Artificiale, Watson!

Immagine realizzata con Copilot Pro

di Marco Guastavigna

Proponiamo un’attività davvero straordinaria, visti i tempi: formarsi un’opinione propria.

Come? Questo articolo incorpora il file di un documento ufficiale (“Strategia italiana per l’intelligenza artificiale”)

e – separatamente – un altro, contenente le sintesi del documento stesso ad opera di:

  • Google Gemini;
  • ChatGPT;
  • UPDF AI;
  • NotebookLM;
  • diffitme (due diverse proposte di lavoro).

A chi legge decidere se gli esiti delle elaborazioni dei dispositivi di intelligenza artificiale sono validi e fino a che punto.




Ri-copia e incolla

Immagine realizzata con Copilot Pro

di Marco Guastavigna

Non credevo alle mie orecchie quando ho avuto notizia di questa consegna di lavoro, assegnata in una prima classe di secondaria di primo grado: “Scrivi un testo descrittivo sul tuo quaderno e poi ricopialo con Google documenti”.
Eppure era proprio così!
Ora, al di là del fatto che il correttore ortografico del dispositivo segnala “ricopialo” come ortograficamente errato, questo approccio è indicativo di una delle molte catastrofi culturali verificatesi sotto l’egida dell’innovazione digitale.
Già, perché il tutto è rubricato come “informatica”.

Questa dicitura richiama, a chi ha vissuto tutte le diverse retoriche innovative  – dall’ingresso trionfale nelle aule dei Commodore 64 al respingimento degli smartphone – una visione assai diffusa negli anni ‘80: l’informatica (intesa come epopea della programmazione) era infatti considerata  il nuovo latino (ovvero le si assegnava valenza sintattica e logica universale) e quindi era necessario studiare e diffondere il Basic e, soprattutto,  il Logo, che aveva la referenza di linguaggio nato in ambito psico-pedagogico.

Per altro, la progenitura di ciò che adesso rappresentano Schratch e il pensiero computazionale fallì miseramente e fu sostituita dall’idea di imparare ad usare i “tools” nati per il lavoro d’ufficio, ma pregevoli per la loro plastica impiegabilità nel processo di scrittura, nel calcolo semi-automatizzato, nella presentazione di contenuti multimediali e così via.

Purtroppo, questo non comportò affatto che si smettesse di chiamare le aule teatro di queste attività “laboratori di informatica”, Del resto, è questa l’etichetta tuttora superficialmente affibbiata anche agli attuali corsi rivolti agli anziani, desiderosi in genere di uscire dall’incubo Spid, di capire un po’ meglio come funziona internet e di mettere in comunicazione il proprio smartphone con il laptop di famiglia per meglio organizzare e vedere le fotografie scattate da tutti i suoi componenti.

Torniamo però al compito assegnato a ragazzini contemporanei: la prima assurdità della consegna è far assurgere la meccanica trascrizione su supporto digitale di un testo progettato, steso e corretto su quello cartaceo, con tutti i vincoli che ne conseguono, a ordinamento, trattamento e trasmissione di informazione mediante elaborazione elettronica.

La seconda è davvero paradossale: una tecnologia nata per facilitare il rapporto con la produzione di un testo proprio perché ne permette la realizzazione per perfezionamenti successivi diventa un totem a cui ci si può accostare solo dopo aver mondato la propria offerta votiva da ogni impurità. Si esperisce e si apprende insomma esattamente il contrario di ciò che potrebbe generare autonomia operativa ed emancipazione cognitiva, con effetti inclusivi, stante una maggiore affrontabilità della complessità dello scrivere.

Tutto questo è sostituito dall’uso pretestuale della scrittura di un proprio testo come motivo per entrare in un’arena addestrativa, quella della trascrizione.

Oltre che di una profonda e forse irrimediabile ignoranza professionale di cui abbiamo già parlato, questa micro-vicenda è esemplificativa del fatto che molti insegnanti non hanno probabilmente alcuna esperienza di uso significativo dei dispositivi digitali e si limitano perciò a proposte operative il cui unico scopo è dare un ri-verniciata di modernità ad attività inerziali.




