Dal voto ai giudizi: i perché di un cambiamento necessario

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di Cristiano Corsini

Nella scuola primaria si passa dal voto ai giudizi. Anche se si tratta di un cambiamento del tutto in linea con la ricerca educativa e valutativa più avanzata – o forse proprio per questo motivo – l’accoglienza da parte dell’opinione pubblica è stata finora caratterizzata da una certa dose di circospezione e sospetto. Come ho già rilevato, sul Corriere della Sera Galli della Loggia ha attaccato frontalmente i giudizi, definendoli poco chiari e buonisti. Benché le lapidarie opinioni dell’editorialista siano, come vedremo, del tutto infondate dal punto di vista scientifico ed educativo, ritengo utile partire da esse per ragionare sulle motivazioni profonde di questo passaggio. Le posizioni di Galli della Loggia costituiscono infatti un’efficace sintesi dei luoghi comuni che egemonizzano il dibattito su insegnamento e valutazione destinato al grande pubblico e restituiscono una preziosa testimonianza degli ostacoli che anche i cambiamenti educativi più sensati incontrano sul piano comunicativo.

Va considerato che il maggiore impedimento alla comprensione di un simile cambiamento è legato alla confusione rispetto al significato da attribuire alla valutazione educativa. Se guardiamo alle ricerche empiriche e alle sistematizzazioni teoriche degli ultimi decenni, possiamo definire la valutazione educativa un giudizio di valore che viene emesso sulla distanza tra la realtà che accertiamo e le nostre aspettative (tipicamente: tra il livello degli apprendimenti e gli obiettivi) ed è utile a ridurre tale distanza. Il problema è che questa definizione, che concepisce la valutazione come strategia che dà forma a insegnamento e apprendimento, sebbene si sia mostrata negli anni estremamente efficace dal punto di vista didattico (in poche parole: chi la pratica ottiene risultati migliori da studentesse e studenti), è scarsamente diffusa in un’opinione pubblica abituata a concepire il giudizio o il voto prevalentemente nei termini di una classifica poco utile dal punto di vista educativo ma funzionale alla riproduzione di una visione gerarchica e meritocratica della società.

I perché del voto: l’illusione di immediatezza e oggettività

In poche parole, un punto di vista come quello di Galli della Loggia, pur disinformato sul piano pedagogico, ottiene un’eco notevole, rappresentando e informando l’opinione pubblica all’interno di un dibattito che è tradizionalmente refrattario al parere di soggetti competenti.

Non è un caso che proprio sulle pagine del Corriere della Sera nel 2008 Tremonti, allora ministro dell’Economia e delle Finanze, non ritenendo forse di avere congiunture economiche particolarmente complesse da gestire (come ricorderete, fummo l’ultimo Paese ad ammettere di essere in crisi economica e l’ultimo a uscirne, ammesso che ne siamo mai usciti), decide di occuparsi di questioni docimologiche. Per Tremonti, i voti rispetto ai giudizi assicurano oggettività e immediatezza alla valutazione. Si tratta di un punto essenziale, dato che l’oggettività e l’immediatezza nella valutazione sono due miti estremamente diffusi e la loro presa sull’opinione pubblica garantisce a discorsi come quelli dell’ex ministro e di Galli della Loggia una notevole popolarità. Tremonti benedice così il passaggio dai giudizi ai voti voluto dalla collega Gelmini:

I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri. Un terremoto è misurato con i numeri della scala Mercalli o Richter […]. La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici. I numeri sono insieme precisi e semplici. Il messaggio che trasmettono è un messaggio diretto.

Se gli stessi fenomeni […] fossero espressi non con i numeri ma attraverso frasi complesse con finalità descrittive, il messaggio resterebbe impreciso.

L’ex ministro considera i giudizi confusi e imprecisi – non diversamente da Galli della Loggia – e difende pertanto il voto numerico in virtù della sua capacità di trasmettere un messaggio preciso e diretto. L’argomentazione a sostegno è estremamente interessante e merita di essere analizzata in maniera più dettagliata.

In primo luogo, Tremonti sostiene che, essendo i numeri precisi e i giudizi confusi, se i fenomeni fossero espressi con frasi complesse con finalità descrittive il messaggio sarebbe impreciso. Per dimostrarlo, tra gli esempi che sceglie figura il terremoto, misurato con la scala Mercalli o Richter. Il problema è che la prima scala in realtà avvalora perfettamente proprio la tendenza che Tremonti intende contrastare, essendo costituita da frasi con finalità descrittive di differente complessità. E si tratta, è bene tenerlo a mente, di una scala ordinale.
In secondo luogo, Tremonti sostiene che la mente umana sia semplice e che risponda a stimoli semplici. Si tratta di una legittima opinione, presumibilmente legata alle frequentazioni dell’ex ministro, ma non ha alcun appiglio dal punto di vista scientifico ed educativo. In particolare, qualunque docente può testimoniare della complessità che governa i rapporti di insegnamento e apprendimento e di come al variare di determinati stimoli didattici le risposte da parte di studentesse e studenti siano in realtà mediate da un’infinità di variabili. Questo significa che in campo educativo non c’è nulla che sia diretto e, a parte qualche imbarazzante eccezione, chiunque intenda educare, formare o insegnare accetta di buon grado di dover mediare tra le conoscenze, le abilità o le competenze che si pone come obiettivo e le soggettività con le quali ha a che fare. I voti non garantiscono alcuna immediatezza nella valutazione, dato che quanto di immediato esprimono è una scala numerica e nulla più. L’unica informazione immediata trasmessa con un voto è che 6 è più di 5 e meno di 7, ma nulla sappiamo sul livello degli apprendimenti che questi numeri dovrebbero significare. Al contrario, per esprimere cosa è necessario porre in essere per arrivare a un 6 o a un 10, ovvero per mantenere fede alla funzione educativa della valutazione, sono necessarie frasi complesse con finalità descrittive. L’immediatezza dei voti è dunque del tutto illusoria.

