Docente esperto, ma dal 2032: la novità che preoccupa

di Rosolino Cicero

In questa calda stagione estiva, un tema altrettanto caldo ha destabilizzato la serena estate dei docenti, delle organizzazioni sindacali, delle forze politiche: l’istituzione nell’alveo degli obiettivi del PNRR di una nuova qualifica – il/la “Docente esperto/a” – a partire dall’anno scolastico 2032-2033.
Si tratta di 32.000 docenti che nei successivi quattro anni scolastici avranno riconosciuta la nuova qualifica ma con vincolo di permanenza di almeno un triennio nella scuola di servizio e non dovranno svolgere mansioni aggiuntive rispetto alla normale attività di insegnamento. In altre parole, devono insegnare e stop!

E’ arcinoto che il PNRR offre all’Italia risorse dell’Europa finalizzate a dare quelle opportunità capaci di cambiare il nostro Paese entro i prossimi due decenni.

Tra le missioni, la quarta pone al centro la scuola e l’università.
In particolare, per la scuola si parla di investimento nelle infrastrutture connesse agli ambienti di apprendimento da zero ai 19 anni, all’implementazione di quelle digitali, alla revisione delle procedure di reclutamento e orientamento, al sostegno e potenziamento dell’azione didattica dei docenti e, infine, alla valorizzazione professionale.
Se concentriamo l’attenzione al personale, nel PNRR è scritto chiaro che l’obiettivo principale è procedere con la formazione che sarà coordinata, monitorata e verificata dalla tanto discussa Scuola di Alta formazione: è una delle 6 riforme previste dal piano per migliorare nel corso del prossimo decennio la qualità della didattica e le competenze metodologiche, digitali e culturali dei docenti.

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Come scritto e sostenuto da più parti, anche autorevoli, non si potranno utilizzare le risorse per il rinnovo contrattuale che invece devono essere estrapolate dal bilancio dello Stato e messe sul tavolo della contrattazione.

Quindi il tema della formazione dei docenti riconosciuta e certificata nel breve e medio periodo per il legislatore è una PRIORITA’!
Il Parlamento ha ritenuto che la qualità dell’azione didattica non possa prescindere dalla formazione e già nel comma 124 della Legge 107/2015 ha previsto la formazione in servizio dei docenti di ruolo come azione “obbligatoria, permanente e strutturale” da prevedere nel PTOF.

Ma torniamo al DL Aiuti bis: considerato che nel DL 36/2022 i tre trienni di formazione (obbligatoria per i docenti neoimmessi e facoltativa per i docenti già in ruolo) alla fine del percorso non producevano di fatto alcun effetto nel curriculum professionale (erroneamente si confonde con la “carriera”), il Governo – su pressione dell’Europa – ha sanato questa incomprensibile “dimenticanza” prevedendo quale completamento la possibilità di “concorrere” per accedere al riconoscimento della nuova qualifica di “docente esperto/a” con la previsione di un riconoscimento economico annuale di 5.650 euro in aggiunta al trattamento stipendiale maturato per anzianità.

Tutto chiaro, logico e coerente per chi guarda al dispositivo giuridico senza pregiudizi ideologici: se non sei un docente neoimmesso, sei libero di aderire al piano di formazione e, al decimo anno, concorrere per la qualifica! Un’interessante novità di medio periodo che integra la progressione economica per anzianità che intanto continua a esistere per tutti come oggi la conosciamo.

E’ poco…è troppo….è lenta….è limitata nei numeri….discutiamone ma non possiamo eludere il punto: la formazione in servizio finalmente assume un importante valore aggiunto nella professione docente unitamente alla progressione di anzianità.

E’ un primo seme di valorizzazione professionale che ci pone di fronte le seguenti domande: siamo convinti che nella scuola di oggi e del futuro si debba ancora procedere per progressione di anzianità e con modesti incrementi stipendiali indifferenziati? Siamo sicuri che nella scuola già OGGI non si possano definire criteri per individuare le caratteristiche culturali e le competenze professionale del/della docente esperto/a?
Chiediamoci: nella scuola autonoma di oggi, chi potrebbe essere: il/la più bravo/a?….il/la più competente?….il/la più anziano/a in servizio?…..chi si dedica sine tempora alla sua comunità scolastica?…..il/la più formato/a?….chi possiede più titoli culturali e professionali?

Provo a rispondere partendo dalla scuola reale.

