Ucraina/Italia, education in wartime

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di Raffaele Iosa

Commento qui la fresca nota del 24 marzo scorso di Stefano Versari, Capo dipartimento M.I. dal titolo “Studenti profughi dall’Ucraina. Contributi alla riflessione pedagogica e didattica”.
La nota è accompagnata da un testo di “spunti” psico-pedagogici di riflessione ripresi dai diversi commenti usciti finora, tra i quali trovo analogie con i miei scritti di questo mese. Segue poi una prima sitografia web sull’accoglienza, da cui caldeggio di aprire il web del Ministero Ucraino per conoscere la loro scuola, come funziona, i loro programmi.
Nel sito c’è una parte importante che gli insegnanti italiani accoglienti non possono perdere, titolo “Education in wartime” ,  in cui ci sono molte informazioni su cosa fa l’Ucraina per i suoi studenti al tempo della guerra: le forme virtuali di insegnamento, una piattaforma di lezioni online, le possibili pratiche di Dad interne ed estere, proposte sul piano psico-pedagogico ai paesi europei accoglienti per i loro bambini e ragazzi in questo tempo terribile.

Come ho già scritto, trovo eccezionale come valore civile e pedagogico l’ attenzione ucraina ai loro ragazzi. Soprattutto la loro Dad, che molti insegnanti italiani hanno scoperto con sorpresa funziona già (e con successo) anche da noi con alcune ore al giorno di lezioni-contatto tra insegnanti ucraini e i loro ragazzi, possibile per quasi tutti i loro studenti arrivati da noi. Un contatto quotidiano che ricrea un legame, rende più mite la fuga, crea speranza per il ritorno. La scuola non si ferma davanti alla guerra: è un messaggio importante per loro, ma anche istruttivo per noi su cosa fare per loro. La pedagogia del ritorno.

Ma prima di commentare, mi piace segnalare una notizia giunta dall’Ucraina ieri, a un mese dalla guerra. In un oblast a sud di Kyev hanno riaperto le scuole. L’hanno fatto come possibile, con gli insegnanti rimasti lì, se le scuole sono accessibili, e se non possibile hanno rinforzato la Dad. Grande gioia di bambini e ragazzi. Al vecchio io pedagogo la notizia commuove: la scuola come ritorno alla vita e speranza, come comunità che si reincontra. Strano paese l’ Ucraina che neppure sotto le bombe non molla i suoi piccoli.
Ma anche un po’ sorrido di questa decisione, per un aspetto tipico dei popoli del burian, nelle terre dove i venti artici del sybir soffiano duro in inverno portando temperature polari.
Laggiu nei tempi “normali” se la temperatura va sotto i -18 gradi, con neve a terra, le scuole si chiudono.
E i bambini ucraini (come i vicini del burian) sperano che accada per avere un giorno di vacanza. Tutto il mondo bambino è paese: anche i nostri aspettano la neve, ma quelli del burian ci prendono in giro perché a noi bastano due centimetri.
Ho consolato più volte la rabbia invidiosa dei ragazzini orfani degli internati perchè, con i dormitori dentro la scuola, vanno a lezione lo stesso. La loro forma di “rivolta” alla discriminazione è di andarci in ciabatte. Uno dei tanti modi di dirci la loro voglia di una casa. Le insegnanti capiscono e lasciano correre.