Cittadinanza ignorante

di Marco Guastavigna

Anche sull’ultimo provvedimento del ministro (divieto assoluto di uso dei cellulari) non si riesce ad andare oltre la polarizzazione.

Sono contrario per principio e storia personale e professionale a ogni divieto, ma non posso fare a meno di scrollarmi di dosso questo approccio e di riflettere sul fatto che la tendenziale complessità (che è un pregio) delle attività di apprendimento dovrebbe far propendere per una macchina ergonomicamente adeguata per dimensioni di tastiera e schermo e postura suggerita/richiesta, ovvero un PC desktop (sempre più rari) o laptop.

Qualche tempo fa, anzi, avevo proposto una sommaria classificazione, che riprendo:

Ricordo per altro i tempi del lockdown, in cui presso molti si diffuse l’illusione che i tablet potessero essere la soluzione più congruente con il contesto emergenziale. A quasi nessuno vennero invece in mente i personal computer a basso costo, magari con un sistema operativo non proprietario.

Entrambi gli approcci sono esempi lampanti di ignoranza di merito. Ignoranza che non è “tecnica” e settoriale, ma professionale e generale. E così cittadini adulti ignoranti formano all’ignoranza giovani cittadini ignari.

È l’ignoranza che porta a pubblicare documenti contro la formazione e le dotazioni del PNRR sul campione del capitalismo digitale (Google drive, per altro detto confidenzialmente “drive”), a registrare interviste al limite dell’eversione (retorica, of course) su YouTube (a sua volta branca di Alphabet e dispositivo a vocazione estrattiva), a condividere dibattiti infuocati mediante dirette-Facebook (altro esponente della messa a valore bio-politica e culturale).

È la medesima ignoranza che ha assistito imbelle al trasferimento della logistica dell’istruzione e della formazione sulle piattaforme BigTech, rifugiandosi in un mantra a sua volta illusorio: “In fondo sono strumenti, gli effetti dipendono da come li si usa”.

E qui siamo arrivati al vulnus culturale (e politico!) fondamentale, che si perpetua per colpa di un diffuso disimpegno, superficiale, snobistico e sempre più ingiustificato.
Ciò che fronteggiamo e a cui ci esponiamo tutte le volte che entriamo e agiamo a qualsiasi titolo nel moderno mercato dell’istruzione (che per altro comprende anche libri, quaderni, penne a sfera, lavagne di ardesia e così via) non sono affatto “strumenti”, ovvero apparati a complementarità nulla.
Sono piuttosto dispositivi socio-tecnici per l’estrazione e l’accumulazione di valore mediante cattura della conoscenza condivisa e monetizzazione diretta e indiretta, a complementarità attiva, capaci di influenzare profondamente – e spesso di dominare – contesti, attori, esiti, feedback delle situazioni in cui intervengono.

Che lungaggine! Quante complicazioni!

Tocca pure rileggere un paio di volte per capire tutto, per esempio il fatto che le versioni free dei chatbot generalisti estraggono valore dal perfezionamento implicato dalle conversazioni mentre quelle plus richiedono il pagamento di abbonamenti/crediti.

Oppure che i “motori di ricerca” più noti sfruttano il consumo informativo per profilare gli utenti e lucrare sul marketing.

O ancora che la cosiddetta “intelligenza artificiale” agisce su base statistico-induttiva, avendo esplicitamente rinunciato all’impostazione logico-deduttiva, perché in questo modo valorizza gli investimenti economici che le garantiscono la potenza di calcolo e l’impossessamento di enormi quantità di dati da cui sgorga la capacità predittiva, decisionale e generativa, mediante cattura della conoscenza diffusa e disponibile per la computazione. Corollario di questa acquisita consapevolezza, è il fatto che – forse – “intelligenza” è una formulazione destinata al marketing e all’innesco di discussioni sui massimi sistemi (coscienza, intenzione, singolarità, post-umanesimo…) che tanto piacciono a coloro che hanno fretta di (far) dimenticare il micro-lavoro di addestramento affidato al Sud globale da parte di un Nord globale dominato da oligopoli ormai quasi naturalizzati.

