Fiorenzo Alfieri: la scuola e la città

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4 marzo 2014
Gianni Giardiello e Fiorenzo Alfieri a Drizzona (CR) in occasione del funerale di Mario Lodi

di Gianni Giardiello
(da un intervento al convegno: “Fiorenzo Alfieri amministratore: strategie di cambiamento” – Palazzo Civico, Torino, Sala rossa, 15 dicembre 2021)

  1. La biografia di Fiorenzo maestro è una biografia collettiva

Ho conosciuto Fiorenzo nei primi anni 60 all’Università di Torino. Lui, a 19 anni, era già insegnante di ruolo presso la scuola Nino Costa. Io, di tre anni più anziano, non avevo ancora deciso cosa fare nella vita.

A indirizzarmi dopo la laurea, nel 1964, verso il mestiere di maestro elementare, oltre che il bisogno di trovare una sistemazione stabile e retribuita, fu Fiorenzo che mi fece conoscere il Movimento di Cooperazione Educativa e mi fece vedere cosa stava facendo a scuola con i suoi 34 alunni e le tecniche della pedagogia popolare di Celestin Freinet. Con un gruppo di altri amici neo maestri torinesi era già stato al congresso annuale del MCE a Castiglioncello e aveva conosciuto e letto le esperienze straordinarie di insegnanti come Giovanna Legatti, Anna Fantini, Bruno Ciari, Mario Lodi.

Alla Facoltà di Pedagogia di Torino nell’istituto diretto da Francesco De Bartolomeis, si studiava Dewey e le scuole nuove europee. Fiorenzo, fresco di nomina alla scuola elementare Nino Costa e appena iscritto alla Facoltà, si mise a disposizione di un gruppo di lavoro sulle tecniche didattiche di C. Freinet. Quel piccolo gruppo non solò studio a fondo le tecniche, ma produsse anche dei materiali didattici fra cui un interessante schedario autocorrettivo per l’apprendimento della letto/ scrittura. Il gruppo si espanse abbastanza rapidamente al di fuori dell’Università, divenendo una realtà associativa di insegnanti innovatori e sperimentatori piuttosto importante per la città di Torino e dintorni. Alcuni incontri con i “grandi” del MCE contribuirono ad accrescere l’interesse della scuola torinese per questa nuova realtà associativa.

La mia narrazione di Fiorenzo maestro e uomo di scuola fra i primi anni ’60 e il 1975 non può che essere la biografia di quel magnifico gruppo a testimonianza della prima grande qualità di Fiorenzo Alfieri maestro: la propensione, quasi la necessità, sua a voler lavorare con altri, l’indispensabilità del gruppo per discutere, per fare ricerca e  sperimentazione, per costruire i materiali didattici da utilizzare a scuola, per condividere problemi, successi e, qualche volta anche dispiaceri, per evolvere insieme sul piano professionale e umano. In qualche caso anche solo per stare insieme. Basti pensare al processo di colonizzazione a cui sottoponemmo il paese di Champorcer, in Valle d’Aosta. Avevamo, nel giro di un paio d’anni occupato (ma regolarmente affittato) con consorti, figli e parenti per stare insieme d’estate e per sciare d’inverno, ogni disponibilità di alloggi, case, baite e scantinati di quel paese e delle vicine frazioni. Compensammo gli amici aostani contribuendo alla gestione di alcuni stages per insegnanti della valle.

 Facevamo il mestiere più bello del mondo

Il centro vitale del nostro stare insieme erano le nostre classi, per lo più sparse nei quartieri popolari e periferici della Città e della provincia, e i nostri alunni. Io avevo iniziato il lavoro con una classe terza di 32 alunni maschi del quartiere Lucento a poche centinaia di metri dalla Nino Costa. E capii subito che quello che avevo intrapreso era davvero “il mestiere più bello e appassionante del mondo”, come Fiorenzo racconta in un intervento ad un convegno a Moncalieri del 2004:  “Era una fortuna fare un mestiere del genere per un ragazzo di 19 anni e mi dicevo che avrei dovuto pagare io lo Stato per la gioia che mi permetteva di provare ogni mattina …. E poi aggiungeva sottovoce “non dovrei dirlo, è un pensiero talmente antisindacale che dovetti tenerlo per me e per i miei amici più stretti ….”
“Una gioia che scaturiva dal divertimento personale nello scoprire il mondo insieme a dei bambini interessati a tutto, …. E anche dalla consapevolezza che quell’esperienza educativa avrebbe potuto avere conseguenze positive per la società in cui quei ragazzi si preparavano a svolgere il mestiere di cittadini.
Questi due valori: quello personale e quello sociale erano le due facce di una stessa medaglia per me e per i miei colleghi di allora, e continuano ad esserlo fortunatamente per tante persone impegnate nella scuola torinese ancora oggi.” 