Torniamo alla nota Versari da cui sono partito. Questa nota è sobria, essenziale, riflessiva. Non comanda “istruzioni per l’uso” né procedimenti amministrativi, né impone didattiche come il Ministero in questi 20 anni ci ha abituati esondando con ukaze anti-autonomia. E’ consona alla gravità di questo evento.
La penna che ha scritto sembra condividere la nostra stessa sofferenza per questi bambini e ragazzi che arrivano scappando dalla guerra. Si tratta di “spunti”, di “riflessioni” e di “materiali” per condividere con gli insegnanti una visione dell’evento traumatico della fuga e il senso della nostra comunità educativa. E ci sollecita a comprendere che siamo davanti ad un’ emigrazione del tutto diversa da quella dei migranti economici. Assomiglia per alcuni versi, e per capirci, a quella dei bambini siriani o afgani, verso cui forse (bisogna ammetterlo) abbiamo avuto meno sensibilità.
La riflessione sul desiderio del ritorno come meta intima della loro fuga è centrale per la nostra azione pedagogica e didattica nell’emergenza attuale e anche più avanti. Ogni mamma ucraina è scappata con i suoi figli portando in borsetta tre cose che non può perdere: le chiavi di casa, una foto di tutta la famiglia insieme quando la vita andava, un cellulare per sentire il marito/compagno padre dei bambini rimasto laggiù per combattere.
Nell’accoglierli dobbiamo sapere che a qualche bambino o ragazzo arriverà una telefonata tragica o non arriverà più la telefonata. E per quest’uomo/padre rimasto laggiù neppure un funerale sarà possibile.
Dobbiamo essere consapevoli della loro condizione esistenziale. Nella disperazione della loro fuga li fa sopravvivere la speranza di salvarsi per il ritorno a casa.
Importante, nella nota, aver ricordato la resilienza che sa oltrepassare il dolore. Spesso i bambini hanno la capacità di essere più resilienti di noi adulti. Va valorizzata, accolta con pienezza e serietà. Questi bambini non meritano l’assistenzialismo piagnone di cui siamo spesso capaci, meritano speranza e coraggio.
Per questo la sobrietà, la ponderatezza dei nostri gesti, l’empatia educativa e umana sono architravi del nostro possibile agire. Mi ha colpito in questa nota la frase: “Non tutto quello che a noi pare giusto effettivamente fa il bene dell’altro”. Suggerisce di avere ponderazione nei nostri gesti di presunta “generosità” e ”vicinanza chiassosa” che rischia di passare per compassione e accentuare in loro lo stress, di schiacciarli “amorevolmente” alla condizione di poverini.
Quindi: poche feste, pifferi e tamburi al loro arrivo, poca televisione o racconti autocelebrativi nei siti di quanto sono brave le scuole (non loro). Piuttosto, come cita la nota: empatia vera, soprattutto ascolto, condizione paritaria di amicizia tra bambini (il miglior lenitivo), e ricordarsi anche delle mamme, che forse un incontro tra tutti i genitori sarebbe utile.

La nota definisce in modo generale quelle che sono di fatto le tre possibili tappe della nostra accoglienza.
E’ giusto, infatti avere una prospettiva, per quanto sia possibile a guerra ancora in corso.
La prima, chiamata del tempo lento dell’accoglienza è quella di questi giorni e del loro inserimento. L’idea della lentezza è sacrosanta, parte dalla condizione umana dell’altro, sa attendere, non anticipa, non fa domande invadenti, apre alla socializzazione, offre le prime competenze di italiano, decanta con mitezza e rispetto i traumi, e soprattutto fa il possibile per dare continuità ai percorsi di istruzione interrotto. Elemento questo per me decisivo per garantir loro la speranza del ritorno, in qualsiasi momento verrà.

Qui mi aspettavo una citazione della Dad tra Ucraina e Italia che molti di loro già fanno da noi. La dizione “continuità del percorso di istruzione” rende ovvio favorire per noi in Italia questa Dad, farne anzi un asse strategico di questa sorprendente creatività educativa dei nostri colleghi ucraini sotto le bombe, dentro i rifugi e gli scantinati. Ho capito però il perché, nella nota, della genericità sulla Dad ucraina perché è in corso una condivisione più strutturata della scolarizzazione dei nostri piccoli ospiti ucraini con il loro Ministero e con tutti i paesi d’Europa.

Dovrebbe riguardare non solo come garantire la migliore possibile continuità, ma anche ad esempio come fare gli esami per i ragazzi della classe 9 e della classe 12.
I miracoli del digitale possono darci soluzioni semplici e interessanti. Quindi attendiamo tra poco nuove indicazioni secondo l’accordo, com’è giusto. D’altra parte l’ha anticipato la ministra Gelmini, in un’intervista dove “rivela” che Bianchi lavora all’ accordo, uscita lo stesso giorno della nota Versari. Ricordo comunque che questa fase dura per i prossimi tre mesi, quindi un tempo davvero della lentezza e dell’amicizia.

La seconda parte riguarda l’estate. E cita la relazione tra la scuola e gli enti del territorio per attivare iniziative sociali, sportive, del tempo libero ricche di opportunità, secondo la logica dei patti di comunità già sperimentati nel 2021 ai tempi del COVID.
Mi permetto, a chi serve, di proporre di scaricare (è gratis)  l’e-book “estate educativa” che ho scritto con Massimo Nutini.