Potrei continuare, ma preferisco mettere in guardia da alcune implicazioni di questa campagna di auto-disinformazione a proposito dell’universo digitale che dura da decenni:

  • si usano formulazioni vaghe e imprecise, che possono diventare fuorvianti (il già citato e confutato “strumenti”);
  • mancano lessico e concettualizzazioni autenticamente professionali, sostituiti spesso da espressioni confuse e confusive (“drive”);
  • si impiegano concetti non autenticamente padroneggiati (“intelligenza artificiale”) e molto probabilmente con significati diversi per i diversi attori; questo rischio è particolarmente grave nelle istituzioni scolastiche che si accingono a mettersi in gioco in “curvature” e altre amenità curricularizzanti, destinate a fornire agli studenti “competenze per il futuro”;
  • si utilizza una deleteria gerarchia delle conoscenze e delle capacità necessarie per “insegnare”, che privilegia la (rassicurante) tradizione professionale, giudicandola assolutamente sufficiente per comprendere l’innovazione, impedendosi di conseguenza di cogliere e contrastare davvero gli aspetti di distruzione creatrice di quest’ultima, in campo etico, politico, culturale e cognitivo.

Soprattutto, si assume l’unicità della cultura e dell’operatività digitali, considerate coincidenti con le tecnologie estrattive, quando invece non è così e vi sono visioni e pratiche alternative, il cui approccio conviviale sarebbe più coerente con le attività di una scuola che avesse davvero conservato la sua vocazione critica ed emancipante.




Umani ad alta sostituibilità?

di Marco Guastavigna

Avuta notizia delle ultime esternazioni del ministro Valditara, mi accingevo a salire a mia volta sul pero dell’indignazione stupita e dello stupore indignato, luogo di elezione dell’intelligencija nostrana praticante il pensiero critico innocuo.

Immagine realizzata con Copilot Pro

Ero quasi in cima, quando mi è venuta l’idea di fare una sperimentazione. Ho avviato un accrocco di intelligenza artificiale generativa text2video e gli ho chiesto: “Come usare l’intelligenza artificiale generativa a scuola?”, ottenendo il filmato che propongo di seguito:

Proprio così: la trama concettuale è identica a quella ministeriale!
Cerchiamo perciò di capire perché i nostri esponenti politici corrono il rischio di essere sostituiti da contenuti digitali realizzati in modo automatizzato e riprodotti in streaming.

La spiegazione è semplice: entrambi – soggetti istituzionali e dispositivi digitali – hanno fatto ricorso alla conoscenza “condivisa”, ovvero a quanto si accumula in rete come moda statistica, senso comune, nozioni ripetute e (a volte) trivializzate.
Va aggiunto che i “cobot” – robot collaborativi –, utilizzati in alcune aule scolastiche della Repubblica Popolare Cinese, sono citati come esempi virtuosi nelle pagine iniziali del volume Pedagogia algoritmica, primo avamposto accademico di occupazione dello spazio culturale relativo all’AI nell’istruzione mediante epistemarketing, ovvero traduzione in fondamenti professionali delle caratteristiche operative e cognitive dichiarate dai produttori dei congegni analizzati.

Ragion per cui restano aperti vari quesiti: gli assistenti annunciati da Valditara sono di questo tipo? Quanto costano? Chi ha deciso dove e come utilizzarli?
Le medesime domande andrebbero poi ripetute se ad affiancare gli insegnanti fossero invece i software che stanno animando il mercato della conoscenza e dell’istruzione: da una parte mentori e precettori attivabili online, dall’altra moduli operativi che supportano l’insegnante in varie attività di routine, dalla realizzazione di quiz, alla riscrittura calibrata di testi, al perfezionamento di slide, alla confezione di domande stimolo per la comprensione di filmati e così via.




Narcisismo digitale funzionale

di Marco Guastavigna

“L’articolo critica l’approccio accademico e istituzionale all’intelligenza artificiale nell’istruzione come un sistema che privilegia l’innovazione fine a sé stessa, ignorando le reali necessità degli studenti e degli insegnanti. Questo approccio, definito “tecno-feudalesimo intellettuale”, si concentra sulla pubblicazione di monografie e sulla partecipazione a convegni, senza affrontare le questioni concrete legate all’implementazione dell’IA nell’istruzione.

