Il Forum regionale per l’educazione e la scuola del Piemonte ha approvato un interessante documento sul dibattito che si sta sviluppando sulle Indicazioni Nazionali.
Il Forum regionale per l’educazione e la scuola del Piemonte ha approvato un interessante documento sul dibattito che si sta sviluppando sulle Indicazioni Nazionali.
di Maurizio Parodi
La sola, paradossale consolazione, derivante da una profonda conoscenza del nostro sistema scolastico, è data dalla speranza che le “Nuove Indicazioni” seguano il corso delle precedenti, incomparabilmente più evolute sotto il profilo, culturale, pedagogico, didattico, ovvero che restino lettera morta, sopraffatte dalla granitica autoreferenzialità della scuola reale.
Va anche detto che di queste nuove indicazioni non vi era alcun bisogno, semmai si sarebbe dovuto cercare di rendere operative le precedenti, così come non vi è alcun bisogno di una nuova Costituzione, ma di dare piena applicazione alla vigente, giusto per fare un esempio non peregrino.
In questo caso, dunque, potrebbe essere non del tutto disdicevole la portentosa capacità, propria di un’organizzazione a “legami deboli e trascurati” (Pietro Romei), come è la nostra scuola, di neutralizzare qualsivoglia istanza di cambiamento, nel bene più che nel male, restando indefettibilmente ancorata alle logiche e alle ritualità dell’apparato burocratico.
Nondimeno, turba il richiamo a principi e valori che potremmo definire reazionari, segno di tempi bui, tenebrosi. Continua a leggere
di Cesp (Centro studi per la scuola pubblica) – Bologna
Pochi giorni fa è stata diffusa dal Ministero la prima bozza delle Nuove Indicazioni nazionali, dedicata alla scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado.
Si tratta di un documento di oltre 150 pagine, ridondante, contraddittorio nelle diverse parti, che si pone in netta discontinuità con le precedenti Indicazioni del 2012.
I tratti più forti che attraversano tutto il documento sono:
Un forte baricentro sulla cultura nazionale (la parola “occidente” o “occidentale” compare 26 volte) come fondamento dell’identità da trasmettere alle classi, senza alcuna apertura agli aspetti multiculturali della nostra società e all’idea di una costruzione interculturale e interattiva del sapere. Emblematica è la frase di apertura del curricolo di storia che perentoriamente asserisce: “Solo l’Occidente conosce la storia”. Un testo che mira senza nasconderlo ad imporre una nazionalizzazione delle/degli studenti con background migratorio.
Si richiama l’impegno alla “personalizzazione” (24 volte) come strategia educativa di accompagnamento nello sviluppo dei “talenti”. Tale ottica si pone nella prospettiva di ‘fotografare’ e sviluppare in ogni allievo e allieva le caratteristiche assunte dal contesto socioculturale di provenienza invece di impegnare la scuola a contrastare i limiti ereditati dal contesto sociale e a promuovere la realizzazione di ogni studente in relazione con le altre persone. La reintroduzione facoltativa del latino appare emblematica di questo uso dei presunti “talenti” come mascheramento di una precoce differenziazione dei percorsi. Continua a leggere
di Giovanni Fioravanti
Era il primo giorno del settembre 2023 quando è uscito il libretto a due mani di Ernesto Galli della Loggia e di Loredana Perla: Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo.
Con un artificio retorico si presentava come una sorta di promemoria, di appunti di lavoro. Ma subito dalla prima pagina formula la sua domanda dirompente: a cosa deve servire la scuola?
Che la pongano uno storico e una pedagogista fa specie e, dunque, è evidente che hanno già pronta la risposta che intendono fornire, convinti che la scuola debba piegarsi alla loro idea di formazione.
Sarebbe come chiedersi a cosa deve servire un ospedale. A curare i malati è ovvio, non c’è neppure bisogna di chiederselo.
Come la scuola serve ad istruire, in ogni società le giovani generazioni frequentano la scuola per essere istruite.
Se mai la domanda da porsi è come quella scuola debba istruire. Ed è la domanda a cui la pedagogia nella sua storia e più recentemente le scienze dell’educazione, le scienze umane, unitamente all’impegno professionale e culturale di tanti insegnanti hanno cercato di fornire risposte, adattandole alle rinnovate esigenze sociali e ai risultati delle ricerche in campo educativo e psicologico.
Invece la risposta dei nostri autori scavalca completamente la complessità della domanda che loro stessi pongono.
