Apologia dell’educare: dai conflitti al dialogo

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spiraledi Raimondo Giunta

    • Il compito dell’educazione è inerente al rapporto, comunque configurato, tra adulti e nuove generazioni; lo si svolge e accade anche a prescindere dalla intenzione di assumerne la responsabilità.
      Le figure maggiormente coinvolte sono quelle dei genitori e quelle degli insegnanti, per la costanza dei rapporti che i primi hanno con i figli e gli altri con gli alunni e per la specificità dei compiti che devono assolvere nei loro confronti.
      Ma chiaramente non sono i soli ad avere questa responsabilità.
      In queste riflessioni ci si soffermerà sugli insegnanti e sulla scuola.
    • Il compito di educare le nuove generazioni oggi non è per nulla facile, ma presenterebbe minori problemi, se il rapporto tra scuola e famiglie nel tempo non si fosse incrinato per conflitti, recriminazioni e sfiducia e se si potesse comporre armonicamente le reciproche responsabilità.
      Uno dei motivi più seri di questa frattura è la difficoltà di comprendere che la scuola nella sua funzione educativa non è la prosecuzione lineare delle esigenze delle famiglie, perchè queste sono molto diverse l’una dall’altra per interessi, condizione sociale, convinzioni politiche e religiose e anche per provenienza etnica. Come istituzione pubblica la scuola condivide la logica delle relazioni, delle regole e dei principi della più ampia comunità che è la società di appartenenza.
      A scuola si mette in comune ciò che è comune e che può essere comune per tutte le famiglie. La scuola nell’esercizio delle proprie funzioni è separata rispetto alla società; ha un suo spazio che deve avere le proprie regole e se non può andare contro il mondo, non è nemmeno al semplice servizio delle famiglie. Avendo compiti pubblici inevitabilmente è altra rispetto alle singole convenienze e se può mediare, non può accondiscendere. In una società democratica la separazione dei poteri educativi è importante come quella dei poteri dello Stato (Philippe Meirieu).
      Separazione che funziona nella reciproca accettazione delle ragioni della propria esistenza. I poteri dello Stato, come si sa non son autorizzati a farsi la guerra..

  • La situazione in cui va pensata oggi l’educazione dei giovani è configurata dall’abdicazione crescente delle famiglie alle proprie responsabilità e dalle difficoltà delle scuole a ripensare in ragione di questo dato le proprie .La scuola non può liberarsi da questo compito, perché è come istituzione investita del compito di preparare i giovani ad assumere ruoli e responsabilità nella società. E questo non avviene dando ai giovani solo gli strumenti per esercitare un lavoro o una professione. L’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’uomo (Kant) e proprio per questo diventa un diritto inalienabile; ed è anche un elemento indispensabile per la costruzione della democrazia (Dewey). Cosa vuol dire educare allora e come farlo a scuola, questi sono i problemi con i quali bisogna misurarsi.
  • A scuola se si deve educare bisogna fare posto tra programmi, saperi, regolamenti e valutazione alla PRESENZA DELL’ALUNNO; lavorare per la sua emancipazione e per la sua autonomia. La scuola non è solo una struttura tecnico-professionale: le sue funzioni devono avere un’incisività esistenziale per quanti vi sono ospitati. La scuola non può non avere delle finalità educative, se vuole orientare, motivare e promuovere nei giovani comportamenti positivi, sviluppare le loro capacità, guidarli alla conquista di significati per la loro vita.
    E tutto questo senza dimenticare che da tempo scuola e mondo giovanile sono in rotta di collisione, che c’è una frattura di cui tenere conto e nei limiti del possibile sanare con intelligenza e passione.
    L’educazione a scuola deve svilupparsi nei compiti stessi che devono essere svolti e nei rapporti che si vengono a costituire tra alunni, tra alunni e docenti, tra alunni e sapere; tra alunni e istituzione, tra alunni e società.