Ecco alcuni punti chiave della critica:

● Innovazione conservatrice: l’accademia si proclama paladina dell’innovazione tecnologica, ma la sua implementazione si traduce nella creazione di “sapere da scaffale”, utile solo a mantenere lo status quo e i rapporti di potere esistenti.

● Epistemologia dell’improvvisazione: la corsa all’ultima novità tecnologica porta a una mancanza di riflessione critica e di analisi approfondita sulle reali potenzialità dell’IA nell’educazione.

● Trivializzazione: la formazione sull’IA si riduce spesso a una serie di ricette pratiche, senza fornire agli insegnanti gli strumenti per una comprensione profonda e critica di queste tecnologie.

● Mancanza di attenzione per l’etica: il dibattito sull’IA si concentra sugli aspetti tecnici e teorici, ignorando le implicazioni etiche e sociali, come lo sfruttamento dei lavoratori del Sud globale per l’addestramento degli algoritmi.

● Formazione adattiva: i percorsi di formazione sull’IA per gli insegnanti si basano spesso su un approccio passivo e adattivo, anziché promuovere un uso critico e consapevole di queste tecnologie.

L’articolo sottolinea la necessità di un approccio alternativo all’IA nell’istruzione, che metta al centro le esigenze degli studenti e degli insegnanti, promuovendo un uso critico, consapevole e socialmente responsabile di queste tecnologie”.

La “recensione” qui sopra riportata è di Google NotebookLM; il riferimento sono alcuni ragionamenti che ho pubblicato su Gessetticolorati.
Tecnicamente si tratta della risposta (automatizzata) a una domanda-stimolo proposto dal dispositivo medesimo e da me sottoscritta e inviata: “In che modo viene criticato l’approccio accademico e istituzionale all’intelligenza artificiale nell’istruzione?”.

Confesso apertamente di riconoscermi nella sintesi del dispositivo di assistenza, nonostante lo consideri il mio principale avversario sul piano etico e politico e non abbia remore a utilizzarlo solo perché vengo tracciato in decine di altri modi dal capitalismo digitale estrattivo di cui Alphabet è l’esponente probabilmente più avanzato ed efficiente.
Allo stesso modo, trovo abbastanza convincente il “documento di briefing” prodotto da NotebookLM – è uno dei suggerimenti operativi di base dell’architettura dell’ambiente.

Analisi dei temi principali e delle idee chiave nelle fonti fornite

Le fonti analizzate offrono una panoramica critica sull’uso delle tecnologie digitali nell’istruzione, concentrandosi in particolare sul contesto italiano e sul ruolo degli insegnanti.

Temi principali

  • Critica al “digitalismo” acritico e all’innovazione fine a sé stessa: Le fonti mettono in guardia da un’adesione acritica al “digitale”, sottolineando la necessità di un approccio critico e consapevole. L’innovazione tecnologica non è di per sé garanzia di miglioramento e può portare alla frammentazione del sistema educativo, come evidenziato nel caso della “didattica innovativa” e del Piano Nazionale Scuola Digitale.
    “L’introduzione del “digitale” nella scuola italiana è stata in larga misura una diffusione latente e incontrastata di una visione e di una mentalità neoliberiste.” – Concetti contrastivi – di Marco Guastavigna
    “Ed ecco rispuntare, più tronfia che mai, nonostante le gigantesche difficoltà, la locuzione “fare innovazione”, a cui seguirà il focus – che verrà ripreso dai finanziamenti nell’ambito del PNRR – sugli ambienti di apprendimento “innovativi”; non “rinnovati”, perché questa prospettiva richiederebbe di attribuire senso e significato non al modificare in sé ma alle ragioni e agli obiettivi del cambiamento.” – Contro la deriva della digitalizzazione subordinata e subordinante – Collettivo Le Gauche
  • Importanza di un approccio etico e sociale all’uso delle tecnologie.
    Le fonti sottolineano la necessità di un approccio etico all’uso delle tecnologie, che tenga conto delle implicazioni sociali, economiche e politiche. Si critica il modello del “capitalismo di sorveglianza” e si promuove un uso delle tecnologie che metta al centro lo sviluppo umano, l’equità e la sostenibilità.
    “La contrapposizione politicamente utile e significativa, quindi, non è “digitale sì” versus “digitale no”, ma quella tra dispositivi digitali a logistica estrattiva, tipici del modello tecno-liberista, e dispositivi digitali a vocazione aperta e decentralizzata, non profilanti.” – Contro la deriva della digitalizzazione subordinata e subordinante – Collettivo Le Gauche
    “Detto in un altro modo, voglio valorizzare l’approccio etico-politico e non economicista, in particolare l’idea che ciascun singolo e soprattutto ogni comunità hanno diritto al controllo di ciò che utilizzano e dei propri dati.” – Tecnologie_per_lo_sviluppo_umano_di_Guas.pdfIl ruolo del software libero e dei contenuti aperti: Le fonti promuovono l’uso del software libero e dei contenuti aperti come alternativa al modello proprietario del “capitalismo digitale”.
    Si sottolinea l’importanza del codice aperto, della condivisione della conoscenza e del controllo collettivo sulle tecnologie”

