Il nuovo PEI. Tra rose e spine. E un dulcis in fundo

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di Raffaele Iosa

Il “nuovo PEI” previsto dal DM 182/2020, con annesse corpose “Linee Guida”, è una cosa seria. Seria e complessa perché il Ministero (di concerto col MEF)  ha messo insieme molte questioni,  alcune delicatissime,  realizzando ben  più di un semplice adattamento del PEI come strumento di programmazione, ma toccando vaste  altre questioni connesse: l’uso dell’ ICF, il calcolo delle  risorse di personale, fino ai temi della valutazione,  anche con l’interessante debutto del tema della transizione alla vita adulta nell’istruzione superiore.

Un’operazione vasta di restyling da leggere bene,  con molta (a volte pesante) scrittura, che tocca non solo la disabilità ma l’intero fare scuola. Spesso questi temi sembrano specialistici e tecnicamente difficili, almeno per gli insegnanti curricolari, e rischiano di restare cosa di nicchia. Per questo cercherò qui di esprimere con un linguaggio il più accessibile possibile un mio commento tecnico sia su questioni generali che analitiche sui punti più “caldi”  .

Esprimo da subito una mia valutazione d’insieme: è un lavoro di  spessore, con aspetti importanti di innovazione (le rose) ma contiene anche alcuni vizi e assenze (le spine) che rischiano di produrre per lo più l’ennesima “grida manzoniana”  di come dovrebbe essere l’inclusione (ce ne sono state molte in passato), con attese di qualità che potrebbero essere difficilmente mantenute.

Ne scrivo qui criticamente ma in modo propositivo sulla base della mia esperienza professionale  pedagogica, scientifica, amministrativa, a livello locale, nazionale, internazionale.

 

  1. Una struttura militarizzata?

Una prima spina di carattere generale. In tutto il testo delle Linee guida è scarsa  l’autonomia, se non piccoli e marginali spazi sulla didattica. Tutti gli elementi  inerenti certificazioni, ICF e diagnosi funzionale, GLO,  perfino la struttura  grafica del PEI,  il calcolo delle proposte di risorse, ecc… sono affidate a precisazioni e  pignolerie che trasmettono una forte ordinatività normativa,  e nessuno spazio di flessibilità. Non sono presenti mai le parole flessibilità, ricerca e creatività che sarebbero invece auspicabili se rispettano i medesimi obiettivi inclusivi.

Ciò rappresenta per me la crisi di una normazione  che preveda nel Ministero istruzione il soggetto titolare delle finalità generali ( Reg. Autonomia DPR 275/99, norma di rango costituzionale)  e alle scuole l’autonomia necessaria ad adattare le finalità con diverse vie anche originali. Non mi pare questione da poco, e dovrebbe allarmare non solo chi si occupa della nicchia “inclusione”.

In sostanza una normazione che chiede alle scuole  “l’applicazione” e non “l’interpretazione responsabile”. Non è una scelta qualsiasi, e non era l’unica possibile. Dunque i temi e i problemi non sono nuovi, ma diverse sono le forme di risoluzione.
Sarà certo un segno dei tempi, con la crisi delle autonomie,  ma nel caso della disabilità questa direttività è data da una questione di fondo più “culturale” e  “pedagogica” che amministrativa.
Il fatto è che queste norme escono, a mio parere,  in una fase di “declino dell’inclusione”, in cui sono stravolte   le ispirazioni inclusive degli anni 70. Alle nuove ampie difficoltà inclusive si pensa a risposte con abbondanti dosi di direttività e burocrazia.  In breve  gli elementi principali:

  • In meno di 20 anni le certificazioni di disabilità sono raddoppiate, i posti di sostegno sono di più di questo raddoppio, il rapporto alunno h/docente sostegno è passato dai 2,4 del 1999 a 1.6 di quest’anno.  Gli assistenti all’autonomia dei comuni da 4.000 a 60.000 di quest’anno. Stiamo cioè assistendo ad un fenomeno di medicalizzazione che pesa nell’imaginario delle famiglie e degli insegnanti. Non c’è in Italia nessuna ricerca seria sui motivi e gli effetti dal punto di vista clinico, sociale, demografico e in educazione: una meta-epidemia? Una lettura  ansiosa del dolore umano? La moda legata al mito del ben-essere come perfezione?
    Si  sommi a questo la Legge sui DSA e  l’invenzione dei BES (entrambe  iatrogene) per individuare una profonda mutazione dell’idea di persona, delle relazioni,  dell’apprendere.
  • Questa mutazione accompagna un cambio di paradigma per cui la “clinica” (in primis comportamentista) si impone con terapie paradidattiche dure, riducendo l’educativo  comunitario,  in un qualche modo imponendo agli insegnanti di togliersi il grembiule e di mettersi il camice.
  • Le due questioni sopra descritte hanno determinato l’emergere di una conflittualità nuova tra famiglie  e scuole, il mito del “sostegno” non come “attività di tutti i docenti” ma come azione specialistica separativa  totalizzante. Di fatto lontana dal mainstream della classe. Da qui  cause, tribunali, conflitti. Qualsiasi intervento per regolare le certificazioni  o la ripetizione del mantra sempre più retorico  “il sostegno lo fanno tutti” sono in gran parte falliti.
    Tutti i decreti usciti in questo periodo risentono di questo conflitto trasversale di tipo pedagogico che produce due aree di pensiero in conflitto: quella che chiamo degli “scolasticistici”,   erede della tradizione degli anni 70 (sostegno diffuso azione di tutti) contro gli “specialistici”   (tecniche separative  centrate sui sintomi e non sulla persona). Si pensi, ad esempio,  allo scontro sulla formazione dei  docenti di sostegno: una laurea ad hoc o corsi post-laurea? Grembiule o camici?
  • Accompagna questo conflitto una degradante gestione dei posti di sostegno e la totale assenza di formazione seria per  i docenti curricolari. Quando un figlio cambia sostegno ogni anno, magari precario che non sa nulla di disabilità non ci sono attenuanti. Il degrado è garantito.

Dunque, è il recente passato complesso, mal gestito, con un aumento della spesa fuori controllo, disattenzione al fatto che l’inclusione è di tutti i docenti,  che forse ha portato i ministeriali autori di questi documenti a scegliere una via  così militarizzata: la speranza che mettendo “le braghe al mondo” si riducano i conflitti, un modello imposto renderà  le scuole più brave,  e così si migliorerà (sigh) l’inclusione. Paradossale opzione se si tiene conto che oggi la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità parla invece della loro inclusione come “accomodamento ragionevole”, diverso da caso a caso.

Temo  che queste Linee guida produrranno il fiorire di nuovi quesiti,   un contenzioso infinito che già oggi è fiorente (basta leggere nei social). D’altra parte i malumori di famiglie o insegnanti non chiedono  soluzioni ragionevoli per  un qualche  conflitto, ma “in quale norma”   si precisi pignolescamente una certa questione.  Un  piccolo caso sul quale chiedo  ai lettori di non ridere: un’insegnante di sostegno della primaria mi scrive: “una mia collega mi ha detto che bisogna passare dallo stampatello al corsivo con il bambino perché poi alle medie, quando avrà l’esame,  dovrà per legge scrivere in corsivo. Mi potete dire quale norma prescrive il corsivo?”

Nessuna applicazione obbediente migliorerà la qualità dell’inclusione. L’obbedienza non è sempre una virtù e può mortificare la passione e la fantasia. Rischia invece di produrre soluzioni formalistiche e pesanti.  Ci lavoreranno autori di manuali e avvocati.

  1. Un testo cui manca il prima e il dopo

Questo DM  e Le linee Guida escono prive di altri elementi presenti nella delega della Legge 107/15, tali da rendere insicura oggi la sua applicazione.

