Cattedra inclusiva: il profilo del docente specializzato ha mezzo secolo di vita

di Simonetta Fasoli

Lo scorso 25 gennaio è stato presentato, a cura dei suoi estensori (gli esperti Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Dario Ianes, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano) un “Progetto di legge per l’introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”. Si tratta di un’iniziativa destinata ad avere, già nel suo primo impatto, una notevole risonanza per la natura e la rilevanza delle questioni di cui esplicitamente si occupa.

Io stessa, nel commentare un articolato e interessante intervento pubblicato su Facebook dal collega Pietro Calascibetta, auspicavo che fosse occasione per un approfondimento e un confronto aperto, per sviluppare quella cultura dell’inclusione di cui più che mai si sente il bisogno.
In quest’ottica si pone il contributo che oggi e qui intendo dare.

Ho letto con la dovuta attenzione il Progetto di legge, strutturato nella forma come una proposta destinata al dibattito parlamentare. Connotato che sottolineo per almeno due ragioni.
La prima è che un tema così rilevante deve sottrarsi a qualsiasi rischio di velleitarismo, e alla fin troppo abusata tendenza a “gettare un sasso nello stagno” per “vedere l’effetto che fa”, inevitabilmente esposta al fuoco di fila degli schieramenti opposti, che fanno aggio sui buoni argomenti.
La seconda è che la sede parlamentare, nei modi previsti, è il luogo istituzionale idoneo a dare forma a temi che riguardano i diritti e la loro esigibilità.

Il progetto di legge è anzitutto un’occasione preziosa, da non perdere, per riflettere e confrontarsi sul tema della disabilità nel sistema di istruzione ed educazione, e sulla cultura dell’inclusione che è più di una cornice: è lo sfondo che dà senso ad ogni intervento. Grazie davvero, dunque, a questo gruppo di colleghi che, venendo da diversi contesti e biografie professionali, si sono fatti carico di dare forma e sostanza ad una tappa importante del percorso verso una “compiuta inclusione”: con coraggio, onestà intellettuale, competenza e, non ultimo, passione attraversata dal vaglio dell’esperienza.
Fatte queste premesse, vorrei procedere con alcune considerazioni, possibilmente con la ragionevole sintesi che il luogo e il mezzo suggeriscono.

Parto, come uso fare in contesti anche di riflessione professionale, dalle fonti, che sono norme ma anche significati culturali che le animano. Vorrei soffermarmi sulla figura e la funzione del docente di sostegno, assumendo che il Progetto in parola non ne propugni la scomparsa (come qualcuno già sta paventando…) ma la rivisitazione.
Se è questo, come mi sembra plausibile, l’intento, bisogna prenderlo sul serio. Suggerisco a questo proposito di andarsi a rileggere il D.P.R. n. 970 del 31.10.1975, che individua i tratti essenziali del profilo dell’insegnante di sostegno, assegnato, dice la norma, “a scuole normali per interventi individualizzati di natura integrativa in favore della generalità degli alunni e in particolare di quelli che presentano specifiche difficoltà di apprendimento.”
E’ mio il grassetto, con cui evidenzio passaggi a mio avviso rilevanti e pertinenti al tema. E’ appena il caso di sottolineare che la norma precede di circa due anni la L. 517 del 4 agosto 1977, che porta al livello ordinamentale il processo di integrazione nella Scuola di Base, superando le classi differenziali e le scuole speciali e introducendo appunto la figura dell’insegnante di sostegno all’integrazione.
Il criterio ispiratore delle due norme appena ricordate è in definitiva il superamento di ogni SEPARATEZZA come “trattamento educativo” della diversità e delle differenze. La prima “separatezza” da oltrepassare è (come spesso osservo negli incontri di formazione con i docenti) quella che si pone tra docenti comuni e docente di sostegno, emblema del trattamento separato destinato agli alunni disabili.
Superfluo, per gli interlocutori di questo mio intervento, sottolineare la variegata casistica delle pratiche invalse nelle scuole di ogni ordine e grado a conferma di questa tendenza. Diverso è, ovviamente, il diritto ad una didattica differenziata che è espressione del diritto all’istruzione e alla formazione di ogni alunn*. Ma qui il discrimine è sottile quanto decisivo: si differenzia PER integrare, nella prospettiva dell’inclusione. Per questo il docente di sostegno è, a tutti gli effetti, il docente della classe e nella classe.