    Insomma, software libero è un modo di sviluppo del software che si adatta particolarmente bene al software educativo; ma bisogna trovare un modo di sostenerne economicamente lo sviluppo nel tempo, altrimenti si finisce per fare un guaio peggiore: far scomparire dalla faccia della terra quel tessuto di sviluppatori, di piccole imprese, di cooperative che potrebbero costituire un’alternativa alle multinazionali digitali.” – Tecnologie_per_lo_sviluppo_umano_di_Guas.pdfLa centralità dell’insegnante come mediatore critico: Le fonti sottolineano il ruolo centrale dell’insegnante come mediatore critico tra le tecnologie e gli studenti. L’insegnante è chiamato a scegliere gli strumenti più adatti ai contesti specifici, a formare gli studenti ad un uso consapevole e critico delle tecnologie e a promuovere un apprendimento significativo.
    “Il compito di questa generazione di insegnanti è far comprendere che le risorse delle rete vanno integrate con quelle tradizionali, dalle biblioteche cartacee ai libri di testo, anche sul piano metodologico. Per ottenere questo, se ne devono convincere in prima persona.” – L’insegnante del terzo millennio – La ricerca
    “Disporre di testo su supporto flessibile consente inoltre agli insegnanti di mettere in atto in prima persona gli interventi di adattamento previsti dai relativi protocolli per i libri di testo.” – Tecnologie_per_lo_sviluppo_umano_di_Guas.pdfIdee chiave:

  • Distinzione tra “lavoro” e “mestiere” della scrittura: La distinzione tra scrittura vincolata da tempi e obiettivi di mercato e la scrittura come espressione libera e creativa.
    “Da una parte il mestiere di scrivere, insomma, dall’altra il lavoro di scrittura.” – Excursus nel mercato della scrittura digitale, probabilmente incompleto | NUOVO PAVONERISORSE
    Rischio di “trivializzazione” della scrittura: L’uso di strumenti di intelligenza artificiale può portare ad una semplificazione eccessiva e ad un impoverimento della scrittura.
    “Vi è comunque un rischio di fondo, ovvero la trivializzazione, di cui ci siamo già occupati e che nel contesto della mercificazione della scrittura è rappresentabile come segue.” – Excursus nel mercato della scrittura digitale, probabilmente incompleto | NUOVO PAVONERISORSE
    Importanza del “pensiero computazionale” emancipato: Insegnare agli studenti a programmare non solo come una competenza tecnica, ma come uno strumento critico per comprendere il funzionamento delle tecnologie.
    “sarebbero necessarie modalità di istruzione molto diversa da quella attuale (prerequisito una visione emancipata e non adattiva del pensiero computazionale)” ? Tecnologie_per_lo_sviluppo_umano_di_Guas.pdf

    Insomma, siamo davvero di fronte a un dispositivo che può forse avere impieghi utili, almeno nel caso in cui si domini il campo di conoscenza su cui lo si utilizza, come assistente cognitivo per analisi, sintesi, confronto e incrocio di documenti già letti per parte umana. Quel che è certo è che è sempre più priva di fondamento ogni riduzione dell’intelligenza artificiale generativa a chatbot generalisti, addestrati su materiale non ben precisato.




