Merito sì, ma purché non si rischino esclusione e competizione

di Monica Piolanti   

Nel dibattito pubblico italiano, il termine “merito” risuona con crescente frequenza, tanto da aver trovato posto nella nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione.
Ma viene da chiedersi perché “merito” non è stato inserito anche nel Ministero della Salute, nel Ministero dell’Interno, della Giustizia, e così via?
Il concetto di “merito” è universale e trasversale, applicabile a tutti i lavoratori che svolgono diverse professionalità e che si impegnano per ottenere riconoscimenti come aumenti o promozioni.
Tutti i cittadini di qualunque settore lavorativo possono essere capaci e meritevoli! Non dovrebbe essere un termine riferito esclusivamente ai docenti del Ministero dell’Istruzione, in quanto una tale limitazione appare inaccettabile e potrebbe essere percepita addirittura come punitiva o dettata da un senso di rivalsa.
Prima di considerare il merito riferito agli studenti, è fondamentale approfondire la questione del merito riguardante gli insegnanti.

La discussione sul “merito” nel contesto scolastico deve necessariamente includere sia gli studenti che i docenti, poiché il rapporto tra essi è intrinsecamente simmetrico e fondato sull’umanità e sulle specificità di ogni singola persona.
Il “merito” per gli insegnanti non può essere ridotto a una pura valutazione delle prestazioni standardizzate o a metriche quantitative.
Un approccio al merito che sia autenticamente costruttivo deve riconoscere la complessità del ruolo docente, che va ben oltre la trasmissione di contenuti. Insegnare è una professione che richiede passione, empatia, capacità di adattamento e la volontà di comprendere e valorizzare ogni singolo studente nella sua originalità.
L’insegnante meritevole è colui che riesce a creare un ambiente di apprendimento stimolante e inclusivo, dove ogni studente si sente riconosciuto e supportato.
Questo implica la capacità di cogliere le diverse intelligenze, i ritmi di apprendimento e le specificità culturali e sociali di ciascuno. Continua a leggere

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Come ho insegnato la lingua italiana a centinaia di bambini

di Monica Piolanti

Il grande pedagogista francese Célestin Freinet amava ripetere “Rubate l’esperienza” dai bambini: ma l’espressione non vale forse anche per gli adulti?
Ora vediamo come io ho impostato l’insegnamento dell’Italiano nella classe prima di Scuola Primaria…

Sono partita da questo presupposto: e cioè che i bambini in genere lo parlano già quando arrivano a scuola; alcuni di loro già conoscono i segni alfabetici’ almeno relativamente alla scrittura del proprio nome. Se sanno già leggere e scrivere si tratta di tener conto di quelle che sono le loro competenze acquisite; se sanno soltanto copiare in stampato maiuscolo il loro nome e cognome, si tratta di considerare per primi i gruppi sillabici utilizzati per scrivere il loro nome e cognome. Non a caso ho parlato di gruppi sillabici, perché io utilizzo, come del resto ci invitano a fare le Indicazioni Nazionali del 2012, che hanno sconsigliato per l’approccio alla lettura e alla scrittura il ricorso al cosiddetto “metodo globale”, che consisteva nell’esercitare i bambini dapprima a scrivere intere parole o frasi per arrivare in un secondo tempo ad un’analisi dettagliata di esse.
Da un po’di tempo invece è venuto prevalendo nell’interesse degli studiosi il metodo fonosillabico, perché la Lingua Italiana ha una prerogativa unica fra le Lingue: ciò che si dice verbalmente corrisponde a quello che si scrive, a differenza di quasi tutte le Lingue Straniere in cui le parole si scrivono in un modo e si leggono in un altro. In Italiano ciò che si legge è esattamente quello che si pronuncia. In questo senso siamo più fortunati di altri. Un’altra cosa è importante: ed è il fatto che chi scrive deve registrare esattamente il suono che esce dalla bocca. Continua a leggere

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La formazione degli adulti: un tema sempre più rilevante

