Classi aperte e laboratori

di Giancarlo Cavinato

una scuola comunità
si può fare…scuola al di fuori della classe

Le finalità educative previste dalle Indicazioni Nazionali  possono essere assorbite e soddisfatte completamente nel chiuso di una classe? Noi riteniamo indispensabile l’apertura, la dinamica del comporsi e ricomporsi di gruppi diversi: per età, per incarichi, per percorsi.

 

Nel convegno di Reggio Emilia del 1976 sulla scuola a tempo pieno Daria Ridolfi scriveva: ‘’Noi vogliamo una scuola piena, articolata, multiforme, capace di accogliere ogni bambino con la sua storia, la sua cultura, i suoi interessi, e di porlo in un rapporto utile e stimolante coi coetanei, con gli insegnanti, con l’ambiente.[1]

La proposta che il Movimento di cooperazione educativa sta portando avanti prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte.
L’idea che intendiamo sostenere è la proposta di unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca. Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi come nel caso  delle UDA, che rischiano a volte di  ricalcare  le programmazioni tassonomiche, ma una progettazione in itinere fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature (‘teatri cognitivi’) e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente consentire di produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….

Si tratta di mettere in atto procedure che consentono che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni attorno a cui operino dei gruppi mobili. Quindi non una scuola come sommatoria di classi.

Nel contempo è necessario rinforzare l’idea che la classe stessa è in primis un laboratorio; la classe non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità ( piani di lavoro, ricerche tematiche, tecniche, rivisitazione strumenti di base per rinforzo a piccoli gruppi, attività individuali).

Un gruppo di insegnanti che intenda sperimentare questa formula ha bisogno di scandire le attività dell’anno in modo coordinato, condividendo le attività fondamentali e quelle di integrazione e arricchimento: impostando assieme il lavoro da svolgere nell’arco dell’anno. [2]

Ancora Daria Ridolfi: ‘Per condurre un lavoro qualificato e gratificante per otto ore al giorno, per poter avere incontri interclasse di piccoli gruppi di bambini, per poter proporre un’ampia gamma di attività, è necessario un alto numero di insegnanti; probabilmente una media di due per classe è appena sufficiente se si considera che la maggioranza delle classi della scuola dell’obbligo è costituita da non meno di 25 alunni ciascuna. Quel che ci pare interessante è che la titolarità, almeno nella prassi pedagogica-didattica, possa essere superata dalle classi aperte. Nel gruppo delle classi parallele gli insegnanti possono ruotare con compiti specifici diversi anche se l’unitarietà dell’insegnamento deve essere salvaguardata al massimo.
Non si tratta di fare dei maestri degli specialisti (nemmeno i professori della scuola media inferiore vanno incoraggiati ad essere professionalmente per la monocultura), si tratta di far emergere una struttura in cui i pregi e i difetti di ogni insegnante- o meglio, le competenze, gli interessi, il modo di mettersi in rapporto con gli altri-siano distribuiti tra i bambini in una giusta e buona alternanza, in una proficua e corretta compenetrazione. Importantissimo è curare che ogni attività non sia voluta dal caso, ma che si inserisca profondamente nella dinamica della giornata di scuola. […]
La scuola a tempo pieno acquista fisionomia di scuola vera se è riuscita a far sì che ogni insegnante esca dal suo secolare isolamento e si metta a lavorare con i colleghi nella realizzazione di un piano di lavoro che spinga verso l’uso alternativo degli spazi, degli strumenti, del tempo, cioè di dare ad ogni scolaro tutte le occasioni educative per crescere, esprimersi, ricercare, ecc
[3]

[1] D. Ridolfi ‘Finalità e problemi della scuola a tempo pieno’ in MCE  ‘La realizzazione della scuola a tempo pieno’, La linea, Padova, 1977

[2] Un’esemplificazione di un possibile schema di lavoro si trova nel capitolo sulle classi aperte nel fascicolo MCE sui 4 passi. In esso di propone che ciascun gruppo di classi coinvolte realizzino attività di interclasse e di laboratorio con varietà di orari nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività sia di apprendimento che espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche. Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. i gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono fissi per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

[3] D. Ridolfi, op. cit., pp.79-81




Quattro passi per una pedagogia dell’emancipazione

a cura di Giancarlo Cavinato

Il MCE propone 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione. Si tratta di organizzare un impianto sistemico costituito da moduli variamente componibili e adattabili alle esigenze dei singoli contesti. Sono proposte concrete, realizzabili in ogni scuola, in grado di attribuire valore aggiunto all’azione professionale e collegiale, e di rappresentare gli elementi da cui partire per realizzare percorsi di partecipazione e condivisione e dispositivi organizzativi in grado di qualificare i contesti e di aumentare i livelli formativi..
I 4 passi si propongono come ponti fra l’organizzazione e le relazioni e gli strumenti concettuali di ricerca. Ciascuno dei passi si realizza attraverso la  forza e le potenzialità delle esperienze che prevede: discutere e decidere insieme, appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, fare ricerca, possibilità di maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  veder nascere e contribuire a un prodotto come il giornale il libro il video…

Primo passo: gli strumenti di democrazia.

In una delle invarianti pedagogiche Freinet[1] afferma che un regime scolastico autoritario non può formare cittadini democratici. «La democrazia é impegno partecipativo nella costruzione dei valori che regolano la convivenza umana. In tale impegno, l’educazione svolge il ruolo fondamentale dello sviluppo dell’intelligenza, della comprensione, dell’esperienza, dell’apprendimento, della collaborazione e della difesa dell’uguaglianza.»[2]
La democrazia si esercita mediante regole, procedure, strumenti e pratiche attraverso cui si costruiscono e si determinano scelte possibili e condivise. Le idee, le opinioni, i giudizi sulla realtà non sono preesistenti alla loro scoperta da parte dei soggetti, ma si formano attraverso una pratica e un’esperienza di relazionalità e socialità. L’istituzione ad hoc è l’assemblea di classe come iniziazione alla vita democratica, alla solidarietà. Un’assemblea con le sue routine e le sue suddivisioni di compiti. Chi presiede, chi verbalizza, chi dà i tempi degli interventi. Durante la settimana su cartelloni i bambini trascrivono le loro osservazioni, proposte, critiche, suggerimenti da analizzare nell’assemblea. Ogni aspetto della vita scolastica acquista così senso e giustificazione. La finalità gradualmente condivisa è l’uguaglianza di diritti e il successo formativo di tutti. Le forme di partecipazione risultano tanto più efficaci quanto più ai ragazzi viene data parola e possibilità di progettare estendendo il raggio della loro progettualità alla città attraverso l’organizzazione di consulte e consigli.[3]