    Nella sua natura questa è un’educazione civica e morale per la sollecitazione a rispondere al dovere di sapere stare con gli altri, di sviluppare le proprie capacità ,di prepararsi ad assumere una funzione nel lavoro e nella società come cittadino.
    In questo senso l’insegnante è un educatore e non può non esserlo. Educa insegnando e nel modo di insegnare.
    Nel modo di porgersi, nel modo di ascoltare, nel modo di valutare, nel modo di gestire la classe, nel modo di gestire i rapporti con gli altri insegnanti, le responsabilità collegiali, i rapporti con le famiglie.
  • Educare a scuola significa pensare che qualsiasi alunno è capace di fare sempre meglio di quanto non sembri e di quanto non si sia creduto; significa lavorare perchè ogni alunno abbia il diritto di crescere nei tempi e con i modi a lui più congeniali.
    Significa interrogarsi sulla resistenza che l’alunno talvolta oppone al lavoro dell’insegnante, con i suoi rifiuti, con la sua avversione, con la sua opacità.
    Significa fare esperienza della propria impotenza. L’educazione è un percorso accidentato e avventuroso, sul cui esito felice non ci sono certezze e non si possono fare scommesse.
    La relazione educativa non è pacifica; vi emergono reazioni di difesa e tentativi di conquista; irrigidimenti e contestazioni; propositi di assimilazione e difficoltà ad accettare l’alterità dell’alunno.
    E’ spesso uno scontro di intenzionalità diverse.
    L’insegnante si deve misurare con l’impossibilità, anzi con il divieto di condizionare il soggetto in apprendimento.
    Mettere al centro l’alunno significa anche questo, non fargli volere ciò che noi vogliamo. La buona pedagogia ci ricorda il diritto dell’alunno alla sua irriducibilità ai tentativi di seduzione, di condizionamento, di manipolazione.
    L’educatore non plasma a propria immagine chi viene educato. L’educazione a scuola è condivisione, non violenza; è chiamata non costrizione. L’azione educativa per le emozioni molteplici che suscita, per la disparità di statuto dei partner in causa, per le poste in gioco, è un’esperienza che resiste ai tentativi di razionalizzazione, verso i quali ci si deve dotare di un sovrappiù di precauzione e di preoccupazione. Non c’è niente di peggio per la ragione degli eccessi razionalistici.
  • Gli alunni costituiscono un mondo diverso e in qualche modo sono gli intrusi in quello degli insegnanti. I giovani, in grandissima parte, con la loro estraneità ai codici e alle tradizioni del sistema scuola costituiscono una sfida e spingono a trovare le ragioni dell’esistenza e delle finalità del sistema di istruzione. Interpellano con i loro problemi, con la loro inquietudine e alcuni con la loro avversione . Pongono problemi di senso, di motivazione, di prospettiva. Con questa realtà l’insegnante ogni giorno deve fare i conti, non dimenticando mai che a scuola è “l’uomo dell’incontro e del confronto. Nello stesso tempo solidale, promotore e vittima del rinnovamento, si trova così alla giuntura tra passato e presente; serve allo stesso tempo la causa della tradizione per quello che insegna e la causa della rivoluzione per coloro che forma”(M.de Certeau).
  • La risposta al conflitto innescato dagli alunni, alla sfida dell’alterità da loro rappresentata non è l’abbandono, non è l’indifferenza, non è la trincea del proprio sapere. La sfida al conflitto è il dialogo tra docenti e alunni. Il dialogo è ciò che fa della necessaria informazione l’elemento della formazione. Nel dialogo si forma l’uomo chiamato a imparare per tutta la vita, a perfezionarsi ,a riciclarsi continuamente. L’insegnante consapevole delle sue responsabilità ”deve continuamente badare alle parole che riceve e a quelle che restituisce;(…) Attraverso il confronto tra il linguaggio al quale deve rispondere e il linguaggio che trasmette, arriverà simultaneamente a individuare il senso di quello che ascolta e a intendere quello che dice” (M.de Certeau).
