Maleducazione sentimentale

di Maurizio Parodi

Rispetto alla richiesta di un maggiore coinvolgimento delle scuole nella formazione anche “emotiva” di studentesse e studenti, molti dirigenti e docenti replicano, sovente indignati, che:
a) la scuola sta già facendo tutto ciò che si può fare, come del resto ha sempre fatto;
b) non spetta alla scuola occuparsi di problemi che non riguardino la didattica;
c) tocca alle famiglia educare i figli;
d) la scuola non può farsi carico di ogni, nuova emergenza sociale.

Trovo penosamente ridicolo ipotizzare l’introduzione di una nuova materia di studio da dedicare all’intelligenza emozionale, con l’inevitabile corollario burodidattico: più lezioni, più compiti, più verifiche…, e concordo pienamente sull’ultimo punto: basta sovraccaricare la scuola e gli studenti di “compiti” impropri.
Sono però convinto che la formazione integrale della persona rientri, invece, nei “compiti” propri della scuola, e non sono certo che a scuola sia sempre e da sempre dedicata la giusta attenzione alla persona, nella sua interezza – basterebbe chiedere agli studenti di un qualsiasi istituto quali siano i “sentimenti” che associa alla scuola e allo studio.

Quanto alla maggiore responsabilità delle famiglie in ordine alla maleducazione sentimentale degli studenti, va detto che non si può presumere o pretendere alcunché, dal momento che le scuole non possono scegliersi né gli studenti né le loro famiglie (e già sulla nozione di “famiglia” ci si dovrebbe interrogare), anche se è capito persino che un liceo vantasse l’assenza, tra gli studenti, di incresciose “diversità.

I genitori non devono possedere un titolo di studio per essere tali, non sono reclutati e retribuiti da un’istituzione pubblica, statale, pertanto può darsi “di tutto e di più” oppure il nulla: l’invadenza vs la latitanza, anche quando ci si impegni, doverosamente, per favorire la più ampia collaborazione – che non significa delegare alla famiglia i propri doveri didattico-educativi o invadere spazi di autonomia non sempre rispettati (talvolta, capita che si faccia l’una e l’altra cosa insieme).
Sono i professionisti dell’istruzione e dell’educazione che devono essere preparati, che devono impegnarsi anche per compensare, nei limiti del possibile, le carenze delle famiglie, soprattutto le più disastrate, o, quanto meno, non aggravare i danni già subiti proprio negli ambienti, anche domestici, dai quali provengano.
A ciascuno il suo!

 




Dalla parte delle bambine, un libro che ha sconvolto il mio modo di pensare e di essere

di Maurizio Parodi

“Le radici della nostra individualità ci sfuggono; altri le hanno coltivate per noi, a nostra insaputa”

Dalla parte delle bambine è il libro che più di ogni altro ha sconvolto il mio modo di pensare e di essere.
Prima di incontrare, giovanissimo, Elena Gianini Belotti, credevo in una complementarità dei sessi, perciò dei ruoli anche sociali, di matrice cattolica, invero profondamente discriminante, giacché basata su stereotipi psicologici dei quali, a torto, si rivendicava la natura deterministicamente biologica.
Equivoco, ancora oggi alimentato da ideologie e da politiche subdole giacché in apparenza benevole, paternalistiche, ma nel profondo regressive e violente, dissolto dalla scoperta di come le differenze tra maschio e femmina siano per molta parte frutto di condizionamenti culturali che l’individuo subisce ancor prima di nascere e nel corso del suo sviluppo.
Forse una banalità per molti uomini e per molte donne che vivano in “occidente” ai giorni nostri, o forse no, visto che persino nei paesi formalmente più civili l'”uguaglianza” dei diritti, pur enfaticamente proclamata, è di fatto impedita dalla perdurante diseguaglianza delle reali opportunità, come dimostra, ancor prima della presenza femminile (ineguale) ai vertici delle stesse istituzioni politiche, la semplice distribuzione (ineguale) dell’impegno domestico, dai lavori di casa alla cura dei famigliari (laddove si può ben dire che il privato è politico).
Un rivelazione sconvolgente, appunto, per un giovane maschio degli anni settanta che ha segnato non solo la visione del mondo, l’impegno politico, bensì le relazioni tra pari, con le amiche e le compagne, anche di vita, così come i comportamenti quotidiani, le azioni solo apparentemente più prosaiche.
Una consapevolezza, attiva, vissuta anche sul piano professionale, in ambito pedagogico e didattico, sapendo che non si tratta di «formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene».
Grazie Elena: che la terra ti sia leggera!




Merito, demerito, rigore e capacità

di Maurizio Parodi

Il nuovo, altisonante e indeterminato appello al “merito” voluto dal Governo Meloni è da molti riferito esclusivamente, prevedibilmente all’impegno degli studenti, e ricondotto a una vigorosa “stretta” normativa.