Poniamo “per assurdo” l’ipotesi di avere un’Istituzione scolastica con 750 alunni dei quali il 10% con BES, ripartiti in 5 plessi e in 3 diversi comuni, con un dirigente scolastico bravissimo, un vero leader, una dsga stracompetente, con gli uffici amministrativi efficientissimi con tutto il personale in organico e di ruolo, con i collaboratori scolastici ipercollaborativi e, infine, con un corpo docente brillante e di grande qualità professionale impegnato esclusivamente nell’insegnamento.

Questa scuola (magari esiste ma ditemi per favore dove!) potrebbe assolvere adeguatamente ed efficacemente al suo ruolo istituzionale nei confronti degli alunni e della comunità nel suo complesso? Si…no….forse….
Manca l’anello fondamentale, quello intermedio.

Infatti, vista la complessità del “fare” scuola, il Ds con i poteri conferiti dalla legge – ai sensi del DPR 275/99 art. 5, del D.lgs 165/2001 art. 25 commi 4 e 5 e della Legge 107/2015 comma 83 – si avvale di docenti da lui individuati “ai quali delega specifici compiti” che “lo coadiuvano in attività di supporto organizzativo e didattico dell’istituzione scolastica”.
Non è un caso se il legislatore, nell’istituire la dirigenza scolastica nel lontano 1997, abbia voluto chiaramente prevedere “Nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente….”.

Ecco allora già previsto l’anello mancante di fatto sempre presente, necessario e imprescindibile, per il “fare” scuola in modo efficiente e corrispondente alla complessità della scuola: il lavoro a scuola così non è più soltanto l’orario frontale di lezione!

Per questa ragione, nella scuola in continuo e dinamico cambiamento non è possibile lasciare il personale in una condizione permanentemente statica, dove la lenta attesa dello scorrere degli anni scolastici è l’unica ragione per aspettarsi un incremento stipendiale.
La complessità del sistema scuola, le conoscenze culturali e disciplinari unitamente alle strategie didattiche e alle competenze metodologiche e relazionali, la partecipazione attiva e informata all’organizzazione della scuola (e anche alla gestione in quella in reggenza), la conoscenza di norme e regolamenti relativi alla professione docente (stato giuridico, contratto di lavoro) in relazione ai propri diritti e doveri, la partecipazione al sistema delle decisioni all’interno della scuola, la conoscenza delle fonti giuridiche che determinano il corretto funzionamento dell’organizzazione scolastica anche in ordine alla sicurezza, la capacità di ascolto, di mediazione comunicativa e di propensione al lavoro di gruppo, la partecipazione alle diverse sedi di decisione nel rispetto delle funzioni delegate e di ruoli professionali, l’assunzione di responsabilità nel funzionamento organizzativo e didattico, la partecipazione alle attività di formazione e di aggiornamento, sono sufficienti per poter affermare che già OGGI nella scuola italiana possono individuarsi – secondo criteri, procedure di accesso e di valutazione definiti – docenti esperti/e, pronti/e ad assumere responsabilità professionali più ampie e trasversali oltre l’esclusiva attività di docenza, meritevoli di una carriera professionale integrata.

E’ arrivato il tempo di dare pari dignità giuridica all’attività didattica negli ambienti di apprendimento e a quella funzionale al funzionamento organizzativo e didattico.
Come prevede il comma 16 dell’art. 21 della Legge 59/97 diamo un profilo agli attuali docenti esperti, che posseggono i necessari requisiti di competenza e professionalità, che hanno una visione multipla della loro scuola (didattica, organizzazione e formazione), che hanno seguito percorsi di formazione, che sono riconosciuti risorse per la comunità scolastica.
Basta delineare la modalità di accesso, le aree della formazione, l’esplicazione delle funzioni, sulla base dei fondamenti giuridici oggi in vigore.

Potremmo prevedere, utilizzando anche una parte dei fondi del PNRR, per il prossimo anno scolastico attraverso un numero di scuole rappresentative del territorio nazionale una sperimentazione per l’individuazione delle funzioni intermedie strutturali, per l’elaborazione dei criteri di accesso e determinazione del tempo di lavoro, di un modello per lo sviluppo professionale nella carriera docente, di un modello di valutazione delle professionalità, di un percorso formativo.
In questo modo fra due anni scolastici potremo finalmente avere una vera carriera professionale che corrisponda in pieno alle attese dell’Europa.

Dunque, perché aspettare il 2032?

 

 




C’era una volta il (vice)preside

di Rosolino Cicero

Ho sempre chiamato PRESIDE i miei 6 capi di istituto incontrati da quando, nel lontano 2007, ho messo piede nella scuola statale.

E dall’anno scolastico 2010/2011 – individuato dal ds protempore nel ruolo di collaboratore (primo?….vicario?…) – non mi sono mai sentito pienamente un “vice”.

