Bambini ucraini nelle scuole italiane. Accoglienza e solidarietà ma con equilibrio e prudenza

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di Raffaele Iosa

Dedicato a Kirill Yatsko, 18 mesi, morto per una bomba a Mariupol; ai suoi genitori Fedor e Maryna un abbraccio fortissimo

Leggo da più parti e ricevo telefonate da scuole e associazioni di volontariato già pronte all’accoglienza di questi bambini ucraini sconvolti dalla guerra nella loro patria e passati in quindici giorni da una vita normale ad un disastro umanitario. L’Italia è un paese generoso, a volte encomiabile anche fino agli eccessi.

Scrivo qui brevemente su alcuni aspetti problematici e rischi educativi-sociali che intravedo per la loro accoglienza, sui quali  i nostri italiani generosi pronti ad agire dovrebbero riflettere. Lo faccio anche sulla base della mia lunga esperienza decennale nel volontariato italiano, anche con ruoli internazionali,  verso i cd. “bambini di Cernobyl”, con circa 50 viaggi in quelle terre e molte esperienze di solidarietà e cooperazione decentrata non sempre facili,  a volte rischiose di ambiguità, ovviamente nel rispetto della buona fede di tutti.

Dunque: avremo forse 10.000 bambini e ragazzi ucraini che arriveranno da noi dopo drammatiche fughe. Effetti collaterali di una scandalosa guerra che sta sfasciando un paese. Il tutto in una decina di giorni, senza alcuna preparazione. Cioè non un progetto né una vacanza, ma un drammatico e dilaniante strappo delle abitudini e delle esperienze di vita. Strappo  che ha soprattutto lasciato in patria i loro babbi a combattere l’orso russo nemico. Dunque bambini profughi di guerra, con il groviglio di angosce, rancori, odio, paura che questo comporta. Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

Questi bambini arrivano in diverse condizioni: molti con la mamma e i fratelli, altri raggiungono nonne e parenti che lavorano in Italia, altri conoscenti ucraini paesani generosi. Ci sono poi anche gli orfani sociali, se si riuscirà a portarli da noi. Sono accolti in diversi modi: in centri di accoglienza, in famiglie, offrendo loro un appartamento, ecc… Fortunatamente con un contesto sociale italiano attorno a loro (per ora) molto disposto ad aiutarli e comprenderli.
Teniamone conto, però: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

Ma c’è di più: vengono da un paese quanto meno complesso già prima della guerra, in cui la transizione post-sovietica è stata scossa da molte turbolenze politiche, crisi economiche, vaso di coccio  geo-politico come paese di mezzo (u-Kraina vuol dire terra del confine), un’emigrazione economica a ovest cospicua,  tre chiese cristiane in guerra (religiosa) tra loro, grandi differenze tra città e campagna come in tutta l’Europa orientale dall’antica  Brest a Vladivostock. Una terra larga, dove le distanze sono dilatate, con vaste campagne, fitti boschi, larghi fiumi  paludi e laghi,  differenze climatiche cospicue, la mobilità faticosa. Ma anche un paese di grande cultura, ricchezze naturali, storia economica, risorse. Sfasciato dalle bombe.
Dunque bambini con la stessa nazionalità, ma con storie diverse, ognuno con un suo contesto culturale e sociale personale. Uniti dal passaporto e dalla fuga, in attesa ansiosa di avere notizie di vita dal padre rimasto laggiù in guerra. Ma anche bambini che vengono da una terra che sembra aver conosciuto, forse per la prima volta così forte,  una nuova identità di patria per merito di un presidente che ha dato loro  l’orgoglio nazionale.  Se fossero stati più grandi, avrebbero voluto restare in patria a combattere.
Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

E’ troppo presto, comunque, sapere quale sarà il loro destino a breve. Resteranno alcuni mesi? Resteranno anche di più? Resteranno per sempre? Chissà. L’incertezza è naturalmente grande e proprio questo mi obbliga a suggerire comportamenti riflessivi prudenti e non spontaneistici da parte degli italiani, in particolare degli insegnanti e dei servizi sociali del territorio, che siano  di matura saggezza ed equilibrio.
Questi suggerimenti per evitare errori di bontà e generosità che (in buona fede) rischiano di sradicarli dalle loro storie in una condizione esistenziale a rischio apolide. Cioè per amore e rispetto di questi bambini, per un aiuto gratuito senza pretese di “educarli” secondo i nostri stereotipi benevoli. Un aiuto capace di ascolto attento, di rispetto delle loro radici, di tenerezza e di solidità per garantire a loro il superamento del trauma, per la ripresa di un pensiero autonomo sulla speranza del proprio futuro personale.
Dunque, i bambini ucraini arrivano a scuola. Molto bene, il nostro paese ha (dice di avere) una grande tradizione inclusiva. Esce la parte migliore di noi. Siamo pronti. Ma come, con quali attenzioni e cautele?