Secondo passo: gli strumenti per la ricerca

Si tratta di garantire un accesso ai saperi, favorendo la costruzione del pensiero. Ma come reperire informazioni che non siano fornite già confezionate così che ci si formi su una sola versione e non sia prevista una costruzione personale della conoscenza? [4]

Viviamo in un mondo connesso globalmente alla rete, per cui il problema non è più l’acquisizione delle informazioni di base (reperibili attraverso un qualsiasi motore di ricerca), ma la loro messa in relazione, la selezione, l’organizzazione in un quadro composito, la comprensione profonda. Tutte operazioni per attivare le quali i libri di testo non sono di alcuna utilità, sostituendo il già predisposto all’attività dei soggetti, fornendo risposte e soluzioni che non vanno al di là della superficie. La scuola deve diventare il luogo della rielaborazione, del riordino, del confronto delle interpretazioni, delle ipotesi. Per questo il libro di testo è strumento obsoleto: i libri delle discipline propongono serie di informazioni schematiche e non verificabili, che si traducono in una visione tassonomica dei contenuti storici, geografici, scientifici; le antologie di lettura costituiscono raccolte di brani, estrapolati dal contesto letterario a cui appartengono, scelti dagli autori e dagli editori in base a criteri standard. Con gli stessi fondi a disposizione per i testi, ogni classe e, ancor più, ogni scuola può acquistare narrativa, libri di divulgazione, approfondimenti tematici, documentazioni, materiale multimediale, strumenti per la riproduzione e la stampa, disponendo così di una biblioteca ricca di una pluralità di fonti. Leggere versioni diverse di storie, descrizioni di eventi, cogliere punti di vista diversi, confrontare diverse interpretazioni, scoprire i nessi fra eventi sono tutte operazioni che le biblioteche di lavoro disponibili grazie all’adozione alternativa sono favorite.[5]

Terzo passo: lavoro a classi aperte

La proposta prevede un’articolazione degli spazi e dei tempi della scuola sul modello delle classi aperte. «Un fondamentale elemento qualificante del tempo pieno può essere considerato il superamento della struttura-classe e, di conseguenza, del lavoro strettamente individuale dell’insegnante.»[6]
Il che richiede l’organizzazione di spazi in cui trovare stimoli adeguati, agire, attribuire significati, progettare, coordinare le proprie azioni con quelle degli altri. Non si può realizzare tali percorsi all’interno di gruppi chiusi, sempre con gli stessi componenti, in cui si condividono sempre le stesse attività. Si tratta di mettere in atto procedure che consentano che una scuola, una classe, si organizzino attorno a temi comuni suddividendosi diversi aspetti. Quindi una scuola che non sia una sommatoria di classi non comunicanti.
L’organizzazione di gruppi mobili, eterogenei, con consegne di lavoro diversificate, può creare una dinamica, delle aspettative, la motivazione ad integrare le proprie ricerche con quelle di altri gruppi. La partecipazione a gruppi e classi di età diverse rende possibile agire sulla zona prossimale di sviluppo dei singoli attraverso la guida dell’adulto, la collaborazione tra pari, l’interazione sociale.[7]
Compete alla regia educativa degli insegnanti comporre le diverse realizzazioni dei gruppi, favorire le comunicazioni e gli scambi, proporre ulteriori sviluppi, conferire unitarietà alle attività. Il gruppo attraverso attività di laboratorio funziona da mente collettiva, conferendo significato alle singole parti, correlandole e collegandole. Le pratiche di ricerca che gli alunni affrontano costituiscono una parte dell’oggetto su cui operano, e ciò conferisce un valore relativo alle conoscenze che vengono acquisite, nella consapevolezza che esse saranno integrate dagli apporti di altri gruppi. La proposta prevede di individuare, alunni e insegnanti, delle unità tematiche trasversali che affrontino dal punto di vista di diversi approcci disciplinari aspetti della realtà su cui fare ricerca.
Non, quindi, un repertorio o un catalogo di obiettivi, ma una progettazione in itinere e a ritroso[8] fatta di esperienze basate su interessi e motivazioni e di possibili direzioni di sviluppo. Un tema, un aspetto della realtà, può essere affrontato secondo diverse angolature e con diversi materiali e strumenti a disposizione: leggendone gli aspetti letterari, artistici, musicali, matematici, scientifici, tecnologici, attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi, delle emozioni, del corpo, e conseguentemente produrre diversi tipi di elaborazione da comunicare ad altri: testi, copioni, filmati, e-book, scenari, canti, danze, esperimenti e strumenti per la rilevazione di dati, ….
La classe stessa è in primis un laboratorio; non scompare, ma dev’essere il punto di partenza e di arrivo, di sintesi della progettualità. Ciascun gruppo di classi coinvolte si proporrà di realizzare attività di interclasse e di laboratorio nell’arco di un periodo, procedendo poi a scambiare i gruppi fra di loro. Con attività espressivo-creative, manuali, corporee, scientifiche, storiche, interculturali.
Realizzare le attività per classi aperte presuppone la compresenza di più insegnanti. Che possono così lavorare con numeri ridotti di bambini. i bambini possono così fruire nel corso dell’anno di una varietà di attività e fare esperienze significative. I gruppi di ragazzi e i periodi di rotazione sono stabiliti per far sì che ciascun alunno fruisca di tutte le attività proposte.