2.1 Manca ancora il  “profilo di funzionamento” nella logica bio-psico-sociale ICF, strumento  importante per una nuova modalità di interpretazione della disabilità. Questo profilo è la base e la premessa su cui costruire il PEI, viene prima. La classificazione ICF ci descrive ogni persona con disabilità nella sua natura complessa,   superiore al “sintomo” e al di là della confusa  dicotomia dell’art. 3 della Legge 104/92 tra “lieve” e “grave”. Ogni ragazzino con disabilità viene letto attraverso l’ICF  come “Antonio” o come “Maria” in tutte le sue dimensioni e non solo in base alla mera diagnosi clinica. Non tutti i ragazzi con la sindrome di Down sono gravi e neppure gli autistici. Molte variabili concorrono alla gravità, anche quelle personali e ambientali. L’ICF supera lo stigma della “malattia” e individua le “barriere”, anche esterne, che ostacolano l’inclusione e  i “facilitatori” interni ed esterni che aiutano ad un progetto di vita individuale più congruo ad ogni persona.  Quindi una base teorica e pratica decisiva per realizzare un buon PEI.

L’ICF e il conseguente profilo di funzionamento però non ci sono ancora perché il Ministero Sanità non lo ha ancora scritto. Dunque le citazioni dell’ICF presenti nel DM e nelle Linee guida e persino il sostenere che il PEI deve essere realizzato nella “logica ICF” pecca di  precipitazione e incertezza.

Dovremmo chiederci perché il Ministero Sanità non ha completato il profilo, e non mi pare sia solo causa il carico di lavoro del COVID: c’è perplessità nei clinici nei confronti dell’ICF. E’ più semplice fare diagnosi secche dei sintomi con l’ arido DSM V  che ti dice “cos’ha”  ma mai “chi è”.

2.2 Ma c’è dell’altro. Manca ancora un Decreto sulla governance della disabilità a livello locale, per intenderci dai vecchi “accordi di programma provinciali” della Legge 104/92  a logiche di governance nello stile dei piani di zona della Legge 328/2000.

2.3 Mancano infine i profili professionali degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di competenza dei comuni, il cui profilo vago e generico non offre una competenza precisa su cui contare. Ma nel PEI si dovrà scrivere se serviranno per l’inclusione di un certo alunno, nella vaghezza piuttosto che nella precisione degli obiettivi per cui si utilizza.
Questo lavorare a sprazzi, senza una visione armonica tra diverse norme sullo stesso tema è grave, rischia una fatica alle scuole immeritata, un’incertezza del mai completato.

Se penso al povero insegnante di sostegno senza titolo che sarà costretto (com’è d’uso in moltissime scuole) a farsi carico di scrivere questo malloppo pesante e direttivo del PEI, mi tremano i polsi. Rischiamo la parodia.  Il PEI è cosa seria, se mancano i contorni di contesto  l’unica soluzione è…copiare da uno dei tanti manuali che usciranno. E sperare in Dio che a qualcosa serva.

  1. Mediazione versus controparti

E’ sorprendente il fatto che nelle pubbliche amministrazioni, in particolare in quelle che erogano servizi di carattere sociale e alla persona,  siano del tutto assenti sedi e modalità di mediazione dei conflitti a fronte del pullulare di malessere, disagio, litigiosità sempre più vivide. L’amministrazione pubblica segue vie giuridiche  o di controllo prevalentemente legate alla forma o ispezioni che devono rilevare se esistono lesioni o errori. Il tema conflitti nella scuola è caldissimo, al punto  che ormai molti genitori considerano spesso la scuola controparte. Nel mondo della disabilità il tema è ancora più caldo ed ha la sua ,massima espressione nei ricorsi ai tribunali sulle ore di sostegno, da cui ricevono sentenze spesso non pedagogicamente fondate.

Basta leggere nei siti le tantissime lamentele di carattere prevalentemente relazionale.

Il nuovo PEI contiene così tante e delicate decisioni e confronti tra istituzioni che pensare alla soluzione per via giudiziaria o amministrativa mi pare dolorosamente ingiusto.
Sulla base della mia lunga esperienza di ispettore considero gran parte dei conflitti tra genitori e scuola frutto di divergenze dove non c’è necessariamente un colpa in senso stretto, ma la compresenza di punti di vista, atteggiamenti, approcci diversi se non divergenti. Molto spesso  in entrambe le “controparti” vi sono aspetti di ragione e di torto, soprattutto sugli aspetti educativi, ma non ci sono strumenti precisi per portare ad una ricomposizione se non la buona volontà.

Io penso sia giunta l’ora di pensare invece a sedi, professionalità e modalità di mediazione tra erogatori ed utenti che sia predisposta da tecnici terzi non in forma giudiziaria ma, appunto, in forma mediativa. E che sia necessaria sempre prima di ricorrere al tribunale.

So bene che non era  tema centrale dell’oggetto PEI,  ma propongo si cominci a pensarci anche con sperimentazioni come un importante passo in avanti. Altrimenti ognuno avrà il suo difensore, si sentirà sempre controparte. La mediazione aiuta anche a migliorare il senso civico e delle responsabilità individuali e collettive.

  1. I dolori del giovane GLO

Il GLO è la nuova sigla del vecchio GLI, con le stesse persone. Il DM e le Linee guida  precisano fino alla pignoleria  regole, puntigli, lacci di cui capisco in parte le ragioni: finora in molte scuole il GLI non esisteva di fatto, il PEI veniva redatto dall’insegnante di sostegno  e i genitori coinvolti solo per la “firma”. Dunque bene richiamare un impegno collettivo. Ma forse si è esondato.

  • In una prima bozza il GLO era stato ridefinito “organo collegiale”. Ne capivo le ragioni per responsabilizzare tutti i suoi componenti, dagli insegnanti, alle famiglie ai servizi sociosanitari.
    Ma è nata una violenta querelle sulla questione del “voto” che ogni organo collegiale prevede per le decisioni da assumere, al punto che la collegialità è scomparsa nella versione finale.  Però merita  una riflessione  il tema delle “decisioni” negli organi  a diversa composizione com’è il GLO.  Se anche fosse rimasto  il GLO “organo collegiale” va ricordato che, a parte il Consiglio di Istituto che è di natura elettivo,  tutti gli altri “organi” della scuola  non sono democratici  in senso politico ma organi tecnici competenti cui compete individuare soluzioni tecniche. Dunque il concetto di “maggioranza” in questi organi nasce dal bisogno di prendere una qualche decisione ma niente più. Se un genitore o un insegnante non condividono una certa scelta va registrata e può avere effetti per comporre il conflitto o per ricorrere. Questa confusione sugli organi collegiali come il ,collegio docenti se sono o no democratici è vecchia come i decreti delegati. Negli organi collegiali dove chi ci sta c’è d’ufficio, il cosiddetto “voto” è una via solo decisionale. Dunque professionale di carattere deontologico. Ciò vuol dire attenzione alla necessità di cercare sempre più ciò che unisce di ciò che divide. Questo è ancora più vero perché nel GLO i genitori sono una parte non qualsiasi, sono di fatto utenti diretti.
    Riflettiamo quindi di più su come costruire un PEI davvero condiviso e ben praticato, che non è questione di forma ma di sostanza relazionale e pedagogica.
  • C’è poi la  complicata questione della “proposta di risorse” del GLO per le ore di
    sostegno, assistente autonomia, ATA per assistenza di base, strumenti e strutture.
    Cerco di spiegare il nuovo metodo che il GLO dovrà adottare evitando il più possibile al lettore le vertigini. Per quanto riguarda il sostegno, finora le “proposte di ore di sostegno dei GLI”  derivavano  più  dalla diagnosi clinica e sulla presenza di “gravità” (art. 3 comma 3 Legge 104/92).   Poi interveniva l’USR   che assegnava ore in più dell’organico di diritto in una specie di “rabbocco di ore” un po’ discrezionale simile alla vecchia “deroga”, ore che venivano date a docenti a tempo determinato.  Per effetto di una certa Sentenza della Corte Costituzionale questo “metodo” è stato in parte cassato sul principio del considerare diversamente la “gravità”.  I tribunali coinvolti dai genitori per ottenere più ore di quante assegnate dall’USR giudicano la proposta del GLI quella “necessaria” cui riferirsi perchè frutto del progetto educativo. Ma spesso fanno di più: se l’alunno in causa è “grave” la decisione dei tribunali è quasi scontata: a tutti il rapporto 1 a 1, magari più di quanto avesse proposto il GLI nel PEI.  E così tante cause perse dal MIUR.
    Con il nuovo GLO, sostanzialmente, cambia poco: decide sempre l’USR! Ma  cambia il metodo di calcolo di ore della proposta del GLO.  E’ stata inserita nella scheda PEI  una tabella  in cui il nuovo GLO (ex GLI) “ spacchetta” la gravità o meno dell’alunno con disabilità su cinque “dimensioni”  desunte dall’ ICF e dal profilo di funzionamento dell’alunno  (relazione, interazione, comunicazione, autonomia, cognitivo neuropsicologico). Per ognuna di queste dimensioni, il GLO  pesa i cd.  “debiti di funzionamento” (brutto termine, ma pazienza), intesi più prosaicamente come “difficoltà-barriere per l’inclusione”. Pe ognuna di queste dimensioni il GLO propone  la quantità di ore necessarie a recuperare il “debito”  in una progressione a 5 livelli  di “ore di sostegno necessarie a settimane”.  Ogni livello contiene un  range di + o – ore. Per esempio il  range lieve” nella scuola dell’infanzia corrisponde a una gamma tra  0-5 ore/settimana,  il “range  molto grave” oscilla tra 20 a 25 ore settimana per la scuola dell’infanzia. La media dei 5 range individuati  è la proposta di range delle ore di sostegno settimanali proposte dal GLO.  Poi tocca all’USR la finale definizione delle ore settimanali scegliendo la cifra entro il  range proposto dal GLO.  Sperando che  chi mi legge sia ancora sveglio, faccio notare come  la proposta del GLO sia ben più articolata di prima e anzi va ben oltre alla solo generica dizione di “grave”.