Di qui, l’altro principio-cardine che caratterizza, fin dall’origine, l’esercizio della funzione del docente di sostegno: la CONTITOLARITA’ nel contesto del team dei docenti della classe.
E’ così sostanziale questo principio che dopo ben diciassette anni dalla L.517/77, le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” (Nota Miur del 4/08/2009) lo richiamano, affermando tra l’altro:
“[…] il contenuto della Legge 517/77 che a differenza della L. 118/71, limitata all’affermazione del principio dell’inserimento, stabilisce con chiarezza presupposti e condizioni, strumenti e finalità per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, da attuarsi mediante la presa in carico del progetto di integrazione da parte dell’intero consiglio di classe e attraverso l’introduzione dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno“.
Anche in questo caso, il grassetto è una mia scelta grafica, per sottolineare un passaggio rilevante ai fini di questa disamina.

La cultura dell’inclusione è un processo aperto, che rifugge ugualmente dalle cristallizzazioni pregiudiziali e dalle “fughe in avanti”: per questo, avviandomi a una (molto provvisoria) conclusione di questa mia riflessione, mi sembra pertinente al tema e ai motivi ispiratori del Progetto di legge in parola richiamare brevemente l’idea di “sostegno diffuso”, da più parti sollevata, soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2000. Anche qui, non mancano le insidie di interpretazioni fuorvianti e di atteggiamenti liquidatori. Per questo, mi sembra utile riportare un passo del testo “Il piano educativo individualizzato. Progetto di vita” a cura di D.Ianes e S. Cramerotti, ed. Erikson, 2007:

“Le attività dell’insegnante di sostegno dovrebbero estendersi e integrarsi in una più globale funzione di sostegno, attivata dalla comunità scolastica nel suo insieme, nei confronti delle tante e diverse situazioni di disagio e difficoltà che si manifestano. In questo caso sarà l’insieme della comunità-scuola, composta di insegnanti, personale tecnico, alunni e altre persone significative, che mobiliterà tutte le risorse disponibili, formali e informali, per soddisfare i bisogni formativi ed educativi speciali degli alunni, in relazione al tipo e al grado di difficoltà”.

E’ opportuno chiarire che una corretta interpretazione di queste affermazioni non deve significare, a mio avviso, il superamento (nel senso di soppressione) della figura e della funzione dell’insegnante di sostegno, quanto piuttosto sottolineare che la sua azione POSTULA come necessaria condizione la funzione inclusiva del CONTESTO.

Mi auguro che questa mia ricognizione sia un utile contributo al dibattito culturale, professionale, politico-istituzionale attorno ad un’iniziativa come quella del Progetto di legge appena annunciato.  A me sembra, dagli elementi di riflessione proposti, che la prospettiva abbia dalla sua parte solide motivazioni, anche se non manca di nodi di criticità. Ne indico un paio che possono essere oggetto di discussione sia negli ambienti che si muovono attorno alla scuola e ai temi dell’educazione in chiave inclusiva, sia (non meno) in sede di un dibattito parlamentare che auspico possa essere l’approdo dell’iniziativa.

Il primo riguarda la modalità di attuazione del percorso e le procedure che vi sono collegate, alcune esplicitamente. Mentre considero un fatto positivo la previsione dell’attuazione graduale dell’innovazione (segno di saggio realismo) ho qualche perplessità sui modi prefigurati. Detto in termini espliciti, preferirei che gli incarichi orario (su posto di sostegno e, reciprocamente, su posto comune) ovviamente conferiti dal dirigente scolastico, nell’ambito delle prerogative attribuitegli dalle norme, siano formalizzati dopo una procedura che preveda il passaggio negli Organi Collegiali preposti alla programmazione educativo-didattica.

Non si tratta di un astratto omaggio al formalismo delle procedure, ma di una concreta cura della qualità democratica dell’istituzione scolastica. In questo caso specifico, mi sembra per di più che possa ben rappresentare a livello istituzionale quel principio di corresponsabilità educativa su cui mi sono soffermata suffragandolo con il riferimento alle norme.

