Allarme rosso per infanzia e adolescenza

Per gentile concessione dell’autore e della Associazione Proteo Fare Sapere dal lui presieduta pubblichiamo uno stralcio di una più ampia riflessione disponibile nel sito della associazione stessa.

di Dario Missaglia

I medici, soprattutto coloro che si dedicano alla cura dell’infanzia e dell’adolescenza, la chiamano “pandemia secondaria”.

Il concetto indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia.

“Secondaria” dunque, non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani, ma perché conseguenza  meno tangibile, visibile e quantificabile di quella primaria che ogni giorno invade le comunicazioni ufficiali. Una pandemia che sembra sfuggire la cronaca, forse per il significato anche politicamente “eversivo” che essa contiene. A differenza infatti della pandemia primaria, la secondaria non si sconfigge soltanto con il vaccino o i farmaci ma con scelte politiche, sociali ed educative che non vediamo all’ordine del giorno del governo.

Basta scorrere i siti dedicati delle diverse associazioni, per rendersi conto che il livello di allarme è oramai altissimo e stridente con la realtà dichiarata. Perché, mentre grazie a una campagna vaccinale che si è fatta sempre più intensiva, sono diminuiti  i decessi, anche se crescono i contagi, sulla pandemia secondaria cala il silenzio delle fonti ufficiali. Ma la consapevolezza del fenomeno c’è perché oramai  innegabile. Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (la nostra rubrica “Europanews” ne offre ampia documentazione), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Solo per citare una fonte autorevole e istituzionale, l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, nel maggio scorso ha pubblicato il  rapporto su “Covid19 e adolescenza” in cui documenta ampiamente il processo di aggravamento delle condizioni dell’adolescenza: insonnia, abuso di alcool e medicinali, chiusura in se stessi, cyberbullismo, scatti violenti, crisi del rapporto genitoriale, stati d’ansia e depressione, episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio.

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Il ritorno (professionale) a scuola

ripresa_scuoladi Dario Missaglia
presidente nazionale Proteo

Francamente non riesco a pensare a un “ritorno”. C’è un profonda inquietudine che mi resta addosso. Non è solo l’angoscia della morte e del dolore che abbiamo tutti sentito.

Abbiamo visto medici ed infermieri pagare un prezzo altissimo al loro senso del dovere, a un rapporto con il lavoro che resta un mistero se non si coglie il fatto che al centro di ogni loro azione, i medici hanno messo le persone che avevano di fronte, le loro storie, la paura che segnava i loro volti, la fiducia in quelle mani , le uniche alle quali affidavano la speranza di vita. E abbiamo sentito, acuta, la disperante cecità di un sistema del profitto e della convenienza, che in questi anni ha chiuso strutture pubbliche e ridotto i posti letto, ha finanziato una sanità privata per una salute a pagamento, ha decimato gli organici dei medici, ha annullato quella ricerca scientifica di base che è la vera ricchezza per il futuro e che avrebbe potuto forse dirci qualcosa anche di questa pandemia. E l’Autorità sanitaria tace.

Ma la stessa Autorità parla eccome, con le regole che hanno segnato la vita di questi due mesi: distanziamento sociale : concetto inquietante che rimanda a una idea di diffidenza, distanza, sospetto, isolamento, segregazione; marginalità dei più anziani e dei bambini. Diritti costituzionali sospesi. Certo, non per una congiura politica ma per una vera emergenza sanitaria. Ma è mancata la reiterata e quotidiana dichiarazione che di questo si trattava; che era una misura così grave da dichiararla subito transitoria nel momento stesso in cui la si affermava necessaria. Silenzi inquietanti. Quando il rispetto delle regole, imposte per necessità, rischia di produrre il conformismo sociale, si apre uno squarcio pericoloso nel civismo e nel profondo della democrazia. E questo è certamente accaduto. Anche nell’epoca del coronavirus l’obbedienza non è una virtù.