Questo artificio tecnico sembra esser uno dei tanti modi per superare la secca simmetria grave = posto intero sostegno. Naturalmente vedo una richiesta del Ministero Economia di trovare metodi più documentati per diminuire le cause giudiziarie,   e ovviamente i rischi di spreco e disparità.

E’ evidente  che il metodo creerà non poche discussioni tra i componenti del GLO, in primis la famiglia  con reciproche accuse  di sottovalutare o drammatizzare il debito di funzionamento. Temo però che questa soluzione, di per sé interessante non basterà a ridurre a sufficienza i contenziosi, e la sua applicazione sarà  complessa da scuola a scuola e da classe a classe.

Per la verità, le commissioni regionali USR che assegnano in via definitiva le ore di sostegno per i gravi utilizzano criteri comparativi e range simili a questo proposto nelle linee guida.

Mi pare giusto che si chieda al GLO un impegno più analitico di valutazione dei bisogni dell’alunno, anche se quello inventato dai ministeriali mi pare oneroso. Ma nello stimare  il range più opportuno c’è sempre una discrezionalità quasi naturale. E, quindi, temo che continueranno ad esserci (anche se in minor numero) avvocati che chiedono l’accesso agli atti dei nostri PEI. Perché, a questo punto, la responsabilità non è più dei soli USR, ma anche dei GLO se a parere di un giudice hanno sottostimato i debiti di funzionamento.

4.3  E infine faccio notare come questo nuovo GLO avrà un carico di impegno certo maggiore e più complicato di prima. In alcune classi vi sono anche 2 disabili, nei primi anni delle superiore perfino 4 a classe. Quindi una miriade di GLO, riunioni, carte da compilare, Teniamone conto.