Quarto passo: la valutazione formativa

«Ogni ragazzo è in gara con sé stesso per migliorarsi. Il merito non è di chi dà un maggiore rendimento, ma di chi riesce a superarsi e far progressi anche se il suo livello è inferiore a quello di altri.[…]Il fenomeno della selezione non potrà scomparire finché nella scuola non cambieranno certi atteggiamenti e non si capirà che il responsabile del mancato apprendimento, del disadattamento scolastico che porta alla ripetenza e poi all’abbandono, non è il soggetto in difficoltà e nemmeno l’ambiente di provenienza anche se è ‘svantaggiato’, ma è la scuola ad essere ‘disadattata’ in quanto induttrice di disadattamento.»[9]
La valutazione è uno degli aspetti del fare scuola che preoccupa maggiormente perché è lo spazio dove più si consolida la dialettica tra normalizzazione ed emancipazione dei soggetti. E’ un operazione complessa perché deve essere in grado di cogliere e interpretare una realtà in cui si mescolano molteplici aspetti che coinvolgono sia l’alunno che l’insegnante: conoscenze, abilità, motivazione, relazione, effetti alone, aspettative reciproche, ritmi e stili di apprendimento. Il passo sulla valutazione illumina e rinforza i precedenti passi in quanto una didattica trasmissiva non consente una valutazione autentica che richiede tempi lunghi e strumenti narrativi, descrittivi, interpretativi: lettere personalizzate, diari di bordo, monografie, studi di situazioni, aspetti che si adattano alle attività che si fondano su discussioni, partecipazione a progetti, laboratori, in cui accanto ai processi individuali rivestono pari importanza i processi di gruppo.
Mentre la didattica trasmissiva lavora su tempi brevi, risposte automatiche, abituando a un pensiero riflettente. Non richiede la messa alla prova attraverso particolari tecniche e il confronto interattivo, ma una comunicazione unidirezionale e la ripetizione. La grande assente è la relazione significativa che l’insegnante intrattiene attraverso il dialogo pedagogico. Maturana osserva che ogni insegnante che valuta la prestazione degli alunni sta valutando se stesso che valuta la prestazione. Con il suo giudizio non giudica lo studente, ma la relazione che lui intrattiene con lo studente.[10]
Ogni docente dovrebbe potere, alla luce della propria biografia professionale, riconoscere le proprie cornici culturali ed ermeneutiche che ne condizionano la pratica valutativa. Va sostenuta una valutazione intersoggettiva e collegiale come esercizio concreto di responsabilità, come funzione di autoregolazione dei percorsi e dei processi nella scuola dell’autonomia.
Sono necessarie pratiche di autoanalisi e autovalutazione degli alunni e di autointerrogazione degli insegnanti e la sperimentazione di strumenti di osservazione, ascolto dei soggetti, narrazione e problematizzazione. Come per ogni altro aspetto della vita della scuola, anche la valutazione può costituire oggetto di dibattito, esplicitazione dei propri riferimenti, presa di decisioni. Se questo aspetto non viene affrontato, rimane confinato nel potere discrezionale dei docenti e come tale inappellabile e indiscutibile. Il compito di una pedagogia del successo è esplorare con gli alunni le condizioni facilitanti e ostacolanti e i possibili miglioramenti. Agevolare la presa di coscienza delle diverse conseguenze di un lavoro individuale e di un lavoro di aiuto reciproco fra pari. Nel frattempo la scuola non rimane ferma.
La scuola italiana è sottoposta a un altalenarsi di procedure modalità modelli. Si è passati dai voti ai giudizi (una riforma incompleta che ha lasciato fuori la secondaria), per tornare ai voti e con l’ordinanza  172 del 2020 si istituisce una valutazione per livelli soltanto per la scuola primaria. Oggi il ministero del merito punta a tornare alla situazione preesistente, cioè la ‘riforma’ Gelmini del 2010.
A fronte di tale prospettiva sarà necessario ricorrere alle strategie che i Ciari, i Lodi. i Manzi nel tempo hanno utilizzato per una scuola al servizio di tutti, non selettiva, discriminatoria, gerarchizzante. Non va abbandonata la dimensione formativa ed ecologica della valutazione. L’eliminazione del voto numerico, pur tra molte difficoltà dovute a carente formazione e a procedure macchinose quali il registro elettronico,  ha avviato comunque un processo di cambiamento di prospettiva nella cultura e nelle pratiche valutative della scuola mettendo l’accento sull’esigenza di riscontri descrittivi dell’apprendimento in itinere, di differenti forme di comunicazione della valutazione e di maggiore coerenza e retroazione tra progettazione didattica e valutazione: in generale, un intero ripensamento della didattica e della relazione docente-studente.
La valutazione formativa non si limita a registrare esiti ma accompagna i processi. Assume che la responsabilità dell’eventuale mancato apprendimento non é dovuta soltanto a carenze dell’ allievo ma individua fra le cause il tipo di insegnamento del docente, che viene sollecitato  ad innovare le sue competenze psicopedagogiche e didattico-metodologiche e relazionali. Ad operare mantenendo strettamente connesse progettazione e valutazione.

[1] C. Freinet, Les invariants pédagogiques, in Oeuvres pédagpogiqques, Paris, Seuil, 1994, vol 2 pp. 383-413, trad. Ital. A. Goussot
[2] J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1951
[3] M. Marchi, P. Sartori (a cura di), Dall’io al noi. Città e scuola per un’educazione alla responsabilità, Trieste, Asterios, 2023
[4] C. Pontecorvo, A, M. Ajello, C. Zucchermaglio, Discutendo si impara, Roma, Carocci, 2007
[5] M. Rosaria Di Santo, Mario Lodi e la “biblioteca di lavoro” una proposta didattica alternativa ancora attuale, Parma, ed. Junior, 2022
[6] Gruppo torinese MCE, Per una nuova professionalità docente, Milano, Emme, 1978
[7] L.S. Vygotskij. Il processo cognitivo, Torino, Boringhieri, 1980
[8] G.. Wiggins, j. Mc Tighe, Fare progettazione. La “teoria” di un percorso per la comprensione significativa, Roma, LAS, 2004
[9] B. Ciari, La grande disadattata, Bergamo, Junior, 2006
[10] H. R. Maturana, F.S. Varela, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio, 2001; C, Hadji, Una valutazione dal volto umano oltre i limiti della società della performance, Brescia, Scholé, 2003