Già perché mentre con il preside esisteva formalmente riconosciuto il vicepreside, con l’istituzione del dirigente scolastico il legislatore non ha previsto un vicedirigente ma nessuno può negare che comunque nella realtà un “vice…qualcuno” c’è.

Nonostante la scuola abbia assunto – in forza dell’attribuzione dell’autonomia – una propria personalità giuridica, tutti i miei dirigenti hanno continuato a sentirsi presidi e nelle relazioni mi hanno riconosciuto un loro “vice”.

Il conferimento della qualifica dirigenziale al capo d’istituto è stata una innovazione giuridica monca che ha fatto emergere prepotentemente una specie di debolezza che nei fatti ha lasciato il dirigente attorniato da mura che ne circoscrivono l’azione propria.

Il legislatore ne ha connotato la natura con un peccato originale: non ha previsto per la prova concorsuale di accesso – unitamente all’anzianità di servizio nella funzione docente di almeno 5 anni – la necessità di un’esperienza di almeno pari durata nella governance scolastica. Entrambe le condizioni avrebbero potuto dare piena identità al preside transitato al ruolo dirigenziale.

E’ il caso di ricordare che l’incipit di questa funzione lo si trova nel comma 16 art. 21 della Legge 59/1997 dove si legge “Nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l’unicità della funzione, ai capi d’istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche……”. Il legislatore, dunque, ha inteso disegnare un quadro giuridico chiaro che però è rimasto in questi 25 anni incompleto proprio perché si è voluto mantenere un vulnus giuridico che per ragioni ideologiche e per indiscutibile sottomissione alla cultura dell’egualitarismo professionale di matrice sindacale ha di fatto reso il dirigente scolastico una “monade disconnessa” con la sua comunità scolastica.

L’assenza di un anello intermedio nella comunità scolastica, capace di mediare e fare sintesi, giuridicamente riconosciuto e contrattualmente definito, ha ingenerato l’idea del dirigente scolastico quale figura autocratica spesso detestata e incompresa, temuta per la sua autorità ma non apprezzata per la sua autorevolezza, quale burocrate giudicante piuttosto che un “capo” necessario e riconosciuto per una leadership funzionale alla crescita e allo sviluppo della comunità scolastica.

E in questa relazione alterata tra dirigente e operatori scolastici – in una via di mezzo – si ritrovano dei docenti, privilegiati a detta di tanti, che operano in un territorio accidentato senza confini definiti, con una funzione dall’identità offuscata, che vivono e lavorano in una “precarizzazione” di sistema che ogni anno scolastico rischia di far disperdere risorse professionali, competenze acquisite, formazione specifica conseguita.

Al dirigente scolastico manca quanto il legislatore ha previsto nel lontano 1997: la connessione con le nuove figure professionali di sistema, con una propria identità che ne avrebbero completato la funzione e dato senso alla visione (utopica?) dell’autonomia scolastica.

Nella scuola dell’autonomia abbiamo un dirigente scolastico con “oneri speciali” e “responsabilità severe” e dei docenti diversamente impegnati che, nella reciproca condizione di precarietà cui si aggiunge per i secondi un riconosciuto spirito di collaborazione e di servizio, portano avanti il progetto pedagogico, il piano didattico, il funzionamento organizzativo e – ove necessario – anche l’azione amministrativa.

Il dirigente scolastico della scuola dell’autonomia ha, dunque, sempre fruito di una governance efficiente ma precaria, non formalmente riconosciuta che ha retto però da subito l’impatto storico del cambio di identità.

Cosa fare allora?

Occorre dare al dirigente scolastico piena identità professionale, completare il quadro della governance scolastica liberandola dalla condizione di strutturale precarietà, affrontare la complessità della scuola con strumenti giuridici e contrattuali moderni ed efficaci che possano ricompensare il lavoro che ben conosciamo, duro ma entusiasmante.

Sì, è vero, occorre riportare fiducia e forti motivazioni in chi si fa carico di guidare una comunità scolastica; occorre altresì riconoscere valore secondo regole condivise alla funzione docente e alle professionalità a diverso titolo espresse.

Occorre rigenerare un “comune interesse” per risvegliare la consapevolezza che si parla della nostra scuola, non come un luogo di lavoro ma quale realtà complessa e dinamica nella quale essere un bravo docente e riconoscersi in un competente docente diversamente impegnato non è una contraddizione di ruoli ma una proficua e intelligente integrazione di professionalità.

Pienamente riconosciute, a cominciare dal…vice!