  1. L’errore della separazione tra “progetto di vita” e PEI

Con la normativa sul nuovo PEI si persevera nell’errore di separare il PEI dal Progetto di vita previsto dalla Legge 328/2000. E’ una separazione sbagliata, nata dagli equivoci tra il MIUR e i Comuni  che separano educazione da assistenza. L’ispirazione del concetto di “progetto di vita” è che tutti (tutti) i soggetti locali che agiscono verso una persona interagiscano tra di loro condividendo i diversi percorsi educativi, clinici e sociali con una comune visione interdisciplinare, tale da rendere il soggetto  protagonista partecipe del proprio progetto di vita. Questa visione coincide anche con il concetto di “accomodamento ragionevole” previsto dalla Convenzione Onu sulle persone con disabilità, che prevede appunto una governance attiva locale come strumento per facilitare  lo sviluppo armonico di ogni persona. Invece in questa strana separazione tra “progetti individuali” di carattere “assistenziale”  dei comuni soggetti ai piani di zona della Legge 328/2000 e il nostro PEI si prevedono solo “dialoghi diplomatici” qualora serva e qualora lo richiedano le famiglie. Non solo, il “progetto clinico” verso la persona rimane lontano, al punto che i clinici nel GLO “supportano” le scuole se serve e non necessariamente condividono. Assurdo.

Occorre a questo proposito ribaltare del tutto il punto di vista che non si è mai riusciti a modificare in venti anni. Per me il PEI è semplicemente una parte, quella scolastica, del progetto di vita della persona con disabilità in età scolare.   Essere una parte vuol dire “essere compreso” da una visione unitaria e multidisciplinare in cui tutti i soggetti che erogano servizi alla stessa persona dialogano e condividono le diverse pratiche, cercandone armonia e connessione.

In termini eleganti si chiama governance centrata sulla sussidiarietà e al servizio della persona.

Invece, niente da fare. Nel nostro caso al clinico spetta compilare l’ICF, parlare ogni tanto con i docenti e le famiglie, se serve “sostiene” il GLO,  ma nulla dice di ciò che intende fare di terapeutico sul bambino. Altrettanto il Comune è presente al GLO se serve nei casi particolari.
E infine perché manca il gran mondo del territorio, fatto da volontariato, aggregazioni sociali ecc.. che agisce verso il nostro alunno con disabilità? Non abbiamo nulla da dirci?.

In un’esperienza di ricerca-azione che ho fatto a Jesi (Ancona) alcuni anni fa abbiamo prodotto un percorso che non a caso si è chiamato “progetto di vita-PEI” in cui tutti i soggetti coinvolti  nella “cura della persona” condividevano e  registravano in un unico strumento tutti gli interventi di inclusione che ogni soggetto prevedeva nel suo settore, cercandone una sintesi e una correlazione. Dal punto di vista del genitore uno strumento formidabile: la scuola scrive la sua parte, la clinica racconta quali terapie ha in corso, il Comune quali azioni di sostegno vuol realizzare, se si vuole  gli scouts raccontano cosa faranno col nostro ragazzo nella sua esperienza scoutistica in corso.

Vorrebbe dire governance effettiva e non questa mania della canne d’organo dove ogni istituzione pensa solo al suo pezzetto di impegno.  Mescolare insieme vuol dire costruire anche una comunità multiprofessionale, dove tutti imparano dagli altri e si connettono a cercare la quadra. E dulcis in fundo… anche ai genitori a Jesi toccava scrivere il loro impegno familiare verso il figlio. Perchè i genitori sono importanti e occorre anche  dar merito alle loro competenze in atto.

Questo modello è radicalmente diverso da questo PEI monumento della scolasticità. Pensa a servizi capaci di progettare la vita per la persona “con la persona” e non ognuna per conto suo.

  1. La privacy e la trasparenza

C’è una questione surreale che sta creando molte discussioni sulla produzione del nuovo PEI.