Secondo rilievo: riguardo alle modalità, ho delle forti perplessità sulla previsione “a regime” dell’innovazione; qui i miei dubbi riguardano la sostanziale obbligatorietà dell’assunzione di incarico sulla cattedra “mista” (o “inclusiva”). Così vincolante che l’articolato prevede puntualmente i casi di deroga (legandoli in sostanza a fattori anagrafici). Capisco le esigenze di natura gestionale ed organizzativa che possono aver ispirato questo criterio. Ma mi domando, proprio perché si innesti un processo di tipo culturale e professionale, attento alla qualità dei percorsi oltre che alla efficienza dei risultati, se non sia preferibile evitare una “coscrizione obbligatoria”, nella prospettiva di coinvolgere la totalità della platea dei docenti. Non voglio entrare nei dettagli di eventuali dispositivi emendativi, in sede di discussione parlamentare, a questo riguardo, ma suggerirei di prevedere una prima fase di sperimentazione (ad esempio, triennale) che coinvolga i docenti come protagonisti attivi e consenzienti, e non come destinatari passivi: l’esperienza passata ci dice che questo può compromettere la buona riuscita della più illuminata delle riforme. Sarebbe un’occasione persa.

Mi fermo qui. Spero che il percorso attivato da questi colleghi (alcuni dei quali conosco personalmente, considerandoli preziosi interlocutori dell’educazione che ci sta a cuore) prosegua: con lungimiranza, come è nato, con il coraggio delle idee di cui c’è più che mai bisogno. Lo dobbiamo ai ragazzi e alle ragazze, non perché lo “meritino” ma perché ne hanno il diritto.




Individualizzazione e personalizzazione, parliamone ancora

di Simonetta Fasoli

Sembra incredibile che il discorso sulla scuola debba ritornare ciclicamente sui medesimi argomenti, in un sortilegio temporale da cui è difficile emanciparsi. Ma tant’è. Succede che un ministro pro-tempore rilanci in grande spolvero il tema della personalizzazione, addirittura facendone il fulcro di provvedimenti che riguardano le politiche professionali e retributive del personale. Così è stato presentato ai sindacati, in sede di informativa, lo schema di decreto sugli aspetti e i criteri attuativi riguardanti le nuove funzioni (“funzioni”, si badi bene, non ancora “figure”…) del docente tutor e del cosiddetto “orientatore”. In questo contesto si inserisce l’affermazione del ministro Valditara, secondo cui “nella legge di Bilancio abbiamo ottenuto lo stanziamento di ulteriori 150 milioni di euro, che sono stati utilizzati per valorizzare il personale della scuola, per favorire una grande riforma che oggi abbiamo lanciato: quella della personalizzazione dell’insegnamento, che prevede l’introduzione del tutor nelle scuole e l’introduzione dell’orientatore, per dare ai nostri ragazzi prospettive di un percorso professionale e formativo che sia realizzante”.
Al solito, si nota una certa enfasi, che caratterizza del resto le comunicazioni dell’Esecutivo su tutta la linea. “Una grande riforma”? Mah…né propriamente riforma (chi ricorda i “Piani di studio personalizzati” dell’era Bertagna?) né tantomeno grande. Sarebbe raccomandabile una certa dose di prudenza in certe affermazioni.
Converrà dunque fare qualche puntualizzazione e proporre qualche riflessione, come antidoto agli entusiasmi governativi, prima che la macchina politico-istituzionale si metta in moto.
Per cominciare, suggerirei un ritorno ai fondamentali, cosa sempre buona e giusta sul piano del buon senso. Mi scuso anticipatamente di sottolineare quello che per gli addetti ai lavori dovrebbe essere ovvio…ma sbanalizzare l’ovvio è una buona strada per contrastare il “nuovismo”, sempre in agguato quando si tratta di scuola e più che mai con un governo impegnato ad accreditarsi all’interno (e all’estero…). Parliamo allora, ancora una volta, di individualizzazione e di personalizzazione: con qualche schematismo, certo, ma con un approccio utile, si spera, ad evitare polarizzazioni strumentali.
Didattica individualizzata. Cosa vuol dire, in buona sostanza, individualizzare? Vuol dire partire da obiettivi comuni definiti nel curricolo di scuola e nella programmazione di classe per diversificare i percorsi finalizzati al raggiungimento di quegli obiettivi. Obiettivi COMUNI, attenzione: vuol dire non astrattamente “uguali”, ma ponderatamente “equivalenti”.
Didattica personalizzata. Possiamo sinteticamente affermare che la personalizzazione consiste nel diversificare gli obiettivi, calibrandoli sulle caratteristiche dei singoli. La diversificazione dei percorsi non è in questo caso una scelta strategica per perseguire quell’equivalenza di cui si è detto, ma una caratteristica strutturale dell’azione didattica che, in quanto tale, è destinata a confermare le differenze.
Da questi sintetici riferimenti si può capire come ci troviamo di fronte a due distinte modalità di impostare l’azione didattica, che non sono intercambiabili nè tantomeno neutre sul piano delle visioni di scuola cui rimandano. Detto questo, sarei personalmente per sottrarci ad un’assunzione unilaterale dell’uno o dell’altro approccio, come sembra fare in questa fase la politica ministeriale: la scuola langue nell’indistinto ma muore di polarizzazioni. Il suo naturale sfondo culturale è di natura “compositiva” (et et) non oppositiva (aut aut): l’educazione, da cui trae ragione e senso l’istituzione della scuola, è in sé stessa dialogica, perciò postula la dialettica delle posizioni che si confrontano.
Dunque, cominciamo con il porre in questione la scelta governativa di correlare il profilo della funzione di tutor (e quella di orientatore ad essa strettamente connesso) alla sola personalizzazione, quasi fosse la chiave di volta dell’intera operazione: ne emerge una visione parziale e distorta del processo di insegnamento-apprendimento.
In questo mio contributo propongo invece di delineare un percorso unitario che coinvolga in un reciproco rimando i due termini astrattamente alternativi. Il punto è un altro: se possono essere presi in considerazione contestualmente, “come” stanno insieme? A me sembra che potremmo pensare all’individualizzazione come al dispositivo didattico approntato dal docente (o meglio, dai docenti nella loro corresponsabilità progettuale) dal versante dell’insegnamento; mentre la personalizzazione è la risposta individuale messa in campo dai discenti rispetto all’azione didattica, dunque si colloca essenzialmente sul versante dell’apprendimento. In questo approccio, le caratteristiche personali non sono cristallizzate ( e le differenze non si traducono in “dati” di natura, invalicabili e definitivi) ma diventano “modi” della risposta alla didattica individualizzata: modi destinati ad evolvere, se l’azione è efficace.
In definitiva, individualizzazione e personalizzazzione si pongono come epifenomeni dello stesso processo, così come è un processo l’insegnamento-apprendimento.
Raffinatezze da “pedagogismi”? Non direi…ma qui il confronto è aperto e legittimo. A me è sembrato utile entrare nel merito, perchè troppo spesso l’azione ministeriale-governativa dà per acquisite le sue premesse “teoriche” (in questo caso, l’idea onnipervasiva di personalizzazione) per l’urgenza di calarle nelle cosiddette “fasi attuative”: un modo per stemperare e annacquare il valore dirimente dei presupposti.
E’ evidente, infine, che non entro qui nel merito delle questioni di politica professionale legate alla funzione del docente tutor e dell’orientatore, che coinvolgono aspetti di assoluto rilievo, anche di natura contrattuale, quali le modalità di individuazione, l’organizzazione del lavoro e la salvaguardia delle prerogative collegiali. In altre sedi e con altro taglio tematico è possibile, anzi opportuno, affrontarli.