Va detto che i richiami al “rigore” didattico non sono mai rivolti alla qualità dell’impostazione pedagogica o alla congruenza della struttura organizzativa; no,
il riferimento è a una scuola in cui il merito quasi sempre consiste nell’estrazione socio-culturale, che premia i “migliori”, avvantaggiati in partenza, e allontana i “peggiori”, gli inadatti, i più deboli.
La nostra scuola è fin troppo sbilanciata verso una logica della prestazione che, tra l’altro, tende a confondere il virtuosismo servile con la qualità degli apprendimenti.
Una scuola che non “promuove” l’esercizio e lo sviluppo delle diverse abilità, delle diverse intelligenze di cui ciascuno è variamente provvisto, ma solo alcune abilità, alcune modalità d’uso dell’intelletto (per giunta le meno elevate, quelle legate alla ripetizione, alla memorizzazione), “bocciando” le altre, che in taluni, fortunati casi la vita si riserva di riscattare – vi sono imprenditori, giornalisti, persino scrittori, filosofi e scienziati che hanno trascorsi scolastici non propriamente brillanti.

Il rapporto tutt’oggi esistente tra rendimento scolastico e ambiente d’origine, il fatto cioè che i “capaci e meritevoli” prosperino soprattutto nelle famiglie “attrezzate” culturalmente e affettivamente, conferma che la scuola non funziona più nemmeno come ascensore sociale.

Ma di fronte al dramma, sempre attuale, della dispersione scolastica, non si può indulgere ad atteggiamenti di fatalistica rassegnazione, quasi si trattasse di un fenomeno “naturale”, di un processo “fisiologico” (e non patologico), connaturato al sistema comunque sano. Non è decente pensare che i ragazzi lascino spontaneamente la scuola, che “demeritino” colpevolmente, e non ne siano invece allontanati, che la rifiutino deliberatamente, e non ne siano respinti; equivale a dire che la scuola è giusta e i ragazzi sono sbagliati, proprio come il sarto menzionato da Postman che, limitandosi a confezionare un solo tipo di pantalone, sosteneva fossero sbagliate le natiche del cliente quando il suo modello non calzava a dovere.

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Variazioni sul “tema”

di Maurizio Parodi

A scuola si scrivono soprattutto temi: il docente detta un breve testo nel quale sono riportati gli argomenti, e talvolta indicazioni o esplicite richieste di sviluppo, che gli alunni dovranno trattare, ognuno per conto proprio, in un tempo dato. Pratica diffusissima, prevalente anche nelle prove d’esame, così come in molti concorsi, ma non per questo meno irrazionale; un’inveterata abitudine (pseudo)didattica che non ha fondamento pedagogico alcuno, per la quale non è possibile rivendicare nemmeno una qualche legittimazione di natura istituzionale.

Già i Programmi della scuola elementare del 1985 erano, in proposito, molto chiari: la scuola deve offrire al bambino la possibilità e l’occasione di scrivere, deve cioè consentirgli di scoprire che la scrittura è utile, interessante, divertente persino; un’occupazione stimolante e piacevole, e non una preoccupazione più o meno assillante, l’esercizio di una facoltà portentosa e creativa, e non una esercitazione più o meno tediosa.
L’alunno deve essere sollecitato all’attività di scrittura in relazione alla gamma più ampia possibile di funzioni, senza ricorrere a pratiche riduttive che mortifichino le sue scelte linguistiche. È essenziale, comunque, che, fin dal primo anno della scuola elementare, si propongano stimoli e occasioni realmente motivanti il fanciullo a scrivere.

Non dissimili le Indicazioni nazionali per il primo ciclo del 2012.
In particolare, l’insegnante di italiano fornisce le indicazioni essenziali per la produzione di testi per lo studio (ad esempio schema, riassunto, esposizione di argomenti, relazione di attività e progetti svolti nelle varie discipline), funzionali (ad esempio istruzioni, questionari), narrativi, espositivi e argomentativi. Tali testi possono muovere da esperienze concrete, da conoscenze condivise, da scopi reali, evitando trattazioni generiche e luoghi comuni.

Ebbene, nonostante la chiarezza e l’apparente ovvietà delle indicazioni richiamate, duole constatare come in molte classi lo scrivere rappresenti soltanto un “obbligo scolastico” del quale il tema costituisce l’espressione più emblematica.
Sorprende la longevità di questa peculiare forma di scrittura. Il tema è il testo scolastico per antonomasia; nessuno sfugge a cotanta prova: le fortune e le disgrazie (non solo scolastiche) di moltissimi studenti sono affidate innanzitutto alla capacità di svolgere correttamente un tema. Di qui il precoce addestramento (i “pensierini”), coincidente, quasi sempre, con la semplice “esposizione” (all’errore).