Stabilito che i voti non garantiscono nulla sul piano dell’immediatezza, rimane da capire cosa assicurino quanto a oggettività. Cominciamo col dire che, come abbiamo visto, i voti numerici rappresentano un tipico esempio di scala ordinale, ovvero di un ordinamento che non è in grado di indicare la differenza tra un elemento e l’altro. Nello specifico, non sappiamo se tra 5 e 6 esista la stessa differenza che riscontriamo tra 9 e 10. D’altra parte, non sappiamo neanche se due 5 indichino lo stesso livello negli apprendimenti. Quello che invece sappiamo è che, tra le operazioni che possiamo legittimamente svolgere con una scala ordinale, non rientra la media aritmetica che pure, dalla scuola all’università, domina inopinatamente i processi valutativi. Insomma, di oggettivo nel voto non rimane nulla. Un’altra cosa che sappiamo da decenni è che due docenti di fronte allo stesso compito svolto raramente assegnano lo stesso voto e che troppo spesso ci sono scarti significativi, relativi anche ad ambiti scientifici. Si tratta di un fenomeno riscontrato già da Piéron nel secolo scorso e ampiamente confermato nei decenni successivi, legato al fatto che, in assenza di rifermenti criteriali e descrittivi, il voto numerico è facile preda delle numerose distorsioni che caratterizzano il processo valutativo.

Dunque, una valutazione incentrata sul voto numerico garantisce un’immediatezza e un’oggettività meramente illusorie e, mancando di affidabilità, non è affatto rigorosa. Inoltre essa, non fornendo indicazioni per migliorare, è del tutto inutile dal punto di vista educativo, non consentendo a chi ha voti “bassi” di migliorare. Ma, d’altra parte, non è questo il suo scopo.

I perché dei giudizi: venire a patti con la complessità di insegnamento e apprendimento

Stabilita le necessità di abbandonare i voti, quel che rimane da fare è stabilire quali giudizi impiegare per valutare. La scelta operata nella redazione delle Linee Guida dalla Commissione presieduta da Elisabetta Nigris è stata in primo luogo quella di impiegare i giudizi in relazione a più di un obiettivo stabilito per ciascuna disciplina. In questo modo, viene evitato che una valutazione sintetica copra carenze e punti di forza. Inoltre, i giudizi sono ancorati a livelli stabiliti a partire da specifiche dimensioni (autonomia, tipologia del compito, impiego di risorse, continuità) delle prestazioni: in tal modo, il riscontro si riferisce ad aspetti specifici del lavoro svolto da studentesse e studenti. Viene così garantito un rigore nell’accertamento che il voto numerico non può raggiungere e, cosa più importante, il riscontro ha maggiori possibilità di incidere sugli apprendimenti successivi. Il tutto nella consapevolezza che l’aspetto comunicativo non è solo un momento del processo valutativo, ma ne rappresenta il passaggio più importante: quando comunichiamo un giudizio, noi stiamo insegnando qualcosa.
Sostanzialmente, la Commissione – accettando che l’unica oggettività concessa nelle cose umane è l’intersoggettività e puntando, piuttosto che su un’impossibile immediatezza, su una sostenibile intermediazione – ha evitato di spacciare soluzioni semplici a problemi complessi. Facendo ciò, ha allineato la scheda valutativa alla ricerca empirica e alla sistematizzazione teorica più aggiornate in campo valutativo. Le indicazioni che seguono costituiscono una sintesi di ciò che funziona davvero nella valutazione educativa, ovvero in una valutazione che educa, e possono considerarsi complessivamente rappresentate nelle Linee Guida licenziate dalla Commissione.

  • La valutazione educativa si concentra sui progressi individuali. Ci dice quello che abbiamo appreso e ci spiega come procedere, un numero non indica nulla di simile.
  • La valutazione educativa è guidata da criteri comunicati in anticipo alla classe, un numero non è un criterio.
  • La valutazione educativa non è basata sul confronto con le valutazioni altrui (anche se è ci utile, mentre apprendiamo, il confronto con compagne e compagni), un numero può indurci a stilare classifiche deleterie, sviluppando una motivazione estrinseca all’apprendimento.
  • Una buona valutazione non usa l’errore come stigma o come penalizzazione (“tolgo un punto a errore”), ma lo individua in maniera rigorosa, lo condivide e lo impiega come occasione di apprendimento, un voto numerico non fa nulla di simile.
  • La valutazione educativa non assegna premi o sanzioni, ma la sua posta in palio è un’informazione ricca, che indichi come procedere, un numero non indica nulla di simile.
  • La valutazione educativa insegