e lo sviluppo personale mediante la condivisione di valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento dell’autonomia.  Ma oggi questa funzione essenziale è minacciata, se non è accompagnata dall’apertura di una prospettiva in materia di occupazione” (Libro Bianco ‘95).

Per dare a scuola un orientamento corretto all’approccio per competenze bisogna tenere sempre presente che “La competenza è una nozione di frontiera tra economia ed educazione” (S.  Monchatre) e che a scuola il lato proprio della competenza è quello dell’educazione, anche se questo non autorizza nessuno a chiuderla in un anacronistico isolamento autoreferenziale.  L’aspetto più significativo dell’approccio per competenze è la forte sollecitazione a scoprire il senso dei saperi, a renderli in prospettiva utili e significativi per lo sviluppo personale e quello della società.  L’approccio per competenze esige il protagonismo della persona in contesti di esperienza variabili per impegno cognitivo e relazionale.  ”La nozione di competenza si inscrive nel quadro di una pedagogia decisamente centrata sull’allievo” (B.  Rey).

Il rischio più grave che bisogna evitare è quello di circoscrivere le ambizioni del sistema di istruzione e formazione, appiattendolo e costringendolo in una prospettiva utilitaristica di saperi immediatamente spendibili.  Se l’aria dei tempi esalta l’uomo d’azione efficace, che sa risolvere i problemi che gli si presentano, la scuola per responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni non può inchinarsi agli idoli del momento e deve lavorare per le altre dimensioni della persona umana, per il suo integrale sviluppo, in modo da renderla capace di comprendere il mondo, la società, l’altro e se stesso e di esercitare i diritti e i doveri di cittadinanza attiva.  La cultura è plurale e nessuna componente (scientifica, umanistica, professionale etc) può essere trascurata.  E’ la cultura nel suo insieme che ci fornisce gli strumenti per organizzare e per capire il nostro mondo in forme comunicabili.  (J.  Bruner).

Nell’approccio per competenze è insita una logica di adattamento che può mortificare o cancellare la funzione emancipatrice della conoscenza e rendere residuale il mondo dei valori; una logica che finisce, se viene acriticamente sposata, per esaltare l’addestramento a svantaggio della trasmissione dei saperi e della cultura.
“Per sviluppare competenze occorre lavorare perchè l’alunno possegga in modo significativo, stabile e fruibile concetti e quadri concettuali, saperi e conoscenze desunti dalle discipline e raggiunga adeguate abilità intellettuali e pratiche sapendo come, quando e perchè utilizzarle” (M.  Pellerey).

Le competenze non si insegnano direttamente: si creano le condizioni del loro sviluppo grazie a situazioni d’apprendimento, a dispositivi di esercitazioni e di riflessione sulle esperienze fatte.  L’approccio per competenze richiede l’ancoraggio all’esperienza, alle pratiche sociali, alla realtà.  Formare competenze significa richiedere prestazioni complesse e sfidanti basate sulla produzione di soluzioni a problemi tratti dal mondo reale.  Per garantire, però, un percorso strutturato e sequenziale di formazione i problemi, i casi concreti, i contesti lavorativi devono essere sistemati in una successione razionale ed organica, altrimenti rischia di far saltare il curriculum, frantumandolo in una raccolta casuale di iniziative, di progetti, di attività.
Fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le conoscenze comporta un lavoro di innovazione serio e rigoroso.  Bisogna saperlo che il cantiere per raggiungere questo obiettivo è aperto da molto tempo, ma che i risultati nella pratica quotidiana possono ancora modesti o limitati

L’approccio per competenze pone nuovi problemi e suscita perplessità in alcuni settori del mondo degli insegnanti, perchè confligge con le tradizioni più accreditate e seguite del sistema scolastico e con le consuetudini professionali.  Richiede, infatti, un cambiamento significativo nelle procedure didattiche e nel modo di pensare e agire nei processi formativi.
La preparazione delle attività, il processo formativo e il coordinamento didattico in un curriculum per competenze esigono tempo di lavoro molto più ampio di quello attualmente contrattualizzato e soprattutto insegnanti stabili, provetti, con notevoli capacità progettuali.  L’approccio per competenze mette in crisi l’individualismo magistrale, ma non può svilupparsi in un contesto di precarietà e di sudditanza professionale.