La pantera identitaria

di Giovanni Fioravanti

Quando si incita ad affermare la propria identità, in sostanza si invita a sventolarla in faccia agli altri e questo certo non si può dire che sia un gesto di amicizia.

Pensare oggi di porre a coronamento del curricolo del primo ciclo di istruzione l’acquisizione della propria identità nazionale, come sembra nelle intenzioni dell’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito, ispirato dal pensiero della coppia Galli della Loggia, Loredana Perla, rischia di mettere in serio pericolo l’impellente necessità di formare le nuove generazioni a viversi come cittadini di un mondo in cui difendere la convivenza comune e il proprio comune ambiente di vita. Significa non aver appreso la lezione della storia che è apprendimento della “grammatica della civiltà”, la propria e quella degli altri, per non ricadere nelle barbarie del passato.

Non ci sono distinguo che tengano, pretestuose denunce sull’ignoranza della storia e della geografia del proprio paese da parte di studenti e studentesse formati agli apprendimenti e alle competenze prescritte dalle attuali Indicazioni curricolari nazionali per le scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione. Se tali carenze ci sono, le cause vanno ricercate altrove, non tanto perché non sia chiaro a cosa debba servire la scuola pubblica, ma, se mai, perché non è chiaro cosa e come la scuola pubblica debba essere.

Agitare l’identità come elemento di compattazione di un popolo nel terzo millennio del mondo dovrebbe rendere avvertiti dei pericoli che oggi comporta, rispetto ai vantaggi che si presume possano derivare.
Lo spirito patriottico dei fautori dell’insegnamento dell’identità, ci trascina tutti due secoli addietro, a quella storia risorgimentale incompiuta di un’Italia fatta che ora doveva preoccuparsi di fare gli Italiani e a questo avrebbe dovuto provvedere l’istituzione della scuola pubblica con la legge di Gabrio Casati. Ha ragione Galli della Loggia a scrivere che la scuola pubblica non può sfuggire a questo destino iscritto nella sua origine.[1]

Ma il problema è, appunto, ancora di quali italiani vogliamo formare, siamo sempre lì, ieri come oggi.
Si ha l’impressione di assistere ai corsi e ai ricorsi storici. Per Croce e Gentile il Risorgimento fu interrotto all’epoca dell’unificazione politica. Il fascismo rappresentava la prosecuzione del Risorgimento e Benito Mussolini la speranza  nel suo possibile compimento. Il primo dovette ricredersi, il secondo rimase radicato nella sua fiducia nella storia come autocoscienza di un popolo, nello specifico del popolo italiano. A questo scopo mise a disposizione del fascismo la sua riforma della scuola con la religione, filosofia del popolo, a coronamento dell’insegnamento delle medie e delle elementari.

Ora i novelli epigoni, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, propongono non più la religione come agglutinante disciplinare della scuola di base ma il canone cultural-identitario italiano, attraverso la narrazione, il racconto della storia e della geografia del paese.[2] Non solo,  rilanciano i best seller risorgimentali, Cuore e Le avventure di Pinocchio come modelli di educazione nazionale di rara chiarezza[3], la cui ripresa e diffusione scolastica è necessaria per combattere la deriva scolastico-educativa che ha le sue origini negli anni ‘60[4].

In definitiva Insegnare l’Italia è la copertura per tornare al passato, l’identità da inculcare è sempre quella della scuola gentiliana violata dalla scuola media unica, dall’abolizione del latino e dalla pedagogia progressista, è il Risorgimento che tradito dal fascismo si è realizzato nella Resistenza partigiana e l’autocoscienza generata dalla storia ha preso un’altra direzione anche sul piano dei valori educativi come la consapevolezza di appartenere all’avventura umana.

Storia e memoria vanno insieme, l’una sorregge l’altra e allora succede che non è possibile leggere la storia senza la memoria del prima e del dopo e cioè senza chiedersi che significato assume la parola identità oggi, a un quarto di secolo dall’inizio del millennio.

Nel 2005 Amin Maalouf ha scritto L’identità[5], convinto che negli anni in avvenire il problema dell’identità avrebbe indebolito il dibattito intellettuale e avvelenato la Storia. Una proposta per cercare di dominare la pantera identitaria prima che ci divori.
Amin Maalouf ci ricorda che quando il 9 novembre del 1989 è caduto il muro di Berlino molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un’epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Ma dodici anni dopo, l’11 settembre 2001 questa speranza è svanita insieme al crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York.