Sulla terza fase, detta di integrazione scolastica, la nota Versari rimane giustamente generica. Oggi non abbiamo alcuna certezza di come andrà a finire in Ucraina. Ci penseremo con calma nei prossimi mesi, che però non sono così lontani. Quanti resteranno? Quanto resteranno? Possiamo solo fare ipotesi di una possibile integrazione e rifletterci. Il modello più secco e arido è quello che pare stiano prendendo la Romania e la Polonia (disabituate ai processi inclusivi) che sembrano prevedere una specie di provvisoria scuola ucraina all’estero. L’unica attenuante a questa soluzione è che in quei due paesi i bambini profughi sono di gran lunga più che da noi. Col rischio però di una pedagogia dei separati in casa.
A me piace invece pensare per l’anno scolastico prossimo (anche per la tradizione italiana) una specie di pedagogia del binario. Mi spiego: inclusione nelle classi italiane con il mantenimento parallelo (il binario) della Dad dall’Ucraina o la presenza di un insegnante ucraino come supporto in rete e le altre attività con i compagni italiani.
Un percorso didattico meticcio dove i due binari corrono parallelamente, anzi uno può insegnare qualcosa all’altro. E’ una suggestione pedagogica inclusiva da approfondire. Come è da approfondire cosa voglia dire davvero la pedagogia del ritorno. Non abbiamo esperienze pregresse da seguire, qui dobbiamo creare. E in pedagogia creare il nuovo è la sua essenza umana migliore. Detta in poche parole: una pedagogia che arricchisce tutti (loro e noi), che farà festa quando loro partiranno, che avremo amici per sempre perché nel loro momento più tragico siamo stati vicini senza invadenza, senza scippare la lingua, senza pietismi. Ci diremo grazie reciprocamente, perché ci siamo imparati l’un l’altro.

Ci tengo inoltre a citare e commentare qui la frase finale con cui termina la nota Versari, perché nei contenuti intravedo anche una radicale inversione di rotta del Ministero sugli affari dei bambini che “stanno male”. Quando l’lo letta la prima volta nel cellulare, mi è caduto di mano dalla sorpresa.
“..In conclusione, merita sottolineare ancora una volta l’importanza dell’accoglienza e dell’inclusione degli studenti profughi nelle nostre comunità scolastiche e delle loro famiglie nella società civile. Le ferite del corpo sono visibili e richiamano immediatamente l’ospedale e le cure. Le ferite peggiori, tuttavia, sono quelle che non si vedono ad occhio nudo. La scuola è luogo in cui, attraverso molteplici forme di insegnamento e di relazioni educative, si crescono nuove generazioni e, quando purtroppo occorre, si curano le ferite dell’anima. Non con la medicina, non con la terapia, ma con l’umanità, utilizzando gli strumenti della pedagogia e della didattica..”

La pedagogia e la didattica sono umanità, e le ferite che non si vedono a occhio nudo si curano con l’anima della pedagogia, non con la medicina, non con la terapia. Torna l’I CARE donmilaniano e l’orgoglio della pedagogia. Messaggio chiaro e in netta controtendenza dopo un ventennio di frenetica invenzione di sigle, codici, pdp, dispensativi e compensativi con l’esplosione della medicalizzazione dell’anima dei nostri bambini e ragazzi inquieti, incerti, svogliati, complicati.
Un messaggio contro la perversa iatrogenesi che ad ogni gesto incerto della vita crea l’isolazione della persona in un sintomo, un male, una diagnosi, una cosa che con una “tecnica” pseudo-scientifica si dovrà curare. Una scuola che abbandona il grembiule e adotta il camice. Chi mi conosce sa quanto mi sono battuto contro la medicalizzazione della scuola. Ci volevano i bambini ucraini da noi e una guerra per capire quanto è pericolosa quella strada.

Dulcis in fundo. Ricevo molti messaggi in risposta ai miei testi. E richieste di partecipare ad una qualche riunione di approfondimento. Qui confermo che dirò sempre sì, nei limiti del possibile, e sempre gratis, perché non è tempo di speculare su un così grande dolore. E poi perché, come sanno i mie lettori, c’è un pezzo di cuore che mi è rimasto lì, per la mia esperienza di volontariato verso i cd. bambini di Chernobyl.