Didattica del recupero o didattica da recuperare?

di Simonetta Fasoli

Ho letto in questi giorni in articoli dedicati alla scuola nell’ambito del territorio romano, spesso con toni comprensibilmente allarmati, dati e commenti circa l’avvenuto, sensibile incremento di corsi pomeridiani di recupero attivati nelle Scuole primarie. Ricorre il tema delle competenze linguistiche basilari (si parla di “comprensione del testo”) e logico-matematiche in vistosa carenza, per cui si rendono necessari tempi suppletivi (in orari pomeridiani) programmati dalle scuole.
Ferme restando la variabilità dei fatti e la complessità della casistica, che vietano giudizi sommari, penso sia opportuno, e perfino urgente, accompagnare la conoscenza dei dati con qualche considerazione e qualche spunto di riflessione. A partire dal concetto di “recupero” e dalle modalità con cui viene realizzato: spesso, infatti, si confondono i piani. Si devono recuperare i “contenuti” (nel senso più ampio) o non piuttosto gli strumenti di approccio? Nel primo caso, il riferimento sono gli obiettivi fissati; nel secondo sono i percorsi.

Nel primo caso, prevale un criterio quantitativo, per cui è sensato intervenire su un incremento del tempo scolastico. Nel secondo, è analizzata la qualità dell’apprendimento, che suggerisce di rivedere le metodologie del processo di costruzione della conoscenza.
Ma c’è una questione di fondo che, a mio parere, comprende entrambe le ipotesi e che potrei formulare così: più che di una didattica del recupero, parliamo del recupero della didattica!