Più nulla è stato come prima. Maalouf lo spiega sostenendo che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari. Se il confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva però un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente, al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L’identità non è oggetto di dibattito, è un a priori, non deriva da una scelta, un’identità si scopre, si assume, si proclama. Si afferma ad alta voce come appartenenza, come sfida di solito all’alterità, al non-io reale o immaginario che sia.

E, dunque, rilanciare il tema dell’identità significa lisciare il pelo alla pantera identitaria, camminare in equilibrio sul filo sottile che corre fra la diversità del mondo e l’esigenza di universalità.
L’opposto di quello che si propone l’insegnamento della storia prescritto dalle attuali Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo di istruzione: “Nei tempi più recenti il passato e, in particolare, i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia venga usata strumentalmente, in modo improprio. […] Occorre, dunque, aggiornare gli argomenti di studio, adeguandoli alle nuove prospettive, facendo sì che la storia nelle sue varie dimensioni – mondiale, europea, italiana e locale – si presenti come un intreccio significativo di persone, culture, economie, religioni, avvenimenti che hanno costituito processi di grande rilevanza per la comprensione del mondo attuale…[6]

È evidente che andare a intaccare questa impostazione costituirebbe una precisa scelta ideologica, come del resto non nega Galli della Loggia il quale sostiene che nell’ambito dell’istruzione e delle scelte didattiche è impossibile la neutralità, l’assenza di una prospettiva ideologico-culturale.[7]

Attenzione, perché in questo modo si inverte, si altera la prospettiva delle attuali Indicazioni nazionali, vale a dire del nostro sistema scolastico nel suo complesso, non più la persona nella sua specificità come punto di partenza del processo di insegnamento-apprendimento ma la cultura di appartenenza come identità da acquisire, un’inversione netta da soggetto a oggetto dell’istruzione.

[1] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37
[2] idem. p.79
[3] idem. p. 100
[4] idem. p. 110
[5] Amin Maalouf, L’identità, Bompiani, 2005
[6] Annali della Pubblica Istruzione, Numero Speciale, 2012
[7] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37




Filosofia e storicismo, Croce e Gentile: alle radici della cultura italiana del ‘900

“Controversia sullo storicismo tra Tilgher, Croce e Gentile” è un saggio di filosofia della storia, composto da Paolino Mongiardo nel 1968 per la sua tesi di laurea, conseguita  nella facoltà di filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, dopo un percorso di studi svolto sotto la guida di pensatori della statura di Ugo Spirito, Natalino Sapegno, Guido Calogero, Ettore Paratore.

E’ una trattazione critica sul senso dello storicismo nelle due contrastanti posizioni di Croce e Gentile, da una parte, e il loro allievo Adriano Tilgher, dall’altra. Razionalisti, ottimisti e storicisti i primi due, dotati della serenità e freddezza necessaria ad evitare errori di valutazione, il terzo, istintivo, irrazionalista, antistoricista e pessimista fino al nichilismo. I primi due, dalla parola rasserenatrice, sostenitori di valori eterni che sempre trionfano e si affermano anche quando l’umanità si sente angosciata dalla mancanza di sicurezza e dalla sfiducia in quegli eterni valori, che vede perduti dinanzi alle distruzioni causate dalle due guerre mondiali.

Il significato pregnante di questo libro è da ravvisarsi nelle parole di Benedetto Croce nella parte conclusiva della trattazione: “E’ sull’istinto che trionfa la ragione inevitabilmente; è sempre sul male che trionfa il bene come un elemento susseguente della dialettica storicistica del mondo. E quando il bene trionfa di volta in volta sul male, la statura così dei singoli uomini come dei popoli si rinnovella e si fa più grande”.