Ne individuo, per la scuola,  in questa primissima fase, quattro in particolare.

  1. Offrire speciale normalità

Non è momento di far festa, né di attaccar bandierine di saluto,  né salamelecchi iper-affettivi né circondarli di curiosità. Non sono da esibire. Sono di passaggio, questo stanno (giustissimamente) pensando loro. Sperano in un passaggio il più breve possibile perché prima di tutto vogliono tornare (tutti) a casa.
Gentilezza, cortesia, rispetto da parte degli insegnanti e dei compagni. Meglio se sono insieme a connazionali o con lingue simili all’ucraino. Accoglienza soprattutto di conoscenza dell’ambiente scuola, meglio se in presenza di un adulto mediatore linguistico. Poi, piano piano adattamento e inclusione con le attività della classe, anche tarata sulle cose che gli piacciono di più. I primi giorni sarà dura, non scordatelo.
Temono il futuro. Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

  1. Conoscere meglio possibile le condizioni di partenza reciproche.

Se hanno la mamma o parenti è indispensabile un colloquio sereno e attivo su cosa potrebbe servire sviluppare nella sua scolarizzazione in Italia. Quindi notizie sulla sua esperienza scolastica in patria, informazioni sulla sua vita sociale, sul “chi è” del bambino/a, i suoi gusti i talenti le difficoltà, e poi individuare  cosa si potrebbe fare a scuola. Creare quindi un patto educativo temporaneo tra insegnanti  e adulti sul che fare in questo periodo, avendo il coraggio di non andare oltre alla fine dell’anno scolastico. Mi spiego bene: qualsiasi sia lo sviluppo della crisi ucraina, è evidente che nella mente del bambino e del ragazzo c’è oggi un unico desiderio: il ritorno a casa. Quindi potremmo favorire una pratica di “continuità” con quello che ha fatto il bambino finora in patria, sviluppare alcune esperienze aggiuntive nuove, ma soprattutto di “andare avanti” con l’apprendimento per non perdere l’anno. Non sembri strano: in Ucraina la scuola è una cosa seria, e lo sperdimento esistenziale del bambino  deve essere diluito dalla certezza che venendo nella nostra scuola non perderà l’anno scolastico, che sarebbe una seconda sconfitta di guerra. Potrebbe sembrare un pensiero banalmente utilitaristico, ma è invece un pezzetto di futuro che si salva.
Dunque la scuola deve condividere con la madre cosa intende fare con lui/lei e condividere le elazioni.

  1. Perdere tempo con l’ascolto

Poi, pian piano, se va meglio, passiamo con lui/lei del tempo a parlare, partendo dalle cose più semplici, anche del quotidiano, ma evitando sempre domande dirette o dando idea di curiosità improprie. Deve essere lui (se si fida) a raccontare del sé, la propria storia, i propri desideri e le proprie paure.
La cura educativa ci impone sobrietà, attenzione anche alle sfumature, feedback positivi sul proprio agire nell’apprendimento e nella relazione con i compagni. Soprattutto non diamogli alcuna idea di aver pena per la sua condizione, ma comprensione. L’ascolto attivo e a-valutativo è un aspetto delicatissimo della relazione educativa. In questa situazione traumatica va svolto con grande equilibrio.

  1. Lavorare in modo attivistico

Ovviamente, più la didattica quotidiana sarà di tipo attivistico, più il bambino/a potrà trovare forme di apprendimento e relazione anche per lui attive e quindi più facilmente collocabili in una rete di relazione tra pari, di cui dovrà sentirsi a volte “più avanti” a volte “più indietro” (secondo la scuola da cui proviene) ma sempre entro una rete di reciprocità e aiuto  che solleva l’anima, riduce la solitudine, crea amicizie.

  1. Progettare in rete

Dunque suggerisco una progettazione a breve che vada fino a giugno per la scuola, ma anche per la prossima estate se resterà tra di noi. Quini conta molto creare patti di comunità territoriali che da subito possano, oltre la scuola, offrire opportunità nel tempo libero e nella vita sociale di aggregazione, amicizie.
A sua scelta, naturalmente, non per seduzione di quanto siamo bravi noi. Sapendo che la solitudine e il pensiero triste sarà sempre presente finchè non si saprà meglio quale sarà il suo futuro più avanti, che è (ricordiamolo sempre) prioritariamente tornare a casa.
Teniamone conto: non è per amore e gioia che è arrivato da noi. Ma lavoriamo perchè torni a casa sua contento di averci conosciuti e sicuro di non aver perso ma guadagnato qualcosa anche dalla nostra scuola.