Ma si tratta di un mestiere complicato

Ma fare il maestro era anche un mestiere complesso, un mestiere in progress, si direbbe oggi, che richiede capacità di azione e reazione, che agisce in situazioni fluide, in continua modificazione.

La scuola è in effetti per definizione un “ambiente per l’apprendimento”, in cui l’insegnante ha soprattutto il compito, molto artigianale, di predisporre, organizzare e proporre situazioni, materiali, conoscenze, tecniche e tecnologie ecc.

Un mestiere impegnativo, soprattutto se si voleva farlo bene. Era necessario leggere, discutere, progettare e collaborare con altri e, soprattutto studiare. Sono stati parecchi gli autori e gli esperti di riferimento di quel felice momento di confronto e di dialogo in cui volevamo approfondire non solo l’uso delle tecniche, ma anche, e questo fu un segno distintivo del gruppo MCE di Torino, le aree disciplinari partendo dalle singole epistemologie per le scienze naturali e fisiche, per la lingua, la matematica, le scienze dell’uomo, le discipline artistiche e facendoci aiutare da esperti, negli stage di aggiornamento che facevamo (pagando di tasca nostra) in estate .

Noi leggevamo, studiavamo e discutevamo molto

Rispondendo ad una domanda rivoltagli da un giovane che stava preparando una tesi di dottorato, Fiorenzo sottolineava come in quegli anni avessimo fatto “una bella insalatona di autori mescolando autori europei, Piaget, Freinet De Bartolomeis, e poi Morin e Bateson,, americani da Dewey a Bruner e  Dienes, fino a Gardner, e russi, soprattutto Vygotskij”.

Ma ciascuno di loro ci aveva fornito alcune chiavi importanti per capire e interpretare il nostro mestiere:

“Dewey in “Scuola e società” aveva buttato sul tavolo un macigno: “se tutto quello che si fa nella scuola non ha una ricaduta sulla società è del tutto inutile”.
“Il nostro piccolo Freinet ne ha ricavato la tipografia a scuola: fin dal primo giorno il pensiero più bello che è venuto fuori in classe deve essere stampato e portato immediatamente a casa per farlo leggere ai genitori e ai fratelli. Una tecnica questa che ha dentro di sé un valore sociale straordinario.”

 E insieme un valore educativo fortissimo poiché, come ci aveva detto De Bartolomeis all’Università, promuove e libera un bisogno fondamentale dei bambini: il bisogno di esprimersi e di comunicare con gli altri.

“… e Bruner soprattutto nella “La ricerca del significato” (questo è il libro che venne poi a presentare a Torino), dice che la cultura è negoziazione di significati all’interno di un gruppo, e che si realizza attraverso la narrazione.

 Ma è stato soprattutto Lev Semenovic Vygotskij, avanzando forti dubbi sulla rigidità della “stadizzazione” dello sviluppo infantile proposta da Piaget e criticando il suo concentrarsi su un solo tipo di intelligenza, quella logico matematica, per descrivere i caratteri e la qualità dello sviluppo infantile, a consegnarci una concezione della conoscenza, e del compito dell’insegnante, illuminante:

(…) nel processo di insegnamento apprendimento occorre che la proposta di apprendimento, il “lavoro” o l’attività che si propone ai singoli allievi, si situi  nella zona prossimale  al livello del possibile sviluppo successivo. Questo per poter agganciare e coinvolgere l’interesse e le competenze specifiche di ciascun allievo e, nello stesso tempo, essere in grado di favorirne un ulteriore sviluppo”
Gardner ha completato, con la teoria delle intelligenze multiple, la critica al Piaget  “ (…) l’intelligenza, e tutti noi “bambinologi” lo sappiamo da sempre, presupposta da Piaget era solo una delle intelligenze possibili: quella logico-matematica. E tutte le altre dove le mettiamo? Quanti bambini dimostrano fin dal primo anno di vita di preferire un certo modo “di mettere in forma il mondo” agli altri possibili? ma malgrado questo siamo andati dietro a Piaget quando platealmente negli skreening sottoponeva le sue “cavie” esclusivamente a test di natura logico-matematica. (…)