T come tempo scuola e tempo pieno

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet assume grande rilevanza l’organizzazione della classe e della scuola, quindi l’uso degli spazi e dei tempi.
Bambini che vivono in un ambiente ‘disordinato’ come i piccoli alunni di borgata del maestro Albino Bernardini  negli anni 60 in cui ‘imparano che i “duri” resistono meglio degli altri” o viceversa in un ambiente iperorganizzato in cui i ritmi e i diversi momenti sono tutti eterodiretti attraverso un’organizzazione cooperativa interiorizzano gradualmente e fanno propri dispositivi e ritmi che consentono collaborazione e sforzo comune. Quanto l’organizzazione del contesto e di ‘sistemi’ diversificati incidano sullo sviluppo umano è stato dimostrato dalle ricerche sull’ecologia dello sviluppo di U. Bronfenbrenner.[1]

L’organizzazione non è neutra ma incide sul sistema di aspettative, sulle interazioni, sull’autostima, sulla fiducia in sé e negli altri, sulle risorse personali e del gruppo.
Nelle scuole francesi ai tempi di Freinet e anche oltre il ritmo della giornata era costituito da un orario antimeridiano di tre ore e un ritorno pomeridiano di due ore in 5 o 6 giorni. Con un unico maestro, spesso in piccole scuole rurali.
Un’organizzazione analoga la condividevano i maestri della cooperazione educativa fino agli anni 70: era l’esperienza di Mario Lodi, di Bruno Ciari, di Giovanna Legatti e tanti altri. Ma con il diffondersi del movimento, della sensibilità nella società civile, di una conoscenza pedagogica adeguata ai tempi dello sviluppo economico e sociale negli anni 60-70, si pose il problema delle grandi scuole cittadine, dell’inurbamento  dalle campagne e dell’emigrazione dal sud di grandi masse che approdavano al mondo dell’industria.
Se a una parte dei bambini che frequentavano la scuola dell’obbligo, scriveva Francesco Tonucci, era garantito il rifornimento culturale composto di antipasto, pasto e dessert, per un’altra gran parte al massimo si prospettava un primo scarso. I primi possedevano già i codici, erano già immersi in cornici culturali omogenee e quanto la scuola offriva (per loro era una specie di surplus), per i secondi l’esperienza e le richieste erano spesso di spiazzamento e incomprensione, così da farli ritenere ‘disadattati’.

La risposta che il mondo della scuola, della ricerca, la nascente sindacalizzazione degli insegnanti e associazioni come il MCE, grazie anche all’immissione di giovani insegnanti disponibili a mettersi in gioco seppero elaborare fu il tempo pieno.
Già nell’esperienza di Lodi e altri/e il tempo scuola risultava insufficiente per sviluppare attività significative che lasciassero traccia negli alunni costruendo reali strumenti di lettura, comprensione e intervento sulla realtà. I maestri del Movimento spesso rientravano a scuola nel pomeriggio con i loro alunni (il doppio tempo, antimeridiano e pomeridiano, era ormai residuale nelle zone rurali; nelle cittadine e nelle città spesso si doveva ricorrere ai doppi turni, quindi o un orario di 4 ore al mattino o di tre ore al pomeriggio a mesi alterni). Si ‘preparavano’ andando a ricercare fonti e materiali, svolgendo una preindagine d’ambiente. Cercavano ‘testimoni’ da portare a scuola e da far intervistare dai ragazzi.

Il tempo pieno, cioè la costituzione di una giornata ricca, varia, stimolante, con attività diversificate al suo interno, con l’apertura delle classi, la contitolarità di due docenti, l’uso di strumenti e tecniche moderne sembrò la risposta alle povertà educative e all’isolamento e alla sopravvalutazione dei ragazzi dei ceti abbienti per una integrazione di modalità, codici, strategie. Una giornata completa di otto ore (forse una formula un po’ ‘operaistica’) comprensiva del tempo mensa (non la ‘mensa dei poveri’ del doposcuola comunale) ritenuto estremamente importante sia per un avvicinamento di gruppi umani spesso incomunicanti una volta adulti sia per il valore educativo del mangiare insieme, del condividere, del superare resistenze e gusti.

Facciamo parlare a questo proposito il grande pedagogista Francesco De Bartolomeis con il suo ‘Scuola a tempo pieno’ del 1972, l’anno successivo all’entrata in vigore della legge 820 che istituiva non il tempo pieno ma posti docenti per ‘attività integrative pomeridiane’ e ‘insegnamenti speciali’. Una formula che venne totalmente rovesciata dalla mobilitazione di insegnanti, famiglie, associazioni e sindacati attraverso lotte che portarono alla formula organica con due insegnanti, attività ‘strumentali’ e laboratori, alternanza dei due docenti senza separatezze mattina-pomeriggio, anche sulla base delle preoccupazioni espresse da pedagogisti quali De Bartolomeis.

De Bartolomeis lucidamente metteva in guardia dai rischi e dagli ostacoli.
[…] Si chiede (alla ricerca) di fare proposte attuabili. Ma a chi? A una classe politica che ha come programma di attuare soltanto la perpetuazione del suo potere di parte. […] L’avvio del tempo pieno nel nostro paese non promette sostanziali rinnovamenti, anzitutto a causa di un tipo di organizzazione sociale che non può esprimere una scuola che lo neghi. Effetti di questo impedimento di base sono, tra l’altro, l’assenza di una impostazione sperimentale, di un piano e di iniziative per la riqualificazione degli insegnanti o per la formazione di nuovi insegnanti, la permanenza della gerarchizzazione tra materie fondamentali e attività integrative. Se manca un rapporto critico con i problemi di radicali mutamenti sociali e politici, entra nel gioco delle deformazioni e delle riduzioni didattiche la richiesta, del resto generica, di definire nuovi contenuti e nuovi metodi, e di provvedere a una diversa organizzazione dello spazio educativo. […] Questa la contraddizione più grave: la scuola di una società classista dovrebbe lavorare contro il classismo.