E poi l’Autorità sanitaria si è resa responsabile di troppi silenzi. E’ scomparsa drammaticamente l’infanzia; non una parola, un pensiero, un supporto, anche a distanza, a milioni di famiglie che si sono viste costrette a condizioni impensabili; i più deboli hanno pagato un prezzo altissimo, di disagio, tensioni, difficoltà economiche e di relazione. Hanno percepito l’aggravarsi delle loro condizioni e l’acutezza delle diseguaglianze in crescita. Non una parola ai bambini che hanno respirato ansie, paure angosce, perdite e separazioni affettive. Non un parola sulla scuola che chiude le porte agli studenti; c’è voluta la sensibilità del Presidente Mattarella, infine, a ricordare al Paese che era stato sospeso non un servizio sociale, non una importante infrastruttura ma il luogo in cui ogni giorno le generazioni si incontrano e costruiscono il futuro del Paese: la struttura più terapeutica del Paese, potremmo dire.

E c’è voluto l’impegno, la creatività e l’entusiasmo di tanti docenti a far vivere la nostalgia della relazione, del contatto, della vicinanza, senza le quali non può esistere la relazione tra chi insegna e chi apprende. Come si fa a non cogliere questa centralità e perdersi nella vacua pubblicità ministeriale , con annessa polemica di ritorno, della glorificazione della dad?

Non voglio dare letture forzatamente politiche e neppure contestare le misure sanitarie specifiche che il coronavirus ha imposto. Mi colpisce l’assenza di qualsiasi sfumatura psicologica e pedagogica della comunicazione sanitaria, la lettura medico/meccanicistica della pandemia e dei processi che ha innescato Quella stessa medicalizzazione che avevamo già osservato in altri ambiti in cui il difetto, il limite, la diseguaglianza è malattia , svantaggio, handicap. La diseguaglianza come malattia è decisamente più tranquillizzante della diseguaglianza come esito delle responsabilità politiche. La riduzione a malattia virale della pandemia è stata il lasciapassare per la emanazione di regole e vincoli cui obbedire passivamente, senza mai neppure aprire timidamente a una riflessione più ampia sulle condizioni della sanità del nostro Paese e sui modelli di vita e di economia che segnano la storia delle malattie. Renzo Canestrari, nelle sue indimenticabili lezioni agli studenti di medicina e chirurgia dell’Università di Bologna nel 1975, scriveva “ ..l’uomo e la sua malattia possono essere compresi solo parzialmente da una impostazione di studio carattere meccanicistico;…la scuola medica ha considerato l’uomo come un genere particolare dei mammiferi superiori”. In sostanza, l’approccio meccanicistico alla pandemia, ha trasformato tutti noi in oggetti, non soggetti di una tragedia dalle mille sfaccettature psicologiche e sociali. Ecco perché, di fronte al “ritorno” dobbiamo fuggire da ogni rischio di meccanicismo e subalternità a dettami indiscutibili delle autorità sanitarie. Dobbiamo essere capaci di “condizionamento educativo” nel dibattito dei prossimi mesi , essere soggetti attivi del ritorno e non riceventi passivi.

Basterebbero questi pensieri per dire che di fronte a noi non c’è un ritorno, non c’è quanto ben riassumeva la indimenticabile battuta di Enzo Tortora, dopo indicibili sofferenze: “ dunque, dove eravamo rimasti?”.