di Monica Piolanti

Il tema della formazione degli adultit è stato acutamente affrontato da Malcolm S. Knowles in un suo testo fondamentale intitolato ”La formazione degli adulti come autobiografia”.
Se lo scopo dell’autore era quello di tracciare la storia in prima persona su come può nascere una “vocazione” in un essere umano, direi che Knowles ci è riuscito in pieno! Tuttavia mi preme notare che mi è sembrato di assistere ad una sequenza dettagliatissima di successi che ha dell’incredibile. Beato lui! Ogni persona, però, ha una sua “storia”, e ogni storia ha le “sue” sequenze. Ma parliamo della mia prima impressione. Con l’animo sospeso, ho atteso, durante tutta la lettura, che all’autore capitasse “un incidente di percorso”, che inducesse quel tanto di pessimismo, che a volte aiuta a rivisitare la propria esperienza, e più spesso induce la persona a cambiare strada. Mi pare che all’autore questo non sia mai capitato e la cosa mi sa tanto di … americano! Oppure l’autore ha inteso semplicemente celare al suo lettore le sconfitte e gli insuccessi che capitano a tutti e possono demotivare chi narra e chi ascolta la narrazione, anche se il rischio bisogna correrlo. A Knowles tutto è veramente “filato liscio” nella vita? La sua autobiografia mi sembra ispirata da un dolce “angelo custode” che gli fa vivere solo esperienze selezionate e destinate al successo.
Da insegnante calata nella realtà del mio tempo, devo segnalare anche tanti piccoli insuccessi, vuoi con gli alunni, vuoi con le famiglie, vuoi con le istituzioni e i loro Dirigenti. Continua a leggere

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Metodologie innovative nella scuola primaria: applicazioni e criticità

Light Bulb Ideas Creative Diagram Concept

di Monica Piolanti

A mio giudizio, la didattica che si pratica oggi nelle scuole primarie italiane è un tentativo, spesso coronato da successo e animato da grande impegno, di integrare armonicamente il meglio della tradizione con le più recenti spinte innovative.

Non assistiamo più a un modello rigidamente frontale e unidirezionale come unica forma di insegnamento. Al contrario, si osserva una crescente e diffusa consapevolezza dell’importanza di metodologie attive che coinvolgano gli studenti in prima persona nel processo di apprendimento, trasformandoli da spettatori passivi a protagonisti attivi e costruttori del proprio sapere. Tra queste, emergono con particolare rilevanza gli Episodi di Apprendimento Situato (EAS), promossi dal Professor Pier Cesare Rivoltella. Gli EAS, come suggerisce il nome, sono piccole esperienze di apprendimento significative, che guidano gli alunni verso la realizzazione di “artefatti” (materiali) digitali, favorendo un’appropriazione personale e profonda dei contenuti. Questa metodologia si articola in tre fasi distinte: la fase preparatoria, dove l’insegnante definisce il quadro concettuale e assegna un compito, stimolando la curiosità con strumenti multimediali ; la fase operatoria, in cui gli studenti, individualmente o in gruppo, producono l’artefatto multimediale, mettendo in pratica le conoscenze acquisite ; e la fase ristrutturativa, conclusiva, con il debriefing guidato dall’insegnante e la proposta di una “lezione capovolta” (flipped lesson), che ricapitola i concetti chiave e offre spunti per ulteriori approfondimenti. Il ruolo del docente negli EAS è quello di mediatore didattico, facilitatore e guida, indicando il perimetro dell’azione educativa entro cui l’alunno sperimenta l’apprendimento in autonomia. Continua a leggere

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Violenza, problema allarmante: cosa si può fare?

di Monica Piolanti

I dati dell’indagine Istat “Bambini e ragazzi: comportamenti, atteggiamenti e progetti futuri” 2023, presentati il 26 giugno 2025 in Conferenza Stampa sollevano importanti interrogativi sulle origini della violenza giovanile. Le dinamiche relazionali tra i ragazzi possono essere complesse e spesso caratterizzate da interazioni tra “vittime” e “prepotenti”. I dati indicano una realtà preoccupante: il 68,5% degli 11-19 enni ha dichiarato di aver subito almeno un episodio offensivo, aggressivo, diffamatorio o di esclusione (sia online che offline) nei 12 mesi precedenti l’indagine.