Alcune delle condizioni per un tempo pieno che quanto meno limiti i danni di una scuola del consenso sono indicati da De Bartolomeis nell’ordine: […] considerare il modulo organizzativo della scuola in termini di struttura fisico-spaziale (aule laboratorio, spazi per la socialità,..)
[…] è in questione non l’insegnante singolo ma la progettazione educativa del gruppo di insegnanti e di altri esperti, e l’insieme dei materiali, degli strumenti e delle procedure indispensabili per l’attuazione
[…] i problemi dei rapporti interpersonali e della dinamica di gruppo. La trattazione di questi problemi richiede tra l’altro una competenza psico-pedagogica (conoscenze e abilità) capace di vedere nella cosiddetta normalità le difficoltà di adattamento, i conflitti, le contraddizioni, le frustrazioni, l’ansia, le difese dall’ansia,.ecc.
[] non una dilatazione dell’orario che lasci immutato tutto il resto: scuola senza classi, collaborazione degli insegnanti in compiti non solo di educazione ma anche di programmazione, grande varietà di attività,  conformità ai ritmi biopsichici, nuovi contenuti, ricerca, sostituzione delle aule  con i laboratori, vita sociale abolizione di un orario avverso ai processi di incubazione, a quella che possiamo chiamare creatività temporaneamente improduttiva
[…] la collocazione di ogni individuo nel sistema sociale, quindi la sua mobilità in esso, le aree di attività e di decisione che può raggiungere [2]

Forti di questo viatico, giovani insegnanti neoimmessi in ruolo, ci accingemmo all’opera. Con molti dubbi e interrogativi. Ad esempio. Quello che funzionava così bene nella classe di Mario Lodi o di Bruno Ciari, il piano di lavoro, la discussione, la corrispondenza, il testo libero, la stampa, il calcolo vivente, la ricerca… ma con ragazzi di ambienti molto disomogenei, classi numerose, in città, avrebbe funzionato lo stesso? E come si componeva con gli orari della nuova scuola, le attività di classe e i laboratori?

[1] Bronfenbrenner U. (2002) Ecologia dello sviluppo umano Il Mulino, Bologna
[2] De Bartolomeis F. (1972) Scuola a tempo pieno, Feltrinelli




Bruno Ciari e le tecniche Freinet

di Giancarlo Cavinato

Nel 2023 ricorre l’anniversario del centenario della nascita di Bruno Ciari che il MCE è impegnato a ricordare e a diffonderne il pensiero e l’azione.
Un comitato si è costituito per predisporre iniziative e strumenti di presentazione della figura e dell’opera del maestro di Certaldo. Accanto a convegni e ad incontri in alcune delle città dove maggiormente ha inciso la presenza di Bruno e del MCE- Bologna, Firenze, Torino, Roma, sono stati messi a punto alcuni materiali per consentire di offrire  uno sguardo a tutto campo e una documentazione del contesto in cui ha operato Bruno e degli esiti del suo intervento accanto ai compagni del Movimento: una mostra sul giornalino scolastico; dei reprint dedicati agli aspetti centrali del suo pensiero, con una selezione di scritti organizzati per temi: il pensiero scientifico, la didattica della matematica, l’educazione linguistica, il rapporto metodo-contenuti/tecniche e valori, il progetto di scuola unitaria, l’espressione del fanciullo.
Sono estratti da articoli che Ciari scrisse per Cooperazione educativa e per Riforma della scuola, e dalle sue opere, ‘Le nuove tecniche didattiche’, ‘I modi dell’insegnare’, ‘La grande disadattata’ (queste ultime due a cura di Alberto Alberti). Sono materiali pensati per la diffusione all’interno del movimento con la proposta del comitato Ciari di organizzare dei gruppi di lettura da parte dei gruppi territoriali MCE così da acquisire chiavi di lettura e di analisi utilizzabili nella scuola di oggi.

In una società in costante evoluzione Ciari intendeva formare nei propri alunni uno spirito civico e una sensibilità democratica e solidale in controtendenza con le prospettive che si andavano affermando nell’epoca del consumismo e dell’individualismo. Per stimolare la formazione di atteggiamenti aperti e critici e non assuefazione e conformismo Ciari si avvaleva degli strumenti concreti, operativi, di una didattica della manualità, dell’interezza, dell’autodisciplina. Formando al senso del valore di appartenere a una comunità, piccola ma centrale nel periodo della crescita, la classe.

L’organizzazione della classe è uno dei fondamentali delle tecniche Freinet.  Nella classe cooperativa esse trovano spazio e significatività, dal piano di lavoro al calcolo vivente, dalla discussione alla messa a punto collettiva dei testi alla corrispondenza al giornale scolastico. Sono questi gli strumenti della ‘scuola del fare’  freinetiana, che consentono a ciascuno/a di acquisire uno status, un ruolo, di espletare delle funzioni in un contesto dinamico, di proiettarsi nelle attività con le procedure che queste richiedono e che si articolano in fasi che richiedono consapevolezza e previsione.

Ciari afferma la profonda incidenza nello sviluppo di atteggiamenti cooperativi e prosociali delle tecniche Freinet, che “non hanno il loro valore essenziale nel procedimento, ma nelle motivazioni profonde che promuovono, negli slanci di vita che accendono nelle classi, nelle possibilità che esse possiedono di creare una comunità organica… in esse si attua una serie di valori umani che il fanciullo non possiede di per sé e che può assimilare […] col realizzare un complesso di rapporti sociali che implicano una determinata concezione del mondo.” (Ciari, I modi dell’insegnare, Editori Riuniti).

L’uso degli strumenti della comunicazione sottende precise scelte etiche, valori pedagogici che la comunità condivide. Si tratta della destinazione sociale del pensiero, del circuito espressione-comunicazione che attraverso precisi dispositivi si attivano e si potenziano reciprocamente. Non c’è un parlare astratto ma diversi momenti e diversi livelli di impegno, personale, di gruppo, collettivo in una classe così organizzata con spazi tempi ritmi adeguati alle attività, sperimentandone l’efficacia, modificandone le modalità ove necessario. Una scuola per la vita, rivolta al futuro.
Non a caso le tecniche di base, alla portata di ognuno, sono tecniche inclusive, che non emarginano nessuno, a cui tutti possono contribuire secondo le loro capacità e le loro propensioni; tecniche, appunto, ‘di vita’. Ben diverse dalle ‘prove autentiche’ cui oggi spesso si fa riferimento nel pur lodevole intento di attribuire significato alle attività svolte dagli alunni.