Si pensi invece allo scarso impiego delle tecniche ideate e sperimentate da Célestin Freinet: il testo collettivo, la corrispondenza o il giornale; luoghi (laboratori) di costruzione, di affinamento e di socializzazione delle capacità espressive e comunicative degli “apprendisti scrittori”. Testi strutturalmente diversi che sollecitano abilità cognitive e metacognitive destinate, altrimenti, a sclerotizzarsi, accomunati dal riferimento a uno “sfondo”, a un “ambiente di apprendimento” significativo per l’alunno, impegnato non in “compiti” sterili e imponderabili, ma nella realizzazione di progetti necessitati da esigenze, bisogni e (finanche) desideri autenticamente condivisi. La lingua si concreta nei suoi diversi usi e nei suoi diversi scopi; e ogni scopo determina la forma del testo – non più lo scrivere in astratto, il “tema” generico, senza senso, oltre quello di produrre comunque qualche paginetta.

Forse la ragione dell’immarcescibile successo del tema è più di natura ideologica che tecnica, e risiede nel carattere simbolico dell’impegno. Non è mai stato dimostrato, infatti, che la mera ripetizione di questo esercizio e le correzioni episodiche, spesso lapidarie, talvolta sferzanti, annotate dal docente sugli elaborati, contribuiscano a migliorare la qualità della scrittura. Non si impara a scrivere collezionando freghi più o meno variopinti, annotazioni occasionali, valutazioni sommarie, voti: in questo modo, semmai, si impara a non scrivere, si mortifica la scrittura. Non aiutano a scrivere meglio le stesse note di plauso e le espressioni di apprezzamento di cui possono fregiarsi i più dotati, coloro che comunque scriverebbero in modo corretto e magari “personale”, che dalla ripetizione dell’esercizio (di acclarate capacità) non traggono giovamento alcuno, e tutt’al più manifestano, per mancanza di stimoli adeguati, un indebolimento della motivazione e dell’interesse (disinteressato) a scrivere.

È invece palese il carattere irriducibilmente individuale della prestazione richiesta. Ognuno scrive per proprio conto (non possiamo dire “per sé”, dal momento che esistono forme di scrittura, molto personali ma non meno pregevoli, che hanno per destinatario proprio chi scrive, come il diario o l’autobiografia, che sarebbe improprio associare a una scrittura di greve sapore burocratico), incurante, per dettato magistrale, dei compagni, pur impegnati, tutti, nel medesimo compito: guai a interessarsi all’altro; ogni forma di scambio e collaborazione è bandita. Né d’altra parte si può ragionevolmente presumere la disponibilità degli scolari in tal senso (anche se non di rado si verificano episodi di solidarietà clandestina, a dimostrare il forte impulso alla cooperazione naturalmente presente tra i pari), dato il contesto nel quale operano, improntato alla competizione, all’affermazione del singolo (“su” e non “con” gli altri).

Va poi evidenziato come il tema sia una tipica attività autoreferenziale perché la comunicazione è scarnificata, non ha ragion d’essere, si risolve in se stessa. Funziona solo nella e per la scuola. In essa lo studente aliena le proprie facoltà espressive, costretto a realizzare un prodotto il cui “valore d’uso”, inesistente, è sacrificato al “valore di scambio”: l’elaborato in cambio del voto, il solo valore istituzionalmente riconosciuto. Una sorta di mercificazione del pensiero, alla quale lo scolaro si dispone consapevole che tutto ciò che scrive (di “sbagliato”) potrà essere usato contro di lui; così vi attende non disdegnando espedienti anche deplorevoli, senza farsi scrupolo di ricorrere a meschini sotterfugi e squallidi imbrogli (legittimati dalla natura, appunto, estorsiva dell’operazione), praticati dagli stessi studenti divenuti ora insegnanti, perciò perseguiti con accanimento oppure blandamente tollerati, senza che ci si interroghi sulla miseria, innanzitutto pedagogica, di una scrittura mercenaria, sulla mortificazione, spesso definitiva, di una delle più eminenti attitudini umane.

Forse per queste ragioni, ancora oggi, lo svolgimento del tema è un rituale considerato irrinunciabile, un adempimento canonico universalmente invocato e prescritto… nonostante tutto; nonostante l’inammissibilità didattica del tema convenzionalmente inteso sia stata asserita con chiarezza nei Programmi dell’85, evidentemente inapplicati, come sempre avviene, quando la prescrizione contraddica pratiche inveterate e indiscutibili.
Dettare alla classe un argomento quale spunto per alunni a svolgere la loro composizione scritta non è pratica didattica accettabile se, preventivamente, non ci si sarà adoperati a far convergere su quell’argomento l’interesse degli alunni medesimi, provocando l’emergere di una non artificiosa motivazione del fanciullo a comunicare per iscritto gli stati d’animo, le osservazioni, le riflessioni, i giudizi che egli è venuto maturando.