Ciò dimostra che la maggior parte dei giovani ha avuto un’esperienza diretta o indiretta con la violenza. La persistenza di tali comportamenti, che si manifestano in modo intenzionale e continuativo attraverso atti aggressivi fisici, verbali o psicologici, è una caratteristica distintiva del fenomeno del bullismo. I ragazzi del Nord-Est e Nord-Ovest subiscono atti di bullismo continuativi più di quelli del Mezzogiorno.
Le forme di vessazione variano in base al genere. Mentre i maschi sono vittime di offese e insulti, le ragazze subiscono l’esclusione sociale. Per quanto riguarda il cyberbullismo il 34% dei ragazzi ha subito comportamenti oltraggiosi online nel 2023. La mancanza di contatto faccia a faccia tra aggressore e vittima rimuove le barriere psicologiche, rendendo più facile perpetrare atti violenti. La maggior parte degli atti violenti sono dovuti principalmente alla crescita esponenziale del bullismo e cyberbullismo. Come evidenziato dai dati Istat la violenza giovanile spesso affonda le sue radici nella famiglia.
La mia percezione è che stia emergendo una “genitorialità assente”, non necessariamente in senso fisico, ma emotivo ed educativo. I genitori ci sono, ma spesso “non fanno i genitori”. La crescita della violenza giovanile è un campanello d’allarme che non può essere ignorato. E’ un segnale che, in molti casi, la famiglia sta perdendo il suo ruolo fondamentale di guida e di supporto. La soluzione non può essere la repressione, ma deve partire dalla radice del problema: dalla necessità di genitori che tornino a fare i genitori, con pazienza, autorevolezza, empatia e una comunicazione aperta e coerente. Al fine di poter contrastare e/o prevenire la violenza così diffusa nella nostra società permissiva nella quale i valori tradizionali sono così scarsamente avvertiti o non illuminano più i comportamenti individuali, bisogna riconoscere che non si parte da zero, perché sia pure in modo confuso o velleitario molte istituzioni, o per lo meno molti insegnanti o adulti hanno già da tempo provveduto a sperimentare iniziative che talora hanno anche raccolto esiti positivi. Si deve però riconoscere che la gravità della situazione attuale è tale da rappresentare un’emergenza; e nelle emergenze le risposte individuali ai problemi, per quanto provocatorie hanno spesso un valore modesto.
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Alle radici della storia del MCE: democrazia e antifascismo

a cura di Giancarlo Cavinato

Dire la verità è un atto genuinamente politico
(Byung- Chul Han Infocrazia)

Il Movimento di cooperazione educativa nasce a pochi anni dal termine della guerra e della lotta di liberazione con una forte impronta antifascista.
I fondatori erano stati in gran parte partigiani. Si riconoscevano pienamente nei principi e nei valori della Costituzione che cercavano di mettere in pratica, come testimonieranno maestri/e come Pettini, Ciari, Lodi, Fantini, Legatti e molti altri attraverso la loro pratica didattica.
Attraverso di essa e i racconti delle loro esperienze contamineranno altri giovani che vedranno in quel periodo e nella sua storia la possibilità di una pedagogia liberatoria. Si trattava, come scriverà Ciari, di formare a dei valori incarnati nelle tecniche Freinet. Il quale proprio in quanto le sue tecniche erano vissute dai dignitari del paesino delle Alpi provenzali dove iniziava la sua carriera da maestro come pericolose e rivoluzionarie, si trovò ad affrontare che lo costrinsero a manifestazioni di famiglie manipolate e convinte che si strumentalizzavano i bambini costringendolo a dimettersi.
Alfabetizzare culturalmente contadini e artigiani era visto come perdita di controllo e comando.

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Comunità educante, comunità educativa e territorio

di Monica Piolanti

Nel mondo frenetico e in continua evoluzione in cui viviamo, ci troviamo spesso a riflettere su un concetto che sentiamo sempre più nostro, quello di “comunità”.
L’idea di “comunità”, come migliore manifestazione possibile dei rapporti umani e della vita sociale, è stata approfondita per la prima volta dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies nel 1887 con l’opera che in Italia è uscita col titolo “Comunità e Società” nel 1963.
Roberto Esposito nel testo “Origine e destino della comunità”, pubblicato da Einaudi Torino 2006 si è interrogato sul concetto di “comunità” a partire dal suo originario significato etimologico “cum munus”. La parola “comunità” ha un significato molto preciso: una “comunità” è un territorio in cui gli abitanti si legano in un impegno donativo dell’uno nei confronti dell’altro.
“Comunità educativa” e “Comunità educante” non sono esattamente la stessa cosa, anche se sono strettamente correlate.
La “comunità educante” si riferisce all’insieme di tutte le persone e le istituzioni che, a vario titolo, contribuiscono all’educazione di un individuo o di un gruppo, mentre la “comunità educativa” è il contesto, o il luogo, in cui si svolge l’azione educativa. La “comunità educante” agisce sulla “comunità educativa” per promuovere lo sviluppo integrale della persona. La “comunità educante” è l’insieme di soggetti, mentre la “comunità educativa” è il contesto in cui si realizza l’azione. Continua a leggere

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I bambini mi mettono in silenzio

di Monica Barisone

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Come tutti gli anni, a maggio, ho incontrato ragazzini e ragazzine delle quinte classi primarie per ragionare insieme di affettività, fiducia e sessualità. L’intervento aveva l’obiettivo di aprire un confronto e una riflessione su questi aspetti basilari della costruzione dell’identità personale, in concomitanza con l’ingresso nella pubertà. Si è trattato non soltanto di passaggio di informazioni ma soprattutto di co-costruzione di uno spazio di ascolto attivo volto a domande, curiosità, paure dei minori, ma anche degli adulti, relative a questi temi. Si è lavorato anche accostando l’area della tutela e della prevenzione del maltrattamento e dell’abuso, e approfondendo i temi del consenso, dell’immagine corporea, e delle diversità di genere[1].