Attraverso la proposta dei 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione (strumenti di democrazia, ricerca, classi aperte e laboratori, valutazione formativa) il MCE è impegnato a valorizzare un tale impianto organizzativo nella sua composizione modulare che va adattata alle esigenze dei singoli contesti e ad attualizzare per l’oggi le tecniche e i loro supporti tecnologici. Mantenendo la forza e le potenzialità delle esperienze che esse sottendono: il discutere e decidere insieme, l’appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, il fare ricerca, il senso di autorealizzazione, la possibilità dio maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, il collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  il veder nascere e svilupparsi un prodotto come il giornale il libro il video…

C’è un futuro per la pedagogia attiva nel solco di maestri come Ciari, Lodi, Alberti, Maviglia, don Milani.




Educazione del lavoro

di Giancarlo Cavinato

Gioco e lavoro: una contrapposizione?

La polemica di Freinet è rivolta a una concessione eccessiva  alla vita dell’infanzia a un gioco totalmente gratuito libero da ogni responsabilità. Una fase della vita diversa da ogni fase successiva, in cui esercitare la propria ‘fantasia’ senza obblighi e compiti.

Ai nostri tempi eravamo integrati, fin dalla più tenera età, nel lavoro ambientale. […]Il lavoro si trovava al centro della nostra vita mentre il gioco era solo un accessorio e questa realtà aveva inevitabilmente la sua risonanza sullo stesso lavoro scolastico. La trasformazione è stata totale nel corso di questi ultimi decenni. Non c’è più il pericolo che si chieda ai bambini qualche servizio prima che partano per la scuola. Gli abbiamo preparato le fettine imburrate; li facciamo perfino mangiare il fretta. Li vestiamo; gli infiliamo il cappottino e i genitori li portano a scuola in auto. Quando usciranno, non avranno altra preoccupazione che quella di giocare, aspettando il pranzo. Anche nelle famiglie meno agiate non sempre si chiede ai ragazzi di aiutare a lavare i piatti[…]E da questi ragazzi che sono stati formati a giocare, che hanno disimparato il lavoro a tutto vantaggio di una pericolosa e passiva facilità, si esigerà, quando la porta della scuola si sarà chiusa, che lavorino tutta la giornata, senza sapere perché si trasformino così, bruscamente, le regole di vita di cui avevano beneficiato.[…] Ascoltate le lamentele dei professori della secondaria: “I ragazzi non sono abituati a lavorare; sono  incapaci di iniziativa e di decisione .”.Essi sono ciò che han fatto una società e una scuola che hanno disimparato il lavoro.[1]

L’analisi di Freinet si concentra sul valore di socialità che il lavoro contribuisce a formare, sulla responsabilità, sul senso del bene comune in uno spazio pubblico dotato di laboratori, centri di produzione, ‘con gli arnesi necessari per un lavoro serio.’[2]

Freinet non mette in discussione le fondamentali analisi sulla funzione dell’immaginario e del gioco come anticipazione della vita adulta, così come le fondamentali conquiste dell’eliminazione del lavoro minorile, ma la dissipazione del tempo del bambino che si è venuta produrre nelle nostre società limitando lo sviluppo di una personalità sociale.

Le stesse riforme scolastiche che prevedono stage formativi e alternanza scuola-lavoro (con tutte le controindicazioni per la tutela dallo sfruttamento e la sicurezza) prevedono soluzioni individuali a un’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro che deve essere sociale. Creare collaborazione, solidarietà, accordando al lavoro un posto  nella formazione di ciascuno. Costituire quello che Primo Levi nella ‘Chiave a stella’ definiva il laboratorio come  ‘cervello collettivo’. Tutt’altra cosa che una concezione di una ‘preparazione al lavoro’ in strutture esterne, ognuno con percorsi diversi. Una lettura distorta della necessità, a lungo rivendicata dalla pedagogia, di un rapporto organico fra pratica e teoria per una formazione unitaria degli individui, in realtà tradottasi in una subordinazione della scuola al mercato del lavoro.

In Freinet una componente decisiva della vita scolastica è costituita dalla cooperazione, alternativa alla competizione. Nei ‘Detti di Matteo’[3] Freinet paragona gli alunni ai corridori del Tour de France. Per la maggior parte dei corridori, non è la classifica finale che conta, eccezion fatta per alcuni privilegiati. ‘O i corridori prendono in qualche momento la testa del corteo e si classificano in un buon posto, o abbandonano. La corsa non ha per loro senso se non permette, almeno per un istante., di riscaldarsi al sole del successo e della gloria.[…] Che ciascuno dei vostri alunni possa anch’esso prendere a un dato momento la testa della squadra ed eccellere i n uno dei molteplici compiti che la scuola moderna offre ai suoi alunni…Vi sarà facile trovare trenta funzioni significative per i vostri trenta bambini…’

La pedagogia Freinet non sottovaluta la necessità dell’emulazione nel lavoro e dell’autovalutazione e della valutazione sociale, grazie a una serie di dispositivi di  organizzazione del lavoro, socializzazione del pensiero dei bambini, tecniche di riproduzione e diffusione del pensiero, ricerca.

Una scuola che si organizzi su questi criteri è una scuola di laboratori, di classi aperte per il lavoro di gruppo e la diffusione di una pluralità di messaggi, una scuola del lavoro che sa articolare momenti diversi e stimoli diversi in cui ciascuno si sperimenti con le proprie risorse e sperimenti compiti e funzioni diverse sottoponendosi a una disciplina di gruppo.  