Dobbiamo pensare a quanto è accaduto in profondità in questi due mesi nella società, nella vita delle persone, nelle relazioni sociali, nell’ambiente; dobbiamo chiederci come ricominciare, quale modello di sviluppo e di lavoro dobbiamo progettare perché siano le persone, la loro vita in sicurezza, la libertà e i diritti fondamentali al centro delle politiche. I docenti devono raccontare e raccontarsi su cosa è successo quando improvvisamente si è interrotta la loro relazione educativa, quando hanno preso telefono o pc per avere un contatto con i loro studenti, far sentire loro di esserci, del bisogno di non perdersi, di mantenere un filo. Cosa hanno percepito dal contatto con i loro studenti? Come immaginano di ritrovarli quando finalmente ci si potrà di nuovo incontrare a scuola: di quali ansie, paure sarà utile parlarne tutti insieme, quale sarà il modo non solo più sicuro ma anche più caldo, accogliente, per sedersi, posizionarsi in gruppo? Come riprendere l’attività didattica? Potremo approfondire e conoscere di più, anche in altre parti del mondo, questo fenomeno della pandemia? Torneremo a fare didattica delle discipline o attraverso le discipline ad approfondire i grandi problemi della vita e della storia del pianeta? Cercheremo di capire tutto questo anche attraverso il contributo che potrà fornirci il questionario che, insieme a Flc, nei prossimi giorni diffonderemo in un certo numero di istituti.

E poi, perché già questo si preannuncia, se dovessimo fare i conti con una parte di attività “ distanza”, come organizzare l’offerta didattica? Che cosa abbiamo imparato in questi due mesi di apprendistato volontario e spontaneo? Di che cosa ci dobbiamo liberare e che cosa invece merita di essere preservato e coltivato? Con quali strumenti? Come rispondere alla domanda di chi non ha mezzi, strumenti, connessioni, spazi, genitori disponibili? Orari differenziati? Luoghi e spazi sicuri anche fuori dalla scuola? Un supporto ben fatto utilizzando anche nei locali scolastici la teledidattica su cui sono in corso ingenti investimenti da parte del Ministero? E come rispondere a chi non deve riprovare la distanza, pena ulteriori sofferenze, penso ai più deboli, ai nostri alunni con disabilità? Per tutti loro deve valere il detto di Don Milani “non c’è nulla di più ingiusto che dividere in parti eguali ciò che è diseguale”. Dovremo lavorare con classi ridotte di numero o con laboratori dove transitano piccoli gruppi di alunni? Risposte da cercare.

Non parlo delle risposte politico/sindacali a queste domande; risposte che restano certamente fondamentali. Penso all’urgenza di un protocollo nazionale per la sicurezza di tutti i luoghi dell’educazione, istruzione, formazione e ricerca; penso, come ha sottolineato di recente Gennaro Lopez, a un battaglia perché le spese per scuola, università e ricerca, indispensabili per potenziare gli organici e la formazione, siano considerate spese per investimenti; penso a un piano di interventi leggeri ma urgenti di edilizia scolastica. Tutte queste sono conquiste da acquisire. Priorità indiscutibili.

Di pari passo quelle domande attendono anche risposte di natura professionale , quelle che non possiamo chiedere ad altri se non a coloro che nella scuola e per la scuola operano con la consapevolezza che dobbiamo rileggere questa dura esperienza per innovare in profondità contenuti, metodologie e organizzazione del lavoro.

Risposte da ricercare scuola per scuola, discutendo insieme, docenti e personale della scuola, studenti, genitori, le risorse vive del territorio. Il nuovo spazio dell’autonomia inizia da questa nuova pagina da scrivere insieme. Alla ricerca di queste risposte dedicheremo, con i mezzi a nostra disposizione e con la collaborazione di quanti condividono la nostra passione civile e politica, il nostro impegno .

 

 




Un’altra pagina. La scuola dopo il Covid19

arcobalenodi Dario Missaglia
presidente nazionale Proteo  

  1. La scuola in movimento

Il movimento esploso nelle scuole in questo periodo di forzato dominio del distanziamento sociale, rappresenta un fatto imprevisto e di grande interesse.