In questa nuova riedizione del saggio, il prof. Mongiardo si propone di dimostrare che “anche quando l’umanità è angosciata dalla mancanza di sicurezza e dalla sfiducia verso valori eterni che sembrano andati perduti per sempre, come avvenuto all’epoca delle due guerre mondiali e come sempre avviene quando il senso della storia si fa tormentoso nei punti di crisi del divenire umano- afferma Mongiardo – sempre si eleva la parola rasserenatrice di Benedetto Croce, il filosofo dotato della serenità e freddezza necessarie ad evitare errori di valutazione, di contro agli istintivi e scalmanati irrazionalisti e nichilisti del tempo”.

Un testo ritenuto di grande pregio letterario, non solo per il significato filosofico dei contenuto trattati, ma anche per il fatto che al tempo della sua prima redazione, l’autore è stato il primo, tra gli appassionati di filosofia, a disquisire sull’accesa polemica Storicismo-Antistoricismo, condotta senza quartiere, nel periodo fra le due guerre mondiali, da Adriano Tilgher con Benedetto Croce e Giovanni Gentile, l’allievo contro i propri maestri, all’epoca inconcussi giganti del pensiero filosofico.

Questo testo di Paolino Mongiardo ha riscosso apprezzamento anche nell’ambiente accademico dieci anni più tardi, allorchè il professore Gianfranco Lami, ordinario di Filosofia del Diritto presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza di Roma”, scrisse una lettera al professore calabrese Paolino Mongiardo, cercandolo nel suo paese d’origine, per complimentarsi e per proporgli degli scambi di idee, al fine di acquisire materiale di studio utile a una sua opera di prossima pubblicazione.

Nell’introduzione al saggio, l’autore anticipa i motivi della controversia ideologica tra i tre filosofi.

Secondo Paolino Mongiardo “Il senso della storia si è sempre fatto quasi tormentoso nei punti di crisi del divenire umano; e non sempre è facile, proprio perché si tratta dell’affiorare di un tormento inquieto, o di un allarme confuso, distinguere nettamente i più seri profeti della crisi dagli incomposti gridatori e banditori dell’irrazionalismo e dell’attivismo, quali erano al tempo Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi: allora tutti i criteri che servono a distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il bene dal male si confondono in un’oscillante incertezza.  A noi oggi- prosegue l’autore- è dato meglio distinguere, specie in un momento storico come il nostro in cui tutto, o quasi tutto, è tornato alla normalità, e le stesse inconsulte profezie catastrofiche sono sfumate nel nulla, essendo uscita l’umanità dal baratro in cui era sembrata cadere, il giusto valore di quelle posizioni in contrasto. Oggi ci rendiamo meglio conto come la speculazione filosofica crociana, dura e severa scuola in un’epoca confusionaria che ha vinto sui deboli e ne ha ottenebrato il buon senso, sia stata davvero un faro luminoso nella storia del pensiero, e come ancora faccia luce fino a noi ancora oggi con tutta la forza di attualità che conserva inalterata fin da quando ha saputo tagliare le penne a tutti i sogni nietzschiani e sperellici, riportando tutti a guardarsi dentro e a studiarsi e a rifarsi con l’umile e paziente lavoro di ogni giorno; e da quando ha saputo specialmente invalidare ed escludere con rigore ogni residuo di una dialettica di soggetto e oggetto che da Fichte in poi ha immeritoriamente monopolizzato la discussione filosofica”.

Paolino Mongiardo nella sua trattazione filosofica delinea quelli che sono non dei punti fermi sul problema della storia umana e spirituale, bensì degli orientamenti “poiché esso – spiega- non si risolve, in ultima analisi, né con lo storicismo ottimistico del Croce, che è una sopravvalutazione della storia, né con l’antistoricismo, se questo fosse inteso non come ripudio delle esagerazioni storicistiche, ma come negazione o incomprensione della storia”.

Secondo Mongiardo “è sulla costruzione dello storicismo umanistico del Croce che si deve soprelevare se si vuole vedere più lontano e più chiaro nella direzione della storia e della cultura. Così come è indispensabile un riferimento continuo al pensiero del Tilgher se si vuole avere una chiara visione del mondo di noi uomini particolari, dove la negazione dei fatti storici contingenti, tendente a rivendicare la libertà e il valore della persona umana di contro a qualsiasi piano provvidenziale o finalismo teologico, toglierebbe ogni significato al nostro vivere e al nostro terreno destino”.