La risposta è formare gli italiani, educare le nuove generazioni all’identità italica. Sembra qualcosa di risorgimentale, alla Massimo D’Azeglio, ora che è fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani. Continua a leggere
All’indomani della audizione ufficiale davanti alla Commissione che sta lavorando alla stesura delle Nuove Indicazioni Nazionali, gli storici che si riconoscono nella Società Italiana di Didattica della Storia hanno diramato un interessante documento che qui riproponiamo.
di Alessandra Anzini
Perché quando sentono che il titolo della rubrica è “Apprendimento per via erotica” mi guardano stupiti o imbarazzati? Penseranno “…eppure sembrava una persona per bene”.
Platone nel IV sec a.C. nel Simposio racconta Eros come il Desiderio, l’unico canale possibile per accedere alla conoscenza del Bene, sia personale che collettivo. Lo spiega con il mito dell’unione tra Poro e Penìa, rispettivamente l’Espediente come capacità di trovare soluzioni e la Mancanza e avvenuta proprio il giorno della nascita di Afrodite.
Ma allora è un triangolo a tutti gli effetti!
MANCANZA che cerca attraverso l’ESPEDIENTE di arrivare alla BELLEZZA.
Inoltre l’etimologia di eros è il verbo greco eramai che vuol dire desiderare, azione che in sé ha uno slancio straordinario verso qualcosa di essenziale, fondamentale ma che non si possiede.
Eros “de-sidera”, dal latino letteralmente “assenti le stelle” con una tensione volta verso qualcosa che va oltre i bisogni sensibili, infatti termina la sua “ricerca” solo quando riconquista “le stelle” ossia la Conoscenza della Bellezza, intesa come Bene, Sapienza e Giustizia.
Per cui la quintessenza della personificazione dell’Eros è il Filosofo, che è colui che ama(filo) la Sapienza(sofia) e proprio perché gli manca, la cerca.
Ma solo se si incarna questo amore, traducendolo in un cambiamento completo della propria esistenza, ci si può definire filosofi, altrimenti si è solamente uno dei tanti intellettuali che ne parla. Continua a leggere
Con un documento diramato in queste ore, diverse associazioni professionali del mondo della scuola esprimono preoccupazione per la revisione delle Indicazioni nazionali, in particolare per le modalità con cui si sta conducendo il processo di ascolto e partecipazione.
In relazione alla convocazione prevista per il 21 marzo, le associazioni firmatarie (ANDIS, CIDI, Legambiente Scuola e Formazione, MCE, Proteo Fare Sapere) segnalano di essere state audite una sola volta, per pochi minuti, nella fase iniziale di giugno 2024.
Questo il documento delle associazioni.
di Marco Guastavigna
“Ho fatto un ppt. È proprio vero che il digitale è accattivante”
(frase diffusa nella docenza del terzo millennio, già in uso nell’ultimo decennio di quello precedente
La citazione contiene due espressioni molto diffuse, nonostante siano prive di un autentico significato. “Ppt” è infatti l’estensione associata ai file prodotti da Microsoft PowerPoint, mentre “il digitale” contiene un aggettivo protagonista di una straordinaria carriera lessicale: immediatamente sostantivato è diventato un concetto sempre più nebuloso e confuso, capace di sottendere realtà operative, cognitive e culturali molto diverse, anche opposte tra di loro. In particolare, vanno distinti con forza e chiarezza i dispositivi digitali estrattivi, con vocazione a estrazione di valore, profilazione e profitto, pervasivi e condizionanti, ad alto impatto ambientale, da quelli conviviali, finalizzati alla condivisione della conoscenza, aperta, equa, austera nel senso che a questa parola assegna Illich, adeguata alle situazioni, rispettosa dell’autonomia umana e dell’ecosistemi.
Questa classificazione, per altro, non è tecnica, ma civica, etica, ecologica, filosofica, giuridica (per via di copyright, autorialità, creative commons license e così via). E pertanto mette in discussione un’altra parola-ombrello, a sua volta naturalizzata senza che abbia assunto un indirizzo semantico certo e verificabile: innovazione. Anche questo termine è stato protagonista di uno straordinario cursus honorum: da mezzo è diventata fine. Con la grottesca conseguenze che si parla di “ambienti innovativi”, “metodi innovativi”, “didattica innovativa” e così via, senza rendersi conto che in questi casi ed altri andrebbe usato “innovat*”, facendo seguire all’aggettivazione una descrizione precisa di ciò che essa comprende e – più tardi – un’analisi critica e una puntuale verifica di esiti e risultati.