  • Il riconoscimento del valore della parola dell’alunno è il fondamento dell’educazione autentica; richiede il riconoscimento del suo diritto di partecipare con spirito di iniziativa e responsabilità nel processo educativo. La classe dovrebbe essere il luogo dove la verità della parola non è relativa allo status di chi la pronuncia”(B.Rey). ”L’educatore non deve persuadere con la violenza, con la superiorità del suo statuto, col ricatto delle punizioni o delle ricompense, ma con la verità del discorso che propone”(B.Rey).
    La responsabilità educativa si realizza nella capacità di riconoscere e valorizzare l’alterità dell’alunno come fondamento del dovere di attenzione alla sua soggettività, del dovere di cura del suo sviluppo equilibrato.
    I giovani hanno bisogno di una relazione educativa che li interpelli individualmente, che li metta al centro delle preoccupazioni degli insegnanti. ”Il professore insegna a tutti la stessa cosa; il maestro annuncia a ciascuno una verità particolare”(B.Rey).
    Gli alunni hanno bisogno di essere accettati .
  • L’insegnamento ex-cathedra conosce l’argomento e spesso misconosce la persona che è tenuta ad ascoltare. Senza conversazione, senza la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure, soprattutto tecnologiche, e degli obblighi professionali.
    L’alunno deve sentire la prossimità umana, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. Non c’è confronto, nè dialogo in una relazione in cui uno vede e l’altro viene visto come nella didattica a distanza.
    ”Al primato della vista sull’incontro o della conoscenza sul dialogo si oppone nell’esperienza dell’educatore il primato della sua relazione con i propri allievi.(…)L’educatore è legato dallo spazio e dalla contiguità .E’ anzitutto l’uomo del faccia a faccia”(M.de Certeau).
  • Se si vuole che la relazione educativa sia una relazione dialogica a nessuno dovrebbe essere vietato di porre domande.
    ”Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto, piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui.”(Pascal).
    Le domande che hanno senso, però, non si pongono a caso; bisogna educare a porre e a porsi domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande.
    Bisogna dare strumenti per potere discutere e dialogare; per diventare capaci di resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze. Bisogna educare a problematizzare, per non accontentarsi delle prime e rassicuranti risposte e andare oltre in profondità su ogni questione, su ogni dato, su ogni fatto, su ogni notizia, su ogni nuova conoscenza. Bisogna contrastare con energia la tendenza a insegnare saperi, trascurando di fare capire e conoscere i problemi che li hanno generati. Puo’ succedere che il dialogo sfugga di mano, ma non bisogna averne paura. Non esiste una scuola del silenzio che sia anche scuola di partecipazione.
    Il dialogo è mezzo e fine dell’educazione; è il modo a scuola come in ogni luogo per dare valore e significato all’altrui presenza.
    Il dialogo è confidenza tra gli alunni e tra gli alunni e gli insegnanti; è piacere di appartenere ad una comunità, che porta avanti insieme il progetto educativo.
  • Il dialogo non ha fretta; è per le pari opportunità; non esclude, non stigmatizza; non è competitivo. Il dialogo non è solo tra presenti, ma si estende, va fuori dell’aula, incontra la società, incontra il passato. Il dialogo è l’antidoto per vaccinare la scuola contro le seduzioni e gli eccessi tecnologici, che la stanno immiserendo e sterilizzando, perchè pone la centralità della parola viva nella relazione educativa e perchè solo nella parola viva si incontrano le persone che hanno qualcosa da dirsi.
    Il dialogo impedisce alla scuola di essere una caserma, di trasformarsi in una spuria azienda di formazione professionale; invita ad andarvi e a frequentarla senza angoscia; allontana la sottomissione, incentiva l’autonomia, fa spazio alle differenze.