Insomma, se mettiamo insieme i riferimenti che ho rapidamente richiamato a Vigotskij, a Dewey, a Bruner, a Freinet, nel suo piccolo anche a Gardner (anche lui venne a Torino nel ’97, per l’apertura del convegno che ha chiuso il centenario della nascita di Freinet) viene fuori un sistema concettuale importante sia per la pedagogia, che per la politica, Come certamente sarebbe piaciuto a Gramsci”.

 C’era e ancor più oggi c’è, un gran bisogno di formazione. Ruolo dell’Università nella formazione iniziale e ruolo della amministrazione scolastica in quello in itinere

In effetti ciò di cui oggi ha più bisogno la scuola è di insegnanti preparati sul terreno pedagogico, e su come vanno impostati e governati i processi di insegnamento/e apprendimento ai vari livelli di età per garantire che tutti gli allievi raggiungano un livello di competenze e di conoscenze di alta qualità, cosi come richiesto anche dalla nostra Costituzione.

Di formazione professionale iniziale, l’Università offre assai poco. Di Pedagogia, di metodi e tecniche dell’insegnamento, di come funziona la mente quando si impara, di cosa comporti il farsi del pensiero tra emozione e cognizione, di come elaboriamo le esperienze e di come acquisiamo le conoscenze, si parla assai poco; di queste cose i futuri insegnanti non studiano, non raccontano e non sperimentano pressochè nulla.

E poco o nulla si recupera con la formazione in servizio, che non è un obbligo, ed è fruita solo in modo sporadico e occasionale. Sono peraltro anche venute meno le uniche strutture istituzionali, come gli IRRSAE, in grado forse di promuovere e gestire programmi di formazione organici e per tutti i docenti.

Con Fiorenzo all’IRRSAE Piemonte negli anni 85 /90 promuovemmo un Piano Pluriennale di Formazione sui Nuovi Programmi di studio della scuola elementare emanati nel 1985, che fu seguito da tutti i 30 mila insegnanti piemontesi. Con sussidi audiovisivi, libri, schede didattiche e conduttori appositamente preparati dall’Istituto.

Fiorenzo, formatore MCE Dirigente scolastico e successivamente ricercatore e docente presso scienze della formazione primaria all’Università di Torino, e componente del Consiglio Direttivo nell’IRRSAE Piemonte, ha sempre messo al centro del suo lavoro e delle sue narrazioni, la visione di un scuola impegnativa, esigente e vitale, capace di promuovere, nonostante difficoltà e tagli irresponsabili,  una educazione di qualità  come quella che eravamo riusciti a proporre nelle scuole a Tempo Pieno negli anni ’70/80 e che ancora, per fortuna, caratterizza molte esperienze delle scuole di base del nostro Paese .

E insieme allo studio e all’approfondimento sulla didattica delle discipline, si faceva politica.

Tra il 65 e il 75 abbiamo vissuto un periodo straordinario, ricco di battaglie e di “ciclostilati”. Il nostro lavoro nelle scuole di base infanzia, elementare e media e, soprattutto, la nostra pedagogia viva, concreta che rivoluzionava il rapporto docente-classe per aprirsi ad una progettazione collaborativa, interdisciplinare, di laboratorio e di ricerca, era molto in sintonia con la visione del mondo che si manifestava nella contestazione studentesca, negli scioperi per una diversa organizzazione del lavoro e per il diritto allo studio, per le 150 ore, per lo Statuto dei lavoratori, nelle grandi adunate contro la guerra e contro le discriminazioni razziali, nelle lotte contro le diseguaglianze sociali ed economiche che evidenziavano quanto profondo fosse il malessere sociale. Facemmo manifestazioni e battaglie contro la selezione e la discriminazione sociale nella scuola, il tempo pieno, l’istituzione della scuola dell’infanzia statale, arrivammo a proporre come forma di protesta il voto uguale per tutti gli alunni, chiedemmo e praticammo l’abolizione del libro di testo in favore della costituzione di biblioteche di classe e di scuola proponemmo e praticammo l’integrazione nelle nostre classi dei bimbi con disabilità. E in verità qualche successo istituzionale lo ottenemmo.