Una scuola e una mentalità impegnate a sopravvivere nella mercificazione universale e nella competizione come abitudine collettiva e quindi a rincorrere quanto il soluzionismo della logistica digitale capitalistica impone loro non hanno tempo – né desiderio – per queste riflessioni.
E quindi – a ostentare emancipazione professionale, disinvoltura operativa e appartenenza alla darwiniana nicchia di coloro che sono “tecnologici” – fioccano pseudo-condivisioni e ambiguità, da “fare un PDF” [perseverare diabolicum], a “intelligenza artificiale”, etichetta attualmente di moda e già azzoppata di “generativa”, storicamente utilizzata per definire intenzioni, approcci, risultati molto diversi tra loro.
Per non parlare della valenza assolutoria di abbreviazioni come “social”, che invisibilizzano i processi di pedinamento, la raccolta di dati per marketing e altre forme di pressione sugli utenti.
di Gianluca Gabrielli
Uno degli aspetti che più inquietano dell’universo culturale italiano risuonante negli ultimi giorni è lo spaesamento rispetto ad alcune categorie che ci pareva fossero sufficientemente acquisite.
Più o meno davamo per scontato che sposare ideologie identitarie, fossero esse nazionali, confederali o legate a definizioni come “Occidente”, producesse un arroccamento che azzerava le differenze, buono per andare in guerra, per creare nemici o capri espiatori, per rinforzarsi nella propria immagine lasciandone in ombra gli aspetti meno dignitosi, ma non certo utile per comprendere se stessi e gli altri, per accorgersi di ciò che dei presunti altri è in noi, per costruire relazioni e non scontri.
Negli ultimi giorni vediamo e ascoltiamo interventi che vanno in questa direzione, osserviamo una cultura del “noi” avanzare e affermarsi in modo inedito, attraversando inaspettatamente confini politici e culturali spesso ritenuti (forse a torto) distanti tra loro.
Prendiamo l’intervento di un noto cantautore ex insegnante, Roberto Vecchioni, che alla manifestazione del 15 marzo Una piazza per l’Europa afferma: “Vogliamo parlare di un gruppo di stati che vengono dalle stesse cose, dalle stesse tradizioni, siamo tutti indoeuropei, abbiamo avuto una filologia romanza, parliamo allo stesso modo, ci guardiamo allo stesso modo, abbiamo gli stessi proverbi, modi di dire, pensieri […] abbiamo libertà ovunque, abbiamo la democrazia, ma quella non ce l’hanno tutti, ce l’abbiamo noi. Che è un’invenzione […] dei Greci, che è arrivata fino a noi. Ora, chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico: io vi dico Socrate, vi dico Spinoza, Cartesio, vi dico Hegel, Marx e vi dico anche Shakespeare, vi dico Cervantes, vi dico Pirandello, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?[…]”
Davvero dobbiamo circoscrivere la nostra identità culturale all’uso delle “nostre tradizioni”, richiamare l’identità “indoeuropea”, sentirci superiori e unici nel mondo per una presunta ubiqua libertà? Davvero possiamo ignorare non solo le tradizioni culturali degli altri continenti ma soprattutto cancellare senza remore l’intenso intreccio che esse hanno creato con quella che viene definita “nostra” cultura? Continua a leggere
di Cinzia Mion
Vogliono annullare il paradigma culturale della complessità, asse portante del testo “Nuove indicazioni” precedenti!!!
A proposito di tale allarme desidero iniziare con un aneddoto.
Correva l’anno 2001 ed era appena successo un fatto molto grave ad opera di due adolescenti di Novi Ligure. Ricordo cosa ebbe a dire Massimo Picozzi, famoso neuropsichiatra interpellato su questi fatti (nei quali due adolescenti, Erika ed Omar, uccisero la madre di lei e il fratellino soltanto perché intralciavano con la loro presenza gli incontri tra loro): “Oggi ne’ la famiglia ne’ la scuola insegnano a pensare pensieri difficili!”
Da allora questa affermazione mi aveva sempre fatto rimuginare e ricordo che più volte avevo sottolineato la necessità che la scuola sollecitasse di più il pensiero critico fino a “predicare” la necessità di dare molto più spazio al “pensiero riflessivo” invece che al semplice pensiero “riflettente”, di pedissequa restituzione della lezione del docente o dello studio del libro di testo.
Avevo già scoperto il fascino della complessità acquistando il saggio “La sfida della complessità” a cura di Ceruti e Bocchi, che mi ha aperto la mente e dato una visione sul mondo molto più adeguata ai tempi. Continua a leggere