Una evoluzione positiva di una scuola che non si fondi soltanto sulle eccellenze e sul merito a scapito del successo scolastico di tutti non può non tener conto del necessario superamento della divisione rigida tempi di vita-tempi di lavoro. Come rivendicano i NATs’ (niňos y adolecentes trabajadores), sindacati dei bambini lavoratori dell’America Latina,  ci vuole un tempo per l’educazione e la cultura, un tempo per il lavoro e le condizioni di una vita dignitosa, un tempo per il relax e il riposo.

Come introdurre nella scuola un autentico rispetto dei bisogni, degli interessi, dei diritti dei ragazzi e nello stesso tempo garantire condizioni l’assunzione di forme di responsabilità e di cura del bene comune? Dice Freinet: ‘Organizzate il lavoro in maniera cooperativa, suddividendo i vari compiti e, soprattutto, adottate la pratica del giornale murale e della riunione cooperativa del fine settimana.[4]

Usando quali oggetti organizzatori e di pianificazione delle attività la conversazione, il consiglio di cooperativa. il testo libero, l’assemblea. Diversificando attività tempi ritmi uso degli spazi così da aprire la scuola alla realtà dove si svolgono attività funzioni e si risponde ad esigenze diverse, in cui non vige l’omogeneità continua.

L’esigenza è quella giungere a una disciplina del lavoro così come viene praticata in tantissime scuole moderne dove gli alunni, attratti da un lavoro che s’inserisce nella loro vita, prendono coscienza della necessità di una disciplina funzionale che non è né licenza né oppressione, bensì realizzazione di  un modo di vivere individuale e collettivo quasi ideale.’ [5]

NOTE

[1][1] Freinet C. La scuola del fare (2002), Junior, Bergamo, pp. 29-32 ‘Insegnare il lavoro’
[2] Op. cit.
[3] Freinet C., I detti di Matteo, (1956), La Nuova Italia, Firenze
[4] Freinet C. La scuola del fare, p. 260
[5] Freinet C. op. cit., p. 122




Le invarianti nella pedagogia Freinet

di Giancarlo Cavinato

Il congresso di Caen dell’ICEM, Institut coopératif de l’Ecole Moderne, movimento francese della pedagogia Freinet, tenutosi a Caen, in Normandia, nell’agosto del 2013, era dedicato all’invariante n. 1 ‘il bambino è della stessa natura dell’adulto’.

‘E’ come un albero che non ha ancora ultimato la sua  crescita ma che si nutre, cresce e si difende esattamente come l’albero adulto. Il bambino si nutre, sente,  soffre, ricerca e si difende esattamente come voi,  solamente con dei ritmi diversi che sono dovuti alla sua debolezza organica, alla sua ‘ignoranza’, alla sua inesperienza, ma anche dal suo incommensurabile potenziale di vita, spesso pericolosamente compromesso dagli adulti. Il bambino agisce e reagisce in conseguenza, e  vive esattamente in base ai vostri stessi principi. Fra voi e lui non c’è una differenza di natura ma solo di grado. Di conseguenza: prima di giudicare un bambino o di sanzionarlo, fatevi soltanto la domanda: ‘se fossi al posto suo, come potrei reagire? E come agivamo quando eravamo come lui?’”  ( C.Freinet)

Nel cortile dell’università di Caen un cassonetto era simpaticamente dedicato ai presupposti fondamentali  stilati da Freinet con la scritta ‘je récicle toutes les invariantes’
Un pannello invitava i partecipanti nel corso del congresso  a commentare l’invariante n° 1 su dei cartelloni a disposizione.


Questa invariante, scelta come filo conduttore del congresso, è stata assunta come criterio per interrogarsi sugli effetti della pedagogia Freinet a livello del bambino ( desiderio di conoscere, apprendimenti scolastici e sociali, ruolo nella scuola e nella società, comprensione del mondo e dell’umanità,..), a livello dell’adulto ( sguardo e accoglienza del soggetto nella sua singolarità,  funzione dell’educatore, lavoro d’équipe, trasformazione della scuola,…).

Le invarianti sono trenta, raggruppate in paragrafi:

  1. La natura del bambino ( invarianti 1-3)
  2. Le reazioni del bambino ( invarianti 4-10)
  3. Le tecniche educative ( invarianti 11-30)

Le prime tre invarianti recitano, a seguire alla prima, ‘Essere più grande non significa necessariamente essere al di sopra degli altri’ ( n° 2); ‘Il comportamento scolastico di un bambino è funzione del suo stato fisiologico, organico e costituzionale’ ( n° 3).

Nelle invarianti Freinet esprime ottimismo e fiducia nella vita ( vitalismo).
Fra le più significative anche oggi:

Le reazioni del bambino:

Invariante n°4: Nessuno – il bambino come l’adulto- ama essere comandato d’autorità

Invariante n°6: A nessuno piace essere costretto a fare un certo lavoro, anche se questo lavoro non dispiace particolarmente. E’ la costrizione che è paralizzante.

Invariante N°8: Nessuno ama girare a vuoto , agire come un robot cioè fare degli atti, piegarsi a dei pensieri che sono iscritti in meccanismi ai quali non si partecipa.

Invariante n°9: Bisogna motivare il lavoro.

Invariante 10bis: Ogni individuo vuole riuscire. La bocciatura è inibitrice, distruttrice dell’andatura e dell’entusiasmo.

Le tecniche educative:

Invariante 11: la via normale dell’acquisizione non è affatto l’osservazione, la spiegazione e la dimostrazione, processo essenziale della scuola, ma il tatonnement sperimentale, approccio naturale ed universale.

Invariante 13: le acquisizioni non si fanno , come talvolta si crede, tramite lo studio delle regole e delle leggi , ma con l’esperienza. Studiare anzi tutto queste regole e queste leggi, in francese, in arte, in matematica, in scienza, è mettere il carro davanti ai buoi.

Invariante 14: L’intelligenza non è, come l’insegna la scolastica, una facoltà specifica che funziona come un circuito chiuso, indipendente da altri elementi vitali dell’individuo.

Invariante 15: La scuola coltiva solo una forma astratta d’intelligenza, che agisce, fuori dalla realtà viva, tramite le parole e le idee fisse della memoria.

Invariante 16: Il bambino non ama ascoltare una lezione ex-cattedra.