Fuori dal gioco di parole, è un invito a spostare l’attenzione dall’apprendimento (“non ce la fanno”…e via alla ricerca dei “colpevoli”, identificati volta a volta nei telefonini, negli esiti della pandemia e dell’isolamento…) all’insegnamento e alla didattica che ne è in qualche modo la parte visibile, la messa in opera. Di fronte a questo guado, a me pare che la Scuola tenda a chiamarsi fuori, a non mettersi davvero in gioco, prendendosi il rischio di autoriformarsi dal basso. Di qui, la via, impegnativa e certo non indolore, di organizzare tempi e setting aggiuntivi.
Proviamo a rovesciare il punto di vista. Se il problema nasce nel tempo e nella didattica ordinari, la strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stat* esclus*. Questo lo ha recepito la cultura dell’inclusione e lo ha tradotto in principi e percorsi fin dagli anni Settanta del secolo scorso: si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77. A chi fosse sensibile a questa tematica, segnalo quanto è scritto, con esemplare semplicità ed efficacia, nel seguente breve passo della direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, che disciplina la vasta materia dei BES (Bisogni Educativi Speciali):
“[…] Si è detto che vi è una sempre maggiore complessità nelle nostre classi, dove si intrecciano i temi della disabilità, dei disturbi evolutivi specifici, con le problematiche del disagio sociale e dell’inclusione degli alunni stranieri. Per questo è sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: UNA DIDATTICA INCLUSIVA PIÙ CHE UNA DIDATTICA SPECIALE.”
È mio il carattere cubitale.
Ripensare con la necessaria radicalità la didattica ordinaria comporta, va ribadito con forza, un netto cambio di direzione delle politiche scolastiche, che parta dalle condizioni strutturali: risorse e stabilità di organico, investimento sulla qualità degli spazi educativi e sul patrimonio edilizio, formazione del personale mirata a criteri di qualità dei percorsi e non ridotta ad adempimento burocratico, quando non a pratica vessatoria.
Non c’è tempo da perdere: il tempo è adesso, sono queste e non altre le generazioni che reclamano i loro diritti. Massimamente, quando non hanno voce.




Caro Ministro, l’orientamento educativo è altra cosa

di Simonetta Fasoli

Quasi sul finire dell’anno, il ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un provvedimento che adotta Linee guida concernenti l’orientamento, il D.M. 328 del 22/12/2022.
Si tratta di un testo che si presenta con l’ambizione di assumere un’ottica di sistema, e non solo perché investe i diversi segmenti del sistema di istruzione secondaria di primo e secondo grado, ma anche perché mira ad inserirli in un’unica cornice istituzionale, pur nelle distinzioni dei rispettivi ordinamenti. Il filo conduttore è nell’idea di orientamento che attraversa l’intero percorso delineato, quasi a farne una chiave di volta.
Se questa è, come sembra, l’operazione, è il caso di fare qualche riflessione di approfondimento.
Il testo, in più di un passaggio, parla di “orientamento educativo”: ebbene, partiamo da questa espressione, per sottrarla al rischio di usarla come una formula che da sé basti a dare senso (vorrei dire, “dignità pedagogica”) alle indicazioni date.

Per dire, anzitutto, che un percorso di orientamento è “educativo” se
* si discosta nettamente da ogni forma, esplicita o implicita, di addestramento al lavoro
* si propone di formare soggetti capaci di riconoscersi parte attiva delle proprie scelte di vita
* non adotta il punto di vista del mercato come luogo di incontro della domanda/offerta, sovrapponendo in ultima istanza le sue esigenze economiciste ai percorsi formalizzati di istruzione/formazione
*non restringe lo sguardo dei soggetti in crescita nei tempi e negli spazi angusti di una idea fuorviante di “prossimità”, del territorio e delle sue caratteristiche produttive

