di Monica Piolanti
Oggi, in un mondo “sfibrato dalle guerre”, stiamo costantemente passeggiando come “funanboli” su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto ad altezze vertiginose. Non è un’immagine retorica, ma la percezione tangibile di una sfiducia profonda che permea il tessuto sociale, minando la legittimità stessa delle nostre Istituzioni. Questa sensazione di smarrimento, acuita da un’emergenza percepita come endemica, si traduce in una “paura diffusa, sparsa, indistinta”, un’inquietudine baumaniana che ci insegue senza un volto definito, e a cui diamo il nome di “incertezza.”
La complessità del reale, sempre più “ingarbugliata”, ci priva della capacità di decifrare gli eventi, lasciandoci preda di un fatalismo che, seppur seducente nella sua accettazione passiva, è una pura costruzione narrativa della realtà. È il dramma delle profezie che si autoavverano, un meccanismo perverso dove la percezione, ancor prima del fatto, plasma le conseguenze. Pensiamo alla minaccia di un coinvolgimento devastante di conflitti globali, di sistemiche crisi economico-finanziarie, di imminenti pandemie, di irreparabili catastrofi climatiche e ambientali: l’annuncio, a prescindere dalla sua veridicità iniziale, genera la realtà temuta. E in questo vortice, le nuove generazioni, private di un’autorevolezza adulta che indichi la rotta, si trovano a navigare senza bussola, in un rapporto che chiamiamo “contrattualistico” ma che, di fatto, è un abbandono al loro stesso “io”, con tutte le ansie che ne derivano.