Dunque: nel nuovo PEI si devono scrivere le ore effettive che ogni alunno/studente con disabilità frequenta davvero e le materie scolastiche effettive che apprende. La cosa ha creato molte critiche e sa anche di un “controllo” indiretto di certi presunti abusi.  Si teme anche che rendere trasparenti l’esonero da ore o discipline favorisca la legittimazione di un abuso.  Il tema è delicatissimo perché tocca una grande varietà di situazioni, alcune periodiche, altre stabili, in cui  ci si trova a lavorare nei diversi anni scolastici.  Eppure è un tema vero e molto serio. Se abbiamo alunni con disabilità iscritti al tempo pieno della primaria che escono alle 14 dopo il pranzo  piuttosto che alle 16 si deve scriverlo o nasconderlo? Se un bambino è costretto, per colpa dei servizi terapeutici, a fare logopedia di mattina che colpa ne ha? I casi sono più di quanto si creda, possono servire per fare una statistica delle diverse forme di inclusione, ma niente più.

Eppure questo tema tocca una questione delicata sulla flessibilità didattica e organizzativa della scuola, legata anche alla sua autonomia. Bizzarro  che il modulo PEI chieda le ore effettive ma non le ragioni pedagogiche o cliniche di questo evento.

Sulle discipline, invece, ricordo che fino all’esame di terza media gli studenti con disabilità vengono formati e valutati secondo il PEI che potrebbe anche valorizzare alcune discipline e considerare meno significative altre. Ma anche qui le Linee guida si prolungano su questioni legate alla frequenza e agli esami.

Piuttosto meriterebbe rilevare quante ore uno studente con disabilità sta in classe e quante nei ghetti delle aule h. Lì c’è il principale problema educativo da considerare, perché una frequenza totale in una classe-ghetto non è inclusione ma isolazione pura.

Si veda, quindi, come questioni collegate alla cd.. “trasparenza” nascondano non tanto la risposta giusta o la bugia, ma il bisogno (prima di tutto pedagogico) di conoscere le diverse condizioni di scolarità e le ragioni delle scelte delle scuole, se pedagogicamente fondate o solo forme di difesa o di sconfitta di una buona scolarizzazione. Il tema riguarda, ad esempio, le troppe scuole che suggeriscono ai genitori di tenersi a casa i figli all’inizio anno se non c’è ancora l’insegnante di sostegno, o ai tanti bambini “cattivi” che si tengono a casa non con una “sospensione” ma come “aiutino” per calmarsi, sia loro che i compagni di classe.

La scuola è per molti bambini e ragazzi molto comp0lessa, sia per quelli con disabilità che gli altri, a volte non c’è spirito comunitario tra famiglie. C’è di tutto, e non solo il bene.

Infine, non comprendo un’ansiosa apologia della privacy sui documenti scolastici degli alunni con disabilità. Spesso insegnanti nuovi non vengono messi in condizione di leggere i PEI dei loro nuovi alunni perché c’è “la privacy”. Sui documenti c’è sempre discussione sulle formulazioni da mettere. In genere chi si vergogna meno e chiede poca privacy è proprio la famiglia del nostro alunno con disabilità, che sa bene come sta il proprio figlio, ma che vorrebbe che tutti gli adulti che operano col figlio fossero messi in grado di conoscere e agire insieme per la qualità dell’inclusione. Dunque, almeno questo nuovo GLO sia un luogo aperto di conoscenza e dialogo, in cui le “carte” non siano strumenti top secret, ma piani di lavoro da condividere serenamente.

  1. Novità sull’inclusione sul secondo grado, un po’ rose un po’ spine

Trovo una bella rosa per l’istruzione secondaria di 2° grado la presenza della questione “transizione alla vita adulta” per il loro PEI. Per un ragazzo con disabilità spesso questa scuola rischia di essere l’ultima che condivide con coetanei, e per lui il passaggio alla vita adulta è certamente più difficile.

E’ un tema appassionante, ho iniziato a lavorarci più di venti anni fa all’Agenzia europea per i bisogni educativi speciali e finalmente si dice qualcosa. Anche se non basta, è per esempio poco marcata la necessità di connessione con la Legge 68/99 sull’inserimento lavorativo agevolato per le persone con disabilità.