Invariante18: Nessuno, né bambino né adulto, ama il controllo e la sanzione che sono sempre considerati come una offesa alla sua dignità, soprattutto se esercitati in pubblico.

Invariante 19: I voti e le classificazioni sono sempre un errore.

Invariante 21: Il bambino non ama il lavoro gregario al quale l’individuo deve piegarsi. Ama il lavoro individuale o il lavoro d’équipe in una comunità cooperativa.

Invariante 24: La vita nuova della scuola presuppone la cooperazione scolastica, cioè la gestione da parte degli utenti , educatori compresi, della vita e del contesto scolastico.

Invariante 27: Si prepara la democrazia di domani con la democrazia a scuola. Un regime autoritario a scuola non può essere formatore di cittadini democratici.

Invariante 30: Alla fine un invariante che giustifica tutti i nostri tatonnements e autentifica la nostra azione: è l’ottimistica speranza sulla vita.

(Freinet C., Les invariants pédagogiques– Oeuvres pédagogiques- Seuil-Paris-1994-vol2 pp383-413) (traduzione Alain Goussot)

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Il calcolo vivente

di Giancarlo Cavinato

Si parla oggi di somministrare ‘compiti di realtà’  (=simulazioni) per costruire competenze.
Tutto bene se non si tratta di artifici non emersi da reali interessi della classe.

Freinet, per superare un apprendimento meccanico – quello che Guido Petter definiva ‘l’aritmetica del  droghiere’ il ‘far di conto’, il meccanismo delle operazioni),  proponeva la tecnica del calcolo vivente.
Esperienze reali, che mettono in gioco le strutture logiche del pensiero.

La fecondità del calcolo vivente non sta solo nella sua vitalità, nel fatto che il fanciullo non sente il problema come materia estranea ma come qualcosa che gli nasce dentro, ma dal fatto che dal problema immediato nasce spesso (nasce specialmente quando gli stimoli del maestro lo mettano in evidenza) un problema più generale, più formale.[1]

Nessun settore di apprendimento può considerarsi a se stante, scisso dalla vita dinamica della comunità scolastica. La connessione del calcolo con le altre attività comunitarie è indispensabile in certe fasi; in momenti diversi, poi, le operazioni matematiche sembrano astrarsi completamente dagli oggetti e dai problemi viventi per esplicarsi nel campo dei simboli puri. Questo passaggio dal concreto all’astratto costituisce una inderogabile conquista intellettuale; ma no si deve mai perdere il contatto con  la prassi. Le conquiste astratte debbono in ogni istante potersi riapplicare ai problemi della vita concreta, in un continuo circolo in cui i simboli che son nati dalla  realtà servono a dominarla e a interpretarla meglio. Il calcolo, dunque, sorge dalle attività di compra e vendita, osservazione e misura, progettazione, ricerca, costruzione, che hanno luogo nella classe. Vi è quindi una motivazione dei fanciulli, che s’incontra con quella dell’educatore. Come si deve impostare e risolvere il problema vivente che via via si manifesta? Il maestro si deve guardar bene dall’impostare lui la soluzione, o dal tentare di provocare un ragionamento agendo lui stesso su certi materiali, manipolando e operando. Ammettiamo che la cooperativa di classe abbia acquistato 5 tubetti di colore, a 60 lire ciascuno. Vediamo quanto si è speso. Evidentemente, i ragazzi sono interessati a risolvere il problema: c’è una motivazione. […] Merito delle tecniche Freinet e del MCE è l’aver affermato la connessione del calcolo con le attività comunitarie, e necessità della motivazione. Ma questa non  è sufficiente. Il calcolo dev’essere vivente non solo perché sgorga dalla vita, ma anche perché il fanciullo vive la soluzione dei problemi, in un totale impegno dei sensi, dei muscoli e delle facoltà logiche. il simbolo stesso dev’essere scoperto dal fanciullo…[…] La conquista e l’esercitazione astratta dev’essere vista come un momento necessario e importantissimo  che sta tra una serie di esperienze viventi (da cui è scaturita) e ulteriori esperienze su cui rifluisce e da cui possono sorgere nuovi elementi di astrazione in un continuo circolo.[2]

Ogni tecnica un valore’, scrive Fiorenzo Alfieri[3]: per l’aggancio alla realtà, per il valore morale, per il valore della razionalità, per il valore socio-culturale. Ogni tecnica è essenziale per lo sviluppo dell’abito democratico. La matematica ha un ruolo fondamentale per la costruzione di valori.
Lo studio dell’aritmetica non era il triste momento dell’addestramento immotivato alle magie del calcolo, ma un’attività vitale come tutte le altre. [4]

Anche quando bisogna calcolare quanti posti ci saranno e quante persone ci staranno nelle auto dei genitori per andare di domenica in visita ai corrispondenti.
Oppure quando il direttore vuole regalare a tutti i bambini della scuola un sacchetto di caramelle per Natale.
Comprammo trenta chili di caramelle; si dovevano dividere in  500 sacchetti, tante quante in ognuno. Con che ardore si lavorò l’intera mattinata! Fu necessario organizzare e distribuire il lavoro…

Non può esserci esperienza e conquista di abilità e competenze, ci dicono questi maestri, senza un’organizzazione funzionale dell’ambiente di lavoro: sono necessari dei materiali e ogni cosa deve avere una collocazione chiara a tutti per poter operare.
Il pensiero matematico diventa modo di vita e confronto costante con gli altri alla ricerca delle soluzioni più funzionali.
Siamo ben lontani da una guida all’appropriazione di meccanismi rapidi e vuoti di significato o di una pratica e una manipolazione cieche senza una reale interiorizzazione di processi.

[1] Bruno Ciari, ‘Le nuove tecniche didattiche’, Ed. Riuniti, Roma, 1971, p. 198

[2] Bruno Ciari, ‘I modi dell’insegnare’, Ed. Riuniti, Roma, 1973 , pp. 220 sgg.

[3] Fiorenzo Alfieri, ‘il mestiere di maestro’, Emme edizioni, Milano, 1974, p. 59 sgg.

[4] Fiorenzo Alfieri, op. cit., pp. 28 sgg.