La circostanza, ritenuta da molti (docenti) attenuante, che gli argomenti trattati nei temi siano presentati e approfonditi prima dello svolgimento (cosa che per altro non sempre avviene), risulta dunque del tutto ininfluente: adoperandosi in tal senso si può, forse, «far convergere su quell’argomento l’interesse degli alunni», ma nel caso del tema il requisito della autenticità della comunicazione («l’emergere di una non artificiosa motivazione del fanciullo a comunicare per iscritto…») viene necessariamente meno, per il semplice motivo che non vi è comunicazione, mancandone i requisiti essenziali: lo scopo e il destinatario. Sempre che non si voglia assumere a “scopo”, quello di superare la prova imposta dall’insegnante, “destinatario” esclusivo (obbligato e fittizio) di un testo impersonale, scritto per forza e in assenza di un interlocutore vero.

Il testo sui Saperi essenziali (1998) aveva ripreso, pur tra molte cautele, la medesima impostazione.
Bisogna preparare tutti i giovani alle tecniche della scrittura e della lettura, fornendo loro capacità fondamentali che oggi risultano compromesse (nonostante i molti temi svolti a scuola – n.d.r.).
Si impone quindi fin dall’inizio del percorso scolastico la necessità di valorizzare i metodi idonei a dar padronanza della lingua italiana ai giovani, e a farne comprendere la struttura. Andranno ridisegnati metodi di analisi del discorso, di sintesi e parafrasi testuale, e di controllo della parola nelle diverse modalità enunciative. Soprattutto nelle prime fasi scolastiche occorre provvedere alla sostituzione, almeno parziale, di alcuni sistemi legati alla didattica tradizionale: il “tema” come composizione retorica in molti casi non è idoneo agli scopi ora indicati.

Quando uno scolaro scrive un tema, scrive a nessuno, per nessuna ragione (che non sia il dovere di farlo), tanto meno per sé, mentre, come ci ricorda Tullio de Mauro, l’educazione linguistica non si fa solo lavorando in astratto su parole, forme, tipi di testo, ma comporta l’esperienza del commercio con gli altri esseri umani.




L’alibi della “distanza” …non regge

di Maurizio Parodi

La discussione sulla didattica a distanza, del tutto legittima anzi auspicabile, è spesso viziata da un presupposto implicito, spesso inconsapevole, riconducibile alla convinzione che le criticità evidenziate siano riconducibili alla distanza, appunto, che, pertanto, non riguardino l’attività in presenza, in altre parole che il problema sia tecnologico e non pedagogico.

Sbagliato, come dimostra la permanenza di consuetudini inveterate, di procedure assurde che si ripropongono amplificate nella didattica a distanza alla quale deve essere riconosciuto, quanto meno, il merito, di rendere finalmente visibili pratiche, condotte, logiche più o meno sensate o aberranti, virtuose o ignobili, edificanti o mortificanti.

Vale anche per la questione dei compiti, il cui sovraccarico è stato recentemente denunciato dalle più importanti associazioni di genitori, ma che non si pone oggi per effetto del distanziamento scolastico, essendo il portato di una visione dell’insegnamento diffusa e radicata, ancorché nefanda, alla quale sono per la gran parte attribuibili fenomeni inquietanti e scandalosi: la mortalità e la dispersione, il malessere e il rifiuto, l’analfabetismo funzionale e l’impoverimento culturale.

Quello dei compiti è un problema gravissimo, ignorato, snobbato dai professionisti dell’istruzione, relegato ai margini delle discussioni di eminenti esperti più inclini a discettare sui massimi sistemi pedagogici o istituzionali, dai quali non è dato ottenere riscontro, giacché trattasi di materia grezza, ignobile: la considerano questione marginale, comunque subordinata ad altre di ben più elevato tenore, e dimostrano così, di capire ben poco e di avere quasi nulla cognizione di quel che accade quotidianamente nella scuola “reale”.

Azzardo un tentativo, ovviamente destinato al fallimento, di plastica e desolante rappresentazione di “fenomeni” diffusissimi e allarmanti che pure sfuggono agli specialisti più insigni, spesso inclini alla retorica magistrale, quella che celebra le magnifiche sorti e progressive di un sistema insensato e autoreferenziale, incarnato da docenti inqualificabili (e indistinguibili dai “colleghi” che si impegnano con intelligenza e sensibilità “straordinarie”), ricorrendo ad alcune soltanto delle centinaia di segnalazioni che quotidianamente pervengono agli amministratori della pagina Facbook: “Basta compiti!”.