Un movimento in evoluzione, ancora da decifrare in tutti i suoi aspetti, in cui abbiamo colto spontaneismo, improvvisazione, apprendimento sul campo, cooperazione a distanza. Sono emersi visibili alcuni errori ( spesso troppi compiti assegnati, talvolta poco coordinamento degli interventi, ecc) ma il valore umano, pedagogico e sociale di questa onda lunga è stato significativo ed è entrato nelle famiglie alle prese con una chiusura forzata delle proprie relazioni e una gestione molto complicata della giornata dei propri figli. Un soffio di fiducia. Quei bambini e adolescenti in una condizione di costrizione difficile per tutti ma per loro certamente sofferta oltre misura, hanno avvertito che fuori dalle mura domestiche c’erano degli adulti che si interessavano di loro, della loro giornata; che cercavano, ben sapendo che nulla di virtuale può sostituire la ricchezza e le emozioni di un luogo chiamato scuola/classe, di dare un senso, anche una finalità di cultura ed istruzione a queste giornate così difficili.
E’ un movimento di persone che hanno avvertito una responsabilità deontologica di fronte al proprio lavoro e alla società . Non ci eravamo forse più abituati: ma non è questo il senso più significativo dell’impegno politico? Il civismo che avevamo visto sepolto sotto la coltre della virulenta narrazione della destra al potere, è riemerso offrendoci finalmente nel mondo della scuola, una testimonianza limpida e partecipata. La   vocazione democratica come desiderio fatto testimonianza concreta, di ricostruire legami sociali di solidarietà e impegno verso le nuove generazioni, è riemersa.

La scuola riprende una sua funzione politica, civile, sociale e lo fa in una delle condizioni più difficili e drammatiche della nostra storia del secondo novecento: trovo tutto questo sorprendente e promettente. Una leva per riaprire un ciclo nuovo della politica, della iniziativa nella scuola e non solo . E’ il messaggio, da me condiviso, che ho letto nel “Manifesto” sulla scuola proposto dalla Flc-cgil e dal suo segretario generale, Francesco Sinopoli.

  1. Insegnamento e didattica a distanza

Non di meno, quel processo va sottoposto ad attenta riflessione: per “conservare”, come scriveva H.Arendt, e per pensare il futuro, come è nel dna dell’educare. Comprendere, in una discussione a tante voci, i punti forti e i punti deboli di questa inedita esperienza.

Non vi è dubbio innanzitutto che il frequente ed inedito utilizzo delle nuove tecnologie e lo scenario dei prossimi mesi , stia aprendo nel mondo della scuola un dibattito su questi temi come mai era accaduto in precedenza . Del resto , una parte di docenti, considerata l’età anagrafica, è “immigrata” digitale e ha una conoscenza spesso non approfondita delle nuove tecniche e degli effetti di queste nella comunicazione educativa. Prevale pertanto una certa diffidenza che io stesso condivido, avendo osservato da vicino l’effetto deleterio di alcuni potenti mezzi: facebook in primis ma anche altre suggestioni tecnologiche. In questi anni le nuove tecnologie sono state forze potenti al servizio di un modello sociale che ha demolito le pratiche di cooperazione professionale, le relazioni sociali, i legami comunitari .R. Sennett ci ha lasciato pagine memorabili su questo e richiama tutti noi all’esigenza di attrezzare un pensiero critico forte, denso di quei nuovi valori scientifici ed umanistici auspicati da A.Sen e M.Nusbaumm per una nuova cultura della scuola , del lavoro, della società.

Il potere deleterio delle nuove tecnologie si scatena quando sono esse a dirigerci e non viceversa. Nell’insegnamento, sia ben chiaro, uno strumento, per quanto evoluto possa essere, non sostituirà mai la persona. Insegnare infatti è una attività molto delicata, complessa, basata sulla relazione diretta, fisica ed emotiva, con l’altro. Per questa ragione insegnare è sempre una attività contestualizzata ( non è la stessa cosa insegnare a piccoli o adolescenti, a bambini con disabilità, a cittadini extracomunitari, ad adulti, in una scuola di città o di campagna, del nord o del sud, ecc). Ho appreso questo concetto, da giovane maestro elementare, leggendo le pagine di un grande maestro di pedagogia e didattica, Alberto Alberti. Ed è proprio questa dimensione della contestualizzazione a non essere riproducibile da una macchina.