Questa attività rappresenta, per me, da anni, un bagno di realtà rinfrescante e rinvigorente durante il quale scopro nuovi orizzonti. Quest’anno mi sono imbattuta in una temuta conferma, la scomparsa del futuro nel loro immaginario.

Nel rappresentare sé stessi ‘da grandi’, infatti, più della metà di ragazze e ragazzi ha raffigurato la propria persona, in versione di giovane adulto, con uno sfondo generico, il vuoto, o un vago panorama cielo/terra. In modo esplicito, uno di loro, ha proprio scritto di non sapere cosa farà ma ha anche indicato la probabile vera risposta che sentiva nella testa: ‘I do nothing!’, il niente, lo zero. Emergevano qua e là, negli altri disegni, ipotesi di vita familiare e genitoriale, desideri lavorativi e in alcuni casi la presenza degli amici di sempre accanto a sé, raffigurazioni, queste, che invece avevano costituito per anni la maggior numerosità. Continua a leggere

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Il “mio” Visalberghi

di Roberto Maragliano

Impossibilitato, perché in viaggio, a prendere parte alla giornata in memoria di Aldo Visalberghi che si terrà a RomaTre il prossimo 24 giugno, ho ipotizzato di inviare, per una lettura pubblica, qualche riga di omaggio riflessivo.
Ma, subito, ho contattato l’imbarazzo che abitualmente provo in situazioni di questo tipo, esperite direttamente o anche indirettamente. Come parlare di chi non c’è più e con il quale si hanno avuto rapporti, e come farlo senza mettersi al centro? C’è mai un ricordo che, sfidando ogni ipocrisia, possa presentarsi come oggettivo? È mai possibile una ricostruzione del passato che non coinvolga il presente? Come evitare che questi interventi altro non siano che occasioni per parlare di sé e non dell’altro, di un presente senza passato o di un passato senza presente?
Mi si obietterà: perché la fai così difficile? Si tratta solo di stendere due righe per un evento accademico.
Beh, non è così, almeno per me.
Il travaglio cui alludo è connesso alla messa in comune, in interventi simili, di questioni di scienza e di coscienza, e dunque al coinvolgimento, che può essere più o meno consapevole, di aspetti personali di sensibilità e affettività: la pelle assieme alla carne, l’animo assieme all’anima. Facendone una questione di scienza si rischia di non essere mai tranquilli, con l’altrui e la propria coscienza. Tanto vale, io penso,  accettare questa condizione di inevitabile porosità e perfino ambiguità della memoria, personale e collettiva, e comportarsi di conseguenza.
(Se avete bisogno di riferimenti seri per questo tipo di problematica, che ha a che fare con il rapporto tra assenza e presenza, vita e morte, potrei rimandarvi al Jacques Derrida di Ogni volta unica, la fine del mondo, uscito per Jaca Book nel 2005: ma lascio la cosa tra parentesi)
Si tratterebbe allora, nel mio caso, di provare a delineare i tratti di Visalberghi per come ho vissuto l’esperienza con lui e quanti erano con lui e in varie forme attorno a lui, allora. Ma anche per come la rivivo ora, quell’esperienza, nel ricordo attualizzato e attualizzante del presente. Ora che tante cose sono cambiate, nel grande e piccolo mondo, rispetto quei tempi e quei contesti.
Mi propongo dunque di raccontare qui cosa mi è capitato dopo che, così riflettendo, sono approdato alla decisione di non nascondermi dietro i codici della memorialistica ufficiale ma, al contrario, di ‘stanarmi’ davanti e dentro ad essa, sì da provare a comporre o, al limite, soltanto pensare le fatidiche due righe in una condizione di provata sincerità, soprattutto con me stesso.
Lo faccio articolando la narrazione in due fasi.

Clicca qui per continuare a leggere la riflessione di Roberto Maragiano nel sito ScaffaleMaragliano

 

 

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Educare alla internazionalità: la lezione di Jean Piaget

Dove va l’educazione è un testo del 1972 di Jean Piaget scritto su richiesta della Commissione nominata per il Rapporto sulle strategie dell’educazione (a cura di E. Faure).
Nel volume Piaget esamina a fondo l’articolo 26 della Dichiarazione Internazionale dei diritti dell’uomo.


 

Riproponiamo qui l’ultimo capito del libro, quello in cui lo scienziato ginevrino parla della educazione alla internazionalità, tema quanto mai attuale in questo momento.

 

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