…Ma si può sempre far finta che si tratti di casi isolati, che la scuola italiana sia eccellente e tutti i docenti sensibili e intelligenti; conviene, per evitare reprimende sindacali e ostracismi politici: gli insegnanti votano, e sono tanti, inoltre permettono ai professionisti della formazione di lucrare (quello dell’aggiornamento è un bel business), perciò è meglio non infastidirli.


I compiti a casa sono inutili: le nozioni così ingurgitate non lasciano il segno, si tratta di un sapere usa e getta.

Caterina

Io sono esasperata davvero! In prima media, mio figlio fa compiti fino alle 23 con 2/3 verifiche al giorno e altrettante interrogazioni. Per non parlare di quando esce alle 17 da scuola: dopo 8 ore seduti, tornano a casa con capitoli da studiare, esercizi da fare… è disumano! Ovvio che ‘sti ragazzi odiano la scuola… e non imparano nulla, non ricordano nulla perché li stanno distruggendo con tutti questi compiti a casa. Che schifo!

Barbara

Il 90% dei compiti sono lavoro inutile che ha il solo scopo di tenere occupati i bambini, di abituarli a “eseguire”. Il lockdown non c’entra nulla.

Maurizio

Dopo qualche settimana, mio figlio ricorda poco o nulla di quello che ha studiato, con inutile fatica, al solo scopo di superare la verifica o l’interrogazione: quanto tempo sprecato, quanta vita dissipata (i migliori anni). Tutto ciò è profondamente immorale.


I compiti procurano disagi, sofferenze soprattutto agli studenti già in difficoltà deprimendone l’autostima.

Elena

Mio figlio era in una scuola a tempo pieno fino alla terza elementare! Lui è un DSA e, con tutto che frequentava il tempo pieno, era sempre carico di cose da studiare; era sempre nervoso e con l’autostima sotto le scarpe. Ho litigato di brutto con preside e insegnante poi abbiamo deciso di cambiare scuola. Adesso va al tempo normale e ha davvero pochissimi compiti. È felice di andare a scuola, si applica di più e la dislessia è migliorata tantissimo avendo più tempo da dedicare alle sue carenze.

Caterina

Ormai i nostri figli sono diventati dei voti e basta perché è così che si sentono. Un numero sul registro che li bolla. “Non hai la sufficienza? È perché non studi abbastanza”. Invece no; nella maggior parte dei casi, il bambino ha problemi a capire o nel ragionamento …ed è subito 4. L autostima scema come la voglia di fare meglio e di andare a scuola. Mia figlia, prima media a tempo pieno, è stata assente 4 giorni perché aveva la febbre (tampone negativo) e non siamo riusciti a recuperare tutti i compiti e le cose fatte a scuola. Al rientro, cioè il lunedì, si ritrova con verifiche e interrogazioni da recuperare …e ovviamente ha risicato. La mia rabbia è che non è più possibile una vita così: questi ragazzi sono stanchi, hanno perso ogni gioia d imparare, di scoprire, perché non fanno altro che compiti, ogni santo giorno, forzatamente. Ormai i compiti a casa sono visti come una punizione più che un modo di imparare,e solo perché i prof. devono finire il loro dannato programma!

Romina

Niente è cambiato: pagine e pagine di nozioni, nessuna riflessione pedagogica alla base della didattica, solo una grande, mastodontica autoreferenzialità. L’obiettivo, per mia figlia, ormai è solo quello di uscire dalla scuola media sana di mente, non completamente erosa nella sua autostima e con una minima, residuale, appannatissima voglia di conoscere qualcosa.

I compiti a casa sono discriminanti anche perché indiscriminati.

 Dora

“Molto o poco” non significa nulla! Non è quantificabile il tempo che ciascuno dedica ai compiti, varia da bambino a bambino! Una paginetta o qualche esercizio per materia, sommati, fanno diverse paginette e diversi esercizietti al giorno che per alcuni bambini corrispondono a una mezz’oretta di impegno e per altri a 4 o 5 ore di lavoro a casa.

Natalia

Ci sono tante alternative che possono arricchire la crescita e lo sviluppo di bambini e ragazzi nonché risvegliare il loro interesse. I compiti finiscono con riempire ed esaurire gli spazi necessari per esplorare altri scenari e nuove dimensione della ricerca personale.

Gabriella

I compiti avvantaggiano gli studenti avvantaggiati, quelli che hanno genitori premurosi e istruiti, e penalizzano chi vive in ambienti deprivati, aggravando, anziché “compensare”, l’ingiustizia già sofferta, e costituiscono una delle ragioni, più gravi, dell’abbandono scolastico.

I compiti a casa ledono il “diritto al riposo e allo svago” (Art. 24 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e Art. 31 della Carta dei diritti dell’infanzia).