Il tempo pieno nasce nelle classi con insegnanti MCE

 Antesignane furono due classi, quella di Fiorenzo e quella di Daria Ridolfi, della Nino Costa. Si trattò in effetti di una rivoluzione del vecchio doposcuola che il Patronato scolastico elargiva per i più poveri. Ottenuta dalla amministrazione comunale (democristiana!) la mensa gratuita per tutti gli allievi, si realizzò già nel 69/70, per tutte le due classi, un tempo scuola di otto ore (dalle 8,30 alle16,30), utilizzando anche gli insegnanti doposcuolisti, E questo prima ancora della emanazione della legge 820 che con l’anno scolastico 1971/ 72 istitutiva il Tempo Pieno, con due insegnanti statali per ogni classe,

L’MCE di Torino aveva proposto il modello Nino Costa alle altre scuole con tranquilla sicurezza pedagogica: La scuola giusta ha bisogno di più tempo: quel tempo pieno propose cioè alla attenzione della città la possibilità di una nuova pedagogia, di alto profilo culturale, aperta al territorio e alle sue risorse, capace di abituare ragazzi e famiglie alla bellezza dello stare e lavorare insieme, alla importanza di leggere buoni libri, di fare o ascoltare buona musica, di organizzarsi per vedere mostre e musei, di fare feste e iniziative nel quartiere.

Fiorenzo in un suo libro “La città che non c’era”, ne sottolinea un aspetto decisivo: “L’ambizione di noi insegnanti fu sempre quella di contrastare il principio secondo cui l’offerta educativa e culturale, se vuole davvero incontrare gli strati più popolari, deve necessariamente abbassare il proprio livello. Cercammo di dimostrare l’esatto contrario e cioè che, lavorando in un certo modo con i bambini e con le loro famiglie, si poteva produrre il “miracolo” di ottenere una qualità pari se non superiore a quella riscontrabile in ambienti socialmente più avvantaggiati.”

 Era, ed è, un’idea forte che nasce dall’esigenza pedagogica di poter svolgere interamente in scuola tutte le attività necessarie ad apprendere, cercando di contrastare in classe le difficoltà e i ritardi dei più fragili e, culturalmente, più indifesi. Il che si coniuga assai bene con le esigenze delle molte famiglie, soprattutto di quelle in cui ambedue i genitori lavorano, che ritengono fondamentale che i loro figli abbiano a scuola il tempo “necessario” per garantire a tutti gli apprendimenti e la conquista degli alfabeti fondamentali, per poter leggere, per poter sperimentare la propria creatività, per riflettere criticamente e fare ricerca, per confrontarsi fra pari, per produrre conoscenza e sviluppare competenze al meglio possibile e soprattutto, per imparare ad esprimersi e a comunicare,

Ce lo ricorda Franco Lorenzoni, in un articolo su Internazionale, riportando la testimonianza di un ex allievo di Fiorenzo giunto alla Nino Costa in quegli anni, come tanti altri, dal Sud: “Non riuscivo a parlare tanto bene. Parlavo in dialetto, non capivo la lingua italiana e scrivevo male. In Puglia mi avevano bocciato due anni anche perché aiutavo mia madre a lavorare. A Torino ho cominciato a capire parlando. Il maestro mi faceva parlare molto, mi ha insegnato pure a discutere, perché io nelle altre classi non ero capace a discutere, non si parlava mai, chi parlava pigliava un 5 o un 4. Qui adesso sono libero di parlare”.

 Il TP diventa la bandiera della scuola torinese

 Quel Tempo Pieno progettato e realizzato alla Nino Costa e in alcune altre scuole della periferia popolare e operaia di Torino dai maestri MCE, divenne la bandiera della scuola torinese e per oltre un decennio, a partire dai primi anni ‘70, la scuola fu al centro delle politiche scolastiche e sociali della città e di molti comuni della provincia. Il sindaco comunista Diego Novelli nel 1975 diceva spesso questa frase: “la città deve investire non solo sulle traversine dei tram e sui mattoni, ma anche sulle coscienze”. E il neo assessore all’istruzione di quegli anni, Gianni Dolino, già direttore didattico molto vicino al MCE, completava cosi quello slogan: “Se vogliamo investire nelle coscienze, se vogliamo formare dei cittadini migliori di noi, allora non possiamo scaricare responsabilità di questa portata tutte sulla scuola. Dobbiamo trasformare la città in una grande scuola: solo così potremo aspettarci che gli alunni di domani siano davvero dei buoni cittadini”.