Si tratta di avere una visione dell’alunno non solo scolastica, ma integrale delle competenze di autonomia e responsabilità di ogni studente, con percorsi di orientamento, inclusione effettiva, esperienze sul campo,  collegamento con i servizi territoriali che seguono la disabilità adulta. Il rischio altrimenti è che troppi nostro studenti con disabilità finiscano nei cronicari o strutture protette pur avendo abilità maggiori da sviluppare. C’è dunque un vasto campo di crescita della qualità inclusiva del nostro sistema secondario.

Ricordo che se i nostri ragazzi con disabilità frequentano l’istruzione superiore non è merito di una legge ma di una sentenza della Corte Costituzionale. Per il resto la scuola è rimasta la stessa, con quella ridicola separazione tra “percorso equivalente” e percorso differenziato”, cui il MIUR non ha mai messo mano. Anzi, è stupefacente (una vera spina) il tormentone nelle linee guida sulla valutazione dei disabili nella secondaria, dove si arriva  a dire “i disabili hanno il diritto allo studio, ma non il diritto al titolo di studio”. Frase quanto mai sgradevole e persino offensiva, come se i ragazzi con disabilità fossero “ladri” di titoli. Si sa bene che la questione è ben altra, e cioè che ad ognuno va dato il massimo di sviluppo delle potenzialità individuali, cognitive e sociali,  e ad un ragazzo con disabilità il sogno di un futuro migliore possibile, non una carta col timbro.

  1. Dulcis in fundo

Qualche anno fa, in un istituto professionale alberghiero della mia regione.
Viene in visita ufficiale la direttrice generale del Ministere de l’education national di Francia. E’ qui per preparare il viaggio del suo ministro nella nostra regione,  dedicato all’inclusione.
Al tavolo per il pranzo ho la preside a sinistra e la direttrice francese a destra. All’antipasto ci serve un ragazzo di terza, giacca e cravatta, e la preside gli chiede: “Come va, Giovanni?” (nome di fantasia). E Giovanni risponde: “Molto bene, preside!”.  E poi sottovoce mi dice: “Giovanni è arrivato con una diagnosi psichiatrica pesante, una brutta bipolarità, e timori di autolesionismo, ma mi pare che qui stia bene”. Traduco alla ,collega francese che mi ascolta stupita.  Al secondo giro, la preside dice a Giovanni “ma stai davvero bene, Giovanni? Cosa abbiamo fatto qui per farti star bene?” E Giovanni risponde “Da quando mi avete nominato tutor di un ragazzino di  prima sono felice. Devo farmi veder bravo per lui”.

Dunque: ad un ragazzo psichiatrico grave, art. 3 comma 3, la scuola affida (cioè si fida, da fiducia) un ruolo tipico di queste scuole: i ragazzi di terza si prendono in cura un ragazzino di prima facendo loro quasi da fratello maggiore. E questa scuola di affidarne uno a Giovanni!  Che si è accorto che forse non tutto in lui è follia, che anche lui può dare non solo ricevere.

Racconto brevemente questo piccolo caso per suggerire a tutti coloro che avranno a che fare col nuovo PEI un approccio certamente attento  ai suoi diversi aspetti formali, ma con uno sguardo di fondo squisitamente pedagogico. Servono carte ben scritte che hanno al centro non l’adempimento ma una spinta  di impegno a farne un progetto di inclusione davvero utile  per tutti i nostri vari Giovanni. Dunque che sia  la ricerca di soluzioni positive, di scambio, di apertura alla partecipazione di tutti.

L’esempio di Giovanni dimostra che una buona inclusione è ancora possibile.  L’esperienza italiana di inclusione, nonostante le difficoltà e regressioni, è ancora un valore, va salvaguardata.
Per questo mi offro volentieri a  fare formazione con chi vorrà accogliermi per gestire bene questo nuovo PEI con gli occhi di Giovanni. Per la qualità pedagogica vera fatta sul concreto, senza arrendersi alla forma e alla ritualità.