Michela

Ho mia figlia in seconda elementare: dopo 8 ore di scuola ha tutti i giorni i compiti per il giorno dopo. Uno schifo, sono veramente avvilita.

Adiba

Il fatto è che oltre alle 6 ore al giorno a scuola, a casa ne devono fare altre 5 tra studio compiti e ora ci si mette anche questo maledetto computer e le mille email giornaliere.

Francesca

Mio figlio, seconda media ora non fa altro. Torna da scuola alle 14.30 e non ha nemmeno in tempo di mangiare: sta sui libri fino alla sera alle 20 eppure è molto responsabile e veloce nel portarli a termine! Io dico è indecente. Dovremmo scendere in piazza.

I compiti a casa costringono i genitori a sostituire i docenti senza averne le competenze (spesso anche i figli).

Michela

Lui non vuole farli. Non ha voglia e sono noiosi come lo sono i professori che gli insegnano. La Dad mi ha aperto gli occhi anche sulla loro didattica. Non tutti, ma tanti sono noiosi a morte. La disaffezione per lo studio parte anche da lì. I prof che sono empatici e simpatici ottengono di più dai ragazzi. Ma è raro. Ne ho provate mille. Video, Film, Mappe, Teatro… Ma io non sono un’insegnante. E loro fanno solo del nozionismo, non fanno altro.

 Daniela

Non ho più parole, sono arrabbiata per questo modo di studiare: i professori se ne fregano di come si fa a imparare: a loro basta interrogarli, e lì finisce il loro compito.

 Eleonora

Vogliamo parlare delle pagine su pagine di riassunti? Mi sono ridotta a farglieli io… Al colloquio con l’insegnante di italiano: “Sua figlia deve passare almeno 4 ore sui libri”. Bene! …e questo per una sola materia: vita sociale e sport zero?

I compiti a casa sono stressanti e causano molta parte dei conflitti, dei litigi tra genitori e figli e persino tra genitori.

Michela

Io sto rovinando il rapporto con mio figlio. Non so più come fare. Le medie sono micidiali.

Fernanda

Con i compiti, molti o pochi, gli insegnanti non fanno altro che togliere tempo in famiglia e togliere tempo per altre attività. I bimbi vogliono imparare a suonare uno strumento, un’altra lingua, fare uno sport. Vogliono anche leggere liberamente, stare all’aperto, giocare con altri bambini e con i genitori. Invece ci obbligano a litigare con loro per i compiti, fate diventare insana la convivenza. Si intromettono nella dinamica famigliare e ignorando il bisogno di crescere insieme.

Caterina

Prima media, due giorni a settimana esce alle 17 e la mole dei compiti è allucinate, soprattutto l’insegnante di d’italiano: li carica di lavoro come se non ci fosse un domani; poi, si aggiungono le altre materie, e ogni santa sera se non sono le 23 non si chiudono libri.
La cosa è estenuante per lei e per noi: questi ragazzini non ameranno mai la scuola perché i prof. pensano solamente a finire il loro dannato programma caricandoli come somari di compiti a casa.
La scuola dovrebbe essere un luogo dove i ragazzi voglio andare, volentieri invece a causa di questo metodo (inutile) la odiano e con loro la odiamo anche noi perché bisogna seguirli (chi può) stravolgendo così la vita famigliare e la pace domestica tra urla e pianti.
Io mi sento molto ma molto avvilita anche perché non si risolverà mai nulla: se quasi tutti credono ancora che i tanti compiti servano a qualcosa, siamo davvero messi male.
Povera Italia, poveri noi e poveri ‘sti ragazzi!

Si danno persino i “compiti per le vacanze” e durante i week end, scuola a tempo pieno comprese.

Daniela

Persino i compiti nel week-end: non bastano 6 ore a scuola più 4 o 5 ore a casa tutti i giorni,pure il weekend. È una tortura! Ma un po’ di relax mentale quando ce l’hanno questi ragazzini? Vergognoso il non capire le esigenze degli studenti e delle loro famiglie. Ma io mi chiedo: una coscienza questi professore e/o professoresse ce l’hanno?

Marzia

Ci vuole il tempo per il gioco, per il relax, per le curiosità: sono vitali, più dei buoni voti. E parlo da insegnante di scuola media oltre che da mamma.

Susanna

I compiti per le vacanze sono un ossimoro, un assurdo logico (e pedagogico), giacché le vacanze sono tali, o dovrebbero esserlo, proprio perché liberano dagli affanni feriali e invece si trasformano in un supplizio, creando stress, sofferenza, insofferenza.

I docenti operano nella reciproca ignoranza: ciascuno assegna i propri compiti come se fossero i soli da svolgere.