Da qui occorre partire per una riflessione pedagogica sulle nuove tecnologie e il loro impatto con la didattica in presenza, con la comunicazione, con il lavoro cooperativo. Toccherà in sostanza ai docenti, e solo a loro, decidere in che modo e forma ,una tecnologia possa essere utilizzata per concorrere a migliorare un percorso didattico e un modello organizzativo, definito e gestito in prima persona dai docenti e dalla loro cultura professionale. Ancora una volta nella storia, è il rapporto con la modernità che mette alla prova la capacità di chi insegna di padroneggiare i nuovi strumenti e non esserne vittima: è già accaduto con la carta stampata, con la televisione. Sono sfide da affrontare che forse avevamo lasciato un po’ sullo sfondo delle scadenze future ed invece la pandemia le ha violentemente attualizzate. Mai come oggi non possiamo negarci il fatto che l’innovazione tecnologica stia già cambiando in profondità lo scenario sul quale si svolge la vita, quella di tutti noi. I bambini sviluppano abilità sconosciute fin dai primi anni: i giovani hanno una consuetudine con le nuove tecnologie, straordinaria. Che cosa sta cambiando nel loro modo di apprendere? Possiamo noi pensare che obiettivi didattici, curricoli, repertori di conoscenza e abilità, restino gli stessi come se questa rivoluzione non stesse avvenendo?

Se rimuoviamo queste sfide, si entra in un altro territorio: quello della difesa, anche involontaria, della scuola e della didattica così com’è. Nulla di male se potessimo cantare le lodi della didattica corrente ma a chi ne volesse tessere le lodi, ricorderei il monito di Tullio De Mauro che vedeva nel triangolo che lui definiva “perdente”, le ragioni dei tanti insuccessi educativi: la lezione, l’interrogazione, il tema. La scuola di classe che è sopravvissuta al ‘68 malgrado i nostri sogni, è la scuola in cui trionfa ancora l’uso esclusivo della parola ( un solo e selettivo linguaggio), la comunicazione unidirezionale-autoritaria ( la lezione), il componimento scritto tradizionale ( con il suo carico di conformismo indotto). E’ la scuola degli irriducibili gentiliani di sempre; loro sono certamente in grado di essere conservatori anche a distanza e con gli effetti speciali delle nuove tecnologie.

Possiamo dunque essere cauti e riflessivi sulle nuove tecnologie come opportunità didattica, non dobbiamo essere per nulla cauti nel dire che resta aperto il tema di una nuova professionalità docente , di un rinnovamento profondo delle didattiche e dei modelli organizzativi nelle scuole. L’emergenza del coronavirus ci consegna la necessità di riprendere con forza il cammino interrotto di una nuova cultura dell’autonomia da costruire nel mondo della scuola. Siamo di fronte a una sfida culturale e politica, non tecnica. Se e quanto le nuove tecnologie potranno concorrere al raggiungimento di questo obiettivo è questione di sicuro interesse ed importanza, ma secondaria.

  1. Per una nuova cultura della vicinanza

Nei prossimi mesi questo Paese sarà chiamato a fare i conti con una crisi economica e sociale dalle proporzioni immani .Nessuno si faccia ingannare dalla quiete apparente delle abitazioni, delle aziende, delle fabbriche, degli uffici chiusi. E’ un silenzio greve, pesante, foriero purtroppo di ciò che accadrà perché l’impatto economico con la crisi sarà drammatico. Tutto ciò che si muoverà nella società entrerà nelle scuole e nelle università. Dovranno essere luoghi di elaborazione di lutti e dolori, di paure ed angosce, di ricostruzione della socialità e della collaborazione, di costruzione di una memoria condivisa dei mesi che ci lasceremo alle spalle e di nuovi percorsi di istruzione di cui hanno diritto i nostri giovani, di fiducia nello stare insieme e qualche idea forte per ricominciare una nuova fase della società. Non sarà semplice.