Se tutto questo è vero e plausibile, l’orientamento “educativo” attraversa allora l’intero sistema di istruzione/formazione, perché coincide con i processi di crescita in tutto l’arco della vita: senza precocismi e senza fughe in avanti. È la premessa pedagogica forte e irrinunciabile di ogni successiva opzione di vita. È l’antidoto a ogni interpretazione mercificante di interessi e attitudini; è la trama stessa della conoscenza, che nella sua piena accezione investe, come si sa, dimensioni relazionali, affettive, cognitive.
Suggerisco a chi fosse interessato di svolgere una ricognizione sul tema con uno sguardo alle sue matrici nel tempo, per evitare di prendere per buona ogni ricerca di “novità” fine a sé stessa. E di andarsi a rileggere, in questa prospettiva, le pagine illuminanti dei Programmi della Scuola media (D.M. 9 febbraio 1979). Qui si trova, a mio parere, esemplarmente riportato un impianto pedagogico ricco di implicazioni per il discorso che in questa sede mi interessa. Si vedrà agevolmente che la Scuola media (secondaria di Primo grado) è orientativa perché IN SÉ STESSA ORIENTANTE: cosa altro vuol dire, se non questo, l’espressione “scuola che colloca nel mondo”? Ne discende che la trama disciplinare concorre a promuovere “conoscenza di sé e del mondo”: due movimenti interconnessi di un unico processo. E che ogni disciplina, correttamente intesa, è un “modo” della realtà che essa racconta, nella specificità della sua “grammatica epistemologica”, del suo linguaggio e del suo metodo. Un’impostazione originaria che le Indicazioni nazionali del Primo Ciclo nelle diverse edizioni (2007, 2012 e 2018) hanno ulteriormente declinato, ma non superato né tantomeno resa obsoleta.
Devo confessare che, pur nell’attenta lettura del decreto ministeriale, non ho trovato traccia articolata di questa idea di orientamento qui in sintesi richiamata: la dimensione “educativa” resta un’evocazione senza radici culturali e pedagogiche, un mero artificio retorico. Di qui, duole dirlo, un travisamento che si ripercuote sull’intero disegno, coinvolgendo anche le declinazioni riguardanti la scuola secondaria di secondo grado. Qui si dà luogo, a me sembra, ad una vera e propria “commedia degli errori”, in cui gli aspetti meramente “informativi” dell’orientamento fanno agio su quelli propriamente formativi, in un frequente salto di dimensioni, in una confusione disfunzionale di obiettivi e metodi di approccio.
Il tutto condito da un’enfasi degli aspetti gestionali e dei risvolti organizzativi, spesso molto dettagliati, che non riesce a nascondere, semmai fa risaltare, la pochezza dell’approccio culturale e l’insufficienza della consapevolezza dei problemi affrontati.
No, cari signori del ministero soi-disant del merito, non ci siamo… Si raccomanda una rilettura dei “fondamentali”, un paziente lavoro di ripensamento, senza nostalgie certo ma senza nuovismi. L’orientamento è un tema strategico per il sistema di istruzione, solo se parliamo davvero di educazione e non di un restyling intrapreso su mandato, neanche tanto surrettizio, del sistema produttivo.




Elena Gianini Belotti: la sua vicenda intellettuale, il suo lascito

di Simonetta Fasoli

La recente scomparsa di Elena Gianini Belotti, dopo una lunga e intensa vita, ha comprensibilmente riacceso l’interesse per la sua opera e i frutti che ha disseminato: come dimostrano i tanti commenti che si sono subito avvicendati anche sui social. Emerge, nel ripercorrerne i passaggi, un ritratto ricco di sfaccettature e di “digressioni” che conservano comunque una profonda unità e coerenza di ispirazione. A cominciare dalla sua prolungata esperienza nel Centro Nascita Montessori, che diresse dal 1960 al 1980. Lo possiamo considerare un inizio significativo di cui, in qualche modo, recano tracce le diverse sue opere, che hanno spaziato dalla saggistica, alla narrativa, alla ricerca storica condotta con originalità di approccio.
E’ noto il suo esordio presso il pubblico più vasto, con il saggio Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita (1973). Un notevole successo editoriale, che evidentemente intercettava e portava a una sistematizzazione tematiche e problemi di quegli Anni Settanta che sarebbero stati segnati da un fervore intellettuale diffuso, anche nel campo dell’educazione e della riflessione di genere. Come indica con mirabile sintesi il sottotitolo del libro, si trattava di “sbanalizzare l’ovvio” dei modelli (femminili ma anche maschili) cui era ispirata l’educazione tradizionale, mostrandone la matrice culturale e mettendo in discussione ogni concezione “naturalistica”. Questo sullo sfondo di una riflessione sulla funzione decisiva dei primi anni di vita, che aveva certamente illustri precedenti ma che, nel caso di Gianini, si innesta sulla preziosa esperienza del Centro Nascita, a sottrarre alle sue posizioni qualsiasi rischio di ricostruzione puramente accademica. Con ciò si spiega, anche, l’impatto duraturo che il testo ha avuto sulle diverse generazioni di insegnanti, educatori/educatrici, genitori.
Seguono opere che ancora oggi possono stupire per acutezza di analisi e per attualità di prospettive, come (per citarne alcune) Prima le donne i i bambini e Non di sola madre, che è posteriore di dieci anni alla prima e più conosciuta opera. In tutte emerge e viene variamente articolata la sua appassionata e documentata ricerca sui modi e le categorie di interpretazione volti a de-costruire ogni “mistica” sul femminile e la maternità, giustamente individuata come veicolo di un potere patriarcale mai rassegnato alla propria progressiva irrilevanza: un potere di cui, si badi bene, sono vittime anche i maschi, tanto più in quanto lo esercitano secondo un determinismo culturale che non lascia margini a esperienze e a processi di individuazione.