Maria Teresa

Ma non si può fare proprio nulla affinché i professori tengano conto ognuno dei compiti assegnati dagli altri colleghi e conoscendo l’orario si regolino in base al tempo medio che gli alunni debbono dedicare a ciascuna materia?

Gianni

Esiste una scuola nella quale i docenti si prendono il disturbo di verificare il carico complessivo dei compiti assegnati? Ci vuole una laurea in pedagogia per capire che, oltre ai propri, gli studenti devono fare tutti i compiti dati da tutti gli altri docenti?

Elena

È un incubo, lo so. I docenti si fanno prendere dalla paura di non fare abbastanza e iniziano a sbattere della roba dentro ai registri elettronici, senza porsi il problema dell’impegno complessivo, come se il cervello dei bimbi fosse un bottiglia da riempire dimenticando come avviene l’apprendimento. Un disastro!

I compiti sono quasi sempre noiosi, ripetitivi e talvolta assurdi.

 Dania

Certi compiti sono davvero pallosi, ripetitivi, inutili, avvilenti. Mammamia che tristezza! Io l’ho pure detto ai colloqui che per me sono esagerati, dopo 8 ore di scuola. Ma loro nulla, rigidi come i muri: Dicono: “Eh, ma servono per consolidare quello che si fa in classe”. Consolidare cosa? Vogliono far crescere dei robottini automatizzati…

 Fabiola

Ma qualcuno ha mai cercato di capire se servono davvero tutte queste esercitazioni pedestremente addestrative, puramente nozionistiche, prive di qualsiasi attrattiva che suscitano solo noia e ripulsa?

 Michela

E i dettati? Alle elementari 8 pagine di dettato al Giorno, tutti i giorni o quasi. Perché?


I genitori pretendono l’assegnazione dei compiti: più dà compiti, più l’insegnate è “serio”.

Andrea

L assurdità risiede in quelle menti bacate di certi genitori che chiedono altri compiti pensando che più se ne danno più si impara. Mia moglie insegna alla primaria e mi racconta di genitori che quasi la rimproverano di dare pochi compiti. Allucinante!
In Finlandia, zero compiti soprattutto alle elementari: si comincia a 7 anni e si imparano due Lingue subito; la religione si fa a catechismo; a scuola si insegna economia domestica e ambientale… I risultati? Loro sono tra i primi, noi verso il trentesimo posto! E vi chiedete a casa servono tutti i compiti che danno? A ottenere questo pessimo risultato, privando i bambini del diritto al riposo al gioco alla socialità.

Dania

L’altra settimana, avevamo la riunione online con gli isnegnati, in tutto saremo state 6 mamme e 4 maestre. Appena ho detto che i compiti sono eccessivi, dopo otto ore passate a scuola, si è creato un muro fatto delle solite frasi: “Eh ma il prossimo anno vanno alle medie e ne avranno 11 di materie…” e bla bla bla! Insomma ci fanno il lavaggio del cervello già adesso per il prossimo anno; ed ero sola a protestare, a dire la mia. Quindi di cosa stiamo parlando se c’è un’omertà spaventosa tra i genitori? Mi sono talmente sdegnata…

Barbara

“Devono abituarsi per le medie”. Sono tre anni che va avanti così. Certo: roviniamoci la vita adesso per abituarci a fare quello che dovranno fare fra tre anni. Che logica è?


I docenti non si interrogano sulle pratiche didattiche in uso e non valutano il proprio operato: sono distributori di compiti e di voti.

Elisa

La scuola non si adatta, semmai pretende l’adattamento; e se si è fuori dalle righe (magari estremamente intelligenti) non va bene. Possibile che la scuola debba essere solo sofferenza, fatica e noia? Intanto siamo arrivati in prima superiore ma abbiamo perso quasi dieci anni di vita.

Cristina

Anche oggi verifica. Ieri due. Ogni giorno compiti e verifiche. Il voto dovrebbero metterlo a se stessi, chiedendosi: “Ho spiegato bene ai miei alunni? Hanno capito tutti, hanno svolto senza problemi il compito assegnato”?
Poi uno crede di valere nella vita, quel voto. Poi capita di essere superpositivo a scuola, e fuori l’esatto contrario o viceversa.

Antonia

Bambini e i ragazzi stanno morendo soffocati in casa dalla solitudine e dai compiti. Mio figlio mi ha detto: “Siamo solo dei voti, per i docenti, non siamo altro”. È triste, specialmente in un momento in cui la depressione dilaga.

In “estrema” sintesi

Angela

Gli insegnanti Italiani danno una marea di compiti perché non sono in grado di insegnare, affidando il loro “compito” alle famiglie o agli insegnanti di ripetizione. Semplice: sono ignoranti!