In questi anni le nuove tecnologie ci avevano persuaso sul superamento delle distanze o almeno questo era il volto con cui tendevano a presentarsi : la “globalizzazione”. In questo annullamento delle distanze finivano per perdere significato i nostri spazi vicini di vita ( le comunità, i partiti, le grandi strutture pubbliche, i luoghi e i soggetti della intermediazione sociale, ecc) con le conseguenze che abbiamo visto con i nostri occhi: l’erosione dei legami sociali, la precarietà come condizione esistenziale e non solo lavorativa, la diffusione di un individualismo profondo, la regressione della cultura e l’avanzare di sottoculture dense di stereotipi e rancore. La comunicazione ha sostituito l’empatia, l’enfasi sulla sacralità delle nuove tecnologie ha disseminato l’illusione di soluzioni facili e veloci per qualsiasi problema trascinando con sé una buona dose di deresponsabilizzazione collettiva. La globalizzazione ha cancellato la vicinanza.

L’uso delle nuove tecnologie sta determinando modifiche profonde anche nei processi produttivi. Il possesso delle informazioni, delle nuove competenze, ha disegnato rischi di nuove marginalità , gerarchie, dipendenze, precarietà ma anche di nuove opportunità. Il diritto alla conoscenza nel mondo del lavoro è diventato così non solo questione di garanzia di occupabilità ma anche di “potere” nella organizzazione del lavoro, di autonomia del lavoratore, di una nuova relazione con il proprio lavoro e gli esiti del lavoro. Una nuova sfida per il sindacato. Nei mesi che verranno anche il lavoro , nelle sue diverse forme concrete, non sarà più lo stesso e sarà il fattore decisivo per la rinascita del Paese.

La distanza imposta dalla pandemia è oggi quella anomala dimensione concreta che ci priva dell’incontro, della relazione, del contatto, Ed è per questo che i luoghi della vicinanza riscoprono il valore della loro insostituibilità; perché sono i luoghi delle relazioni, degli affetti, dei sentimenti, delle nostre azioni possibili, del lavoro concreto. Dopo questa tragedia, i luoghi della vicinanza non saranno più gli stessi e non saranno più le stesse le persone che hanno provato la privazione, la durezza della distanza e che hanno tentato di utilizzare nuovi strumenti e tecniche per neutralizzare gli effetti più deleteri della distanza.

Anche per la scuola si stanno creando forse le condizioni per superare una fase in cui è stato pagato il prezzo di una perdita evidente di valore sociale. Ora, a fronte della privazione forzata della socialità e delle dinamiche profonde che questa emergenza sta diffondendo, si intravvedono i segni di una possibile nuova cultura della vicinanza; di un ribaltamento possibile dei valori e dei modelli di vita, di sviluppo, di lavoro, che hanno segnato questi ultimi decenni . Una nuova cultura della vicinanza è il nuovo possibile approccio alla ricostruzione, culturale e pedagogica, del rapporto tra scuola e territorio. La nostalgia della scuola come fatto “fisico” è la rappresentazione di un sentimento che coglie una verità profonda: l’apprendimento è un fatto sociale e non può vivere senza una dimensione di socialità aperta, sicura, strutturata, La scuola come spazio pubblico insostituibile nella più ampia comunità del territorio.

La spinta verso la vicinanza ridà senso agli spazi perduti e ci spinge a un profondo ripensamento dell’assetto della nostra società : per questo abbiamo bisogno di una nuova cultura politica e di una nuova visione educativa Superare l’emergenza non per tornare al passato ma per scrivere un’altra pagina.

Ridare senso ai legami di prossimità, perché anche il welfare, quello che noi vogliamo, non richiede solo finanziamenti ma soprattutto persone capaci di solidarietà tra diversi. Uno spazio immenso per un sindacato generale e per chi crede che la scuola non sia solo adempimento, voti e direttive ministeriali ma un nuovo sorprendente cantiere sociale. Per questo avremo più che mai bisogno di un sindacato dei diritti, della solidarietà e dell’etica della responsabilità. Decisive, ancora una volta, saranno le persone, le loro scelte, il loro impegno nella società. Anche sapendo utilizzare, con la necessaria consapevolezza ,i migliori mezzi tecnologici a disposizione.