 L’assessore all’istruzione Gianni Dolino, fino a pochi mesi prima direttore didattico alla Casati, con la complicità di Alfieri, neo assessore alla gioventù, e prendendo in contropiede lo stesso sindaco Novelli, fece passare in giunta una delibera a sorpresa che destinava ai servizi educativi una cifra enorme, mai vista prima di allora.

 La città “educativa”

 Ne derivò – raccontava Fiorenzo, commemorando in questa stessa sala la figura di Gianni Dolino –  un dossier di occasioni culturali di impressionante vastità e varietà, che veniva messo ogni anno a disposizione delle scuole, insieme ad animatori e educatori presenti in tutti i 23 quartieri della Città.  Risorse e disponibilità, che certamente contribuirono a fare della scuola di allora uno strumento essenziale per aggregare, per fare comunità”, per riuscire a compiere quella straordinaria opera di integrazione sociale e culturale che “rimescolò” oltre mezzo milione di nuovi cittadini con l’altro mezzo milione di torinesi d’origine. Una lezione che oggi non dovremmo dimenticare”.

E aggiungeva: “Si parla tanto, infatti, di rompere i ghetti urbani, ma è difficile poi accettare il principio che il modo migliore per farlo stia nel creare in periferia servizi migliori di quelli che si trovano nelle zone considerate privilegiate, fino a indurre i ceti medio-alti a complicarsi la vita pur di mettere a disposizione dei loro figli certi modi di stare insieme e di capire il mondo”.
E quale prezioso contributo Fiorenzo Alfieri, diventato assessore, ma rimasto soprattutto maestro, abbia dato alla realizzazione di questa idea ce lo hanno già chiarito molti degli interventi in occasione di questo convegno a cominciare da quelli degli ex sindaci torinesi Castellani e Chiamparino, che con lui hanno amministrato questa città nei successivi decenni.
Fiorenzo, costruttore culturale, propose e lavorò fin dalle prime esperienze di assessorato (già a partire dal l976), intorno al progetto di una città aperta, dialogante, capace di mettersi al servizio della scuola, cosi come da maestro, aveva praticato una pedagogia e una didattica che faceva della città, delle sue ricchezze ambientali, umane e culturali, ma anche dei suoi problemi e delle sue contraddizioni, una base ineludibile del processo di istruzione della scuola.
Una città “educativa”, in grado cioè di offrire alle scuole luoghi e occasioni perché lo studio e la ricerca possano intrecciarsi con la vita concreta del lavoro, dei mestieri e delle professioni, dei servizi, delle istituzioni culturali, e dei cittadini.

Ma soprattutto una città è “educativa” se è capace di riconoscere e apprezzare il lavoro di istruzione di tutti i cittadini che la scuola pubblica è chiamata a compiere dalla nostra Costituzione, e l’importanza del contributo che essa può dare nei processi di educazione alla cittadinanza, alla convivenza civile e alla democrazia.

Gli insegnanti, i dirigenti, gli operatori scolastici e quindi i ragazzi e le loro famiglie hanno un assoluto bisogno di questa attenzione, condizione essenziale perché la scuola svolga al meglio i suoi compiti cosi come prevede la nostra costituzione, che sappia dare la parola a tutti i piccoli e giovani cittadini che vengono a lei affidati, abituandoli alla bellezza e importanza delle conoscenze, aiutandoli a raccontare ed elaborare criticamente le loro esperienze, dando loro occasioni e strumenti per leggere e studiare, per esprimersi e comunicare, aiutandoli a costruire le loro idee sul mondo attraverso la riflessione critica, la ricerca, e il confronto con gli altri.

 “Bisogna usare la città come grande scuola – diceva Alfieri, ed è un messaggio che, mi auguro, anche sia gli insegnanti che gli amministratori della città saranno capaci di riproporre e perseguire, un eredità preziosa da non disperdere.