Dalla Carta internazionale dei diritti dell’infanzia, art 31: Gli Stati membri riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età…




Ripensare le pratiche didattiche, dalla “lezione” ai “compiti a casa”

io_noi
di Maurizio Parodi

Come ho già evidenziato altrove, questa tristissima congiuntura potrebbe rappresentare una buona occasione per ripensare i paradigmi, il senso, la filosofia del nostro sistema scolastico, profondamente malato, come dimostrano i dati relativi all’analfabetismo funzionale, alla mortalità scolastica, all’incapacità di compensare le diseguaglianze di partenze.

Sintomi gravissimi ma irresponsabilmente trascurati, a tutti i livelli, per il carattere autoreferenziale di un apparato immune agli interventi di innovazione sostanziale, e più incline a restyling meramente cosmetici (vedasi l’uso cattedratico delle LIM).
Ma lo sarà solo per quei docenti (e ve ne sono) che, tra mille difficoltà, di ogni sorta (carenze di risorse, organici, strumenti…), incomprensioni, ostilità (anche da parte dei colleghi o dei dirigenti più retrivi), già si impegnano con sensibilità e intelligenza, per qualificare gli “ambienti di apprendimento” nei quali operano coloro i quali riescono, anche in questa gravosa situazione, a stimolare e sostenere la crescita degli studenti.

Per costoro, la nota n.338 che reca “Indicazioni operative per le attività didattiche a distanza” rappresenta la conferma di una visione e di pratiche ordinarie che semmai trovano ulteriore legittimazione e che del tutto spontaneamente si sviluppano ben oltre i vincoli burocratici di natura corporativistica ai quali si vorrebbero sigillare.
Per tutti gli altri, si tratterà della penosa conferma di un malcostume pedagogico sempre più diffuso e nefasto, tant’è che lo si è dovuto stigmatizzare nella nota medesima: Il solo invio di materiali o la mera assegnazione di compiti, che non siano preceduti da una spiegazione relativa ai contenuti in argomento o che non prevedano un intervento successivo di chiarimento o restituzione da parte del docente, dovranno essere abbandonati, perché privi di elementi che possano sollecitare l’apprendimento.

Considerazione di semplice buonsenso pedagogico contraddette dalle intemperanze magistrali testimoniate da moltissimi genitori, già esacerbati da una condizione di straordinario disagio, che confermano la propensione ad appaltare lo svolgimento di parti sempre più cospicue del curricolo scolastico alle famiglie, ovviamente impreparate ad affrontare il “compito” improprio.
Un richiamo che dovrebbe suscitare vergogna e disdoro ma che, al contrario, in omaggio a una logica corporativistica, di miserrima tutela del “particulare”, viene esecrato e bandito come indebita ingerenza, lesa maestà didattica.

Si è costretti a richiamare norme di elementare igiene mentale: occorre evitare sovrapposizioni e curare che il numero dei compiti assegnati sia concordato tra i docenti, in modo da scongiurare un eccessivo carico cognitivo.
Un monito che dovrebbe indignare, per l’ovvietà deontologica della circostanza evocata, che risulterebbe superfluo, perciò irriguardoso, se rivolto a persone dotate (lo si ribadisce) anche di semplice buonsenso pedagogico, ma che invece denuncia la condotta abituale della stragrande maggioranza dei docenti di ogni ordine e grado (purtroppo abbiamo “secondarizzato” anche la scuola primaria).
È “normale” che i nostri studenti siano sovraccaricati di compiti (da cui il richiamo della Nota); si assegnano persino nelle classi a tempo pieno: tutti giorni, nei week end e per le vacanze Dopo 8 ore di forzata immobilità, bambini di 6-10 anni, che avrebbero tanto più bisogno di giocare, ricrearsi, riposare, coltivare interessi e passioni, sono costretti a un impegno estenuante e dissennato il cui solo effetto è quello di rendere odioso lo studio e repellente la scuola (un accanimento morboso che rasenta la crudeltà mentale).

È normale che i docenti operino nella reciproca ignoranza (da cui il richiamo della Nota): non si curano di verificare il carico complessivo dei lavoro assegnato, non si accordano preventivamente, ognuno procede come se i “propri” compiti fossero i soli da svolgere, ulteriore manifestazione di grave insensibilità umana prima che professionale.
Tutto ciò avviene, per l’appunto, in circostanze normali, figurarsi in epoca di prolungata sospensione delle attività scolastiche.

Ma stiano comodi e tranquilli, questi insegnanti, le loro pratiche, pur miserrime e deteriori, saranno strenuamente tutelate financo da quegli organi di rappresentanza che non provano alcun imbarazzo nel denunciare la Nota della quale si è detto offendendo la dignità non solo professionale dei docenti che nella stessa vedono riconosciuto il loro impegno quotidiano. A loro dobbiamo sostegno e riconoscenza.