La creatività, del resto, sembra attraversare il percorso intellettuale di Elena Gianini Belotti, che è rigoroso e inquieto al tempo stesso, come in un “romanzo di formazione” di cui si intravede solo alla fine un disegno compiuto. Eccola dunque cimentarsi con la narrativa (spicca, tra tutti, il suo Il fiore dell’ibisco, 1985, forse il più riuscito tra altri pure notevoli) e con quel genere tra saggio e racconto di cui è esempio Prima della quiete. Storia di Italia Donati, 2003. Mi preme soffermarmi brevemente su questo testo, che mi sembra interpellarci particolarmente come educatori/educatrici e persone di scuola. Gianini racconta la storia tragica della maestra toscana Italia Donati (che si suicidò nel 1886, a soli ventitré anni, a seguito delle infamanti dicerie di cui era stata oggetto circa la sua condotta privata) con lo scrupolo dell’indagine storica e l’approccio empatico verso una vicenda in cui vede rappresentata emblematicamente la condizione delle donne. In questo caso, il pregiudizio sociale che gravava sui maestri (in generale visti con ostilità da un contesto che li identificava con lo Stato opprimente e intenzionato a sottrarre “braccia da lavoro”, avviando i bambini e le bambine all’istruzione elementare) viene moltiplicato dall’azione degli stereotipi di genere, particolarmente accaniti contro le donne.
Un’opera coraggiosa, dunque, questa appena richiamata di Elena Gianini Belotti. In essa mi sembrano fondersi le molteplici facce di un’intellettuale, scrittrice e pedagogista, per niente pacificata e pacificante, pur nel rigore del suo impegno, stemperato in una lunga vita, che ha attraversato come un fiume carsico diverse generazioni e fasi storiche del nostro Paese. E’ tempo, credo, di farla riemergere in piena luce: non per limitarci a celebrarla, ma per esplorare ancora il suo pensiero e farne un lascito fecondo, di cui c’è più che mai bisogno.




L’articolo 34 della Costituzione: una cornice imprescindibile per parlare di merito

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Simonetta Fasoli

Ogni discussione sul merito, comunque la si argomenti, deve fare i conti con l’articolo 34, che va letto come un unico e coerente disegno politico-istituzionale.
Il comma 1 inserisce il concetto dentro l’ambito dell’universalismo dei diritti (quel “tutti” è perentorio, tanto che va oltre il perimetro stesso della cittadinanza come requisito giuridico-formale).
Il comma 2 traduce l’universalità del diritto, determinandone la portata e i termini attuativi fin dentro gli ordinamenti del sistema di istruzione e educazione.
Il comma 3 ne fa un criterio ordinatore di contrasto alle diseguaglianze socioeconomiche matrici di iniquità sociale (quel “anche se privi di mezzi”).

L’insieme del contesto, dunque, vieta ogni deriva meritocratica al concetto di merito.

Per “meritocrazia” intendo l’uso strumentale del “merito” per stabilire o consolidare gerarchie sociali e di potere, che riportano la dinamica sociale dentro l’orizzonte di una società elitaria: basata sul censo, sul privilegio della nascita, sulla cultura che da “bene comune” si trasforma in fattore di discriminazione e in patrimonio da tramandare nel perimetro escludente della stessa classe sociale.
Se tutto questo è vero, e se una ri-contestualizzazione del dettato costituzionale è possibile, o addirittura auspicabile, ne farei discendere i seguenti corollari.
1) tutti sono “meritevoli”: di attenzione, riconoscimento, supporto attivo nei percorsi di crescita e di educazione.
2) nessuno de-merita, nel senso suindicato.
3) de-merita, invece, il sistema educativo di istruzione e formazione che, preordinato per mandato costituzionale al compito di attenzione, riconoscimento, supporto attivo, viene meno alla propria funzione.

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Sul “docente esperto”: per una necessaria ricognizione della professionalità

di Simonetta Fasoli

La questione del “docente esperto”, aperta dai provvedimenti appena disposti, ha comprensibilmente suscitato una serie di reazioni, a partire da quelle degli organismi di rappresentanza sindacale. Il tema è delicato e tocca, per così dire, “nervi scoperti” e annose diatribe.
Forse vale la pena rispondere alla frettolosa (e a mio parere abborracciata) soluzione governativa con una più ponderata riconsiderazione dei temi sottesi alla problematica. Solo così, a mio avviso , possiamo sottrarci al clima da derby che sembra profilarsi, e che non aiuta a fare qualche serio passo in avanti.
Il dispositivo di legge ha, mi pare, il limite di fondo nella stessa cornice di emergenza da cui è scaturito. Ne è nata una configurazione parziale, in cui si parla di “docente esperto” come mero prodotto di un non meglio precisato percorso di “formazione” spalmato in un lungo arco di tempo, senza un esplicito riferimento alle dimensioni professionali della docenza in quanto tale. Questa scotomizzazione di partenza ha reso a mio parere arbitraria e in-fondata l’intera operazione.

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Per cominciare, riporterei la questione nell’alveo nell’interezza che le appartiene. Parliamo allora di “articolazione delle funzioni” all’interno della professionalità docente, che è composita in sé stessa, multidimensionale. Se questa caratteristica strutturale diventa via di accesso ad una forma di gerarchizzazione (sancita infine dal trattamento economico fortemente differenziato e dalla platea dei “pochi” cui esso è programmaticamente destinato) si determina una torsione concettuale (e giuridica) dello stesso profilo.
Si sta immaginando una “comunità di pratiche” ispirata alla specializzazione dei “ruoli”, che diventano “figure” e non “funzioni” dello stesso profilo? Se questo è il modello di funzionamento, penso sia opportuno mostrarne le incongruenze, gli effetti negativi proprio sulla qualità dei processi di insegnamento-apprendimento che si dice di voler meglio assicurare.
Per esempio: la competenza progettuale non può essere delegata a un “esperto”, in quanto è parte integrante della prestazione didattica, che, se avulsa da essa, sarebbe attività meramente esecutiva. Così anche una didattica che, in quanto progettualità, ignori le implicazioni gestionali e organizzative è privata del suo corollario che è il criterio di fattibilità, rischiando di restare (come non di rado succede) una nobile ma inerte dichiarazione di intenti.
Diverso è il ragionamento se si considera la necessaria funzione di coordinamento, che un sistema complesso qual è l’istituzione scolastica richiede. Le “funzioni strumentali” (eredi delle “funzioni obiettivo”) sono un esempio largamente sperimentato di questo modello di funzionamento. Si tratta di istituti ancorati alla pianificazione educativo-didattica, dunque coerenti con le scelte collegiali e non correlati (come sembra adombrare la norma in questione) ad un “cursus honorum” de-contestualizzato, perseguito individualisticamente.
Partiamo da qui: da un ripensamento e, se necessario, da una rinnovata declinazione delle dimensioni che articolano la professionalità docente; tenendo ferma l’istanza di “tenerle insieme” nello stesso profilo, in concreto nella stessa persona, in netta controtendenza rispetto a ogni forma di “divisione del lavoro” che richiama concezioni tayloristiche decisamente superate.
Ragioniamo, infine, sulle funzioni di coordinamento, sostenendo la capacità delle istituzioni scolastiche, nell’esercizio responsabile della collegialità e nella cooperazione di tutte le componenti, di individuare i nodi della rete progettuale/organizzativa che connotano il sistema-scuola, affinché siano presidiati. Non vedrei male in questo caso un avvicendamento, regolato da criteri espliciti e trasparenti definiti dall’istituzione autonoma, nell’assumere tali funzioni di coordinamento: questo non per omaggio ad un principio astratto di democraticismo, ma perché ritengo che ogni docente dovrebbe farne concreta esperienza (diventarne “esperto”…) per maturare quella visione complessiva del sistema che è troppo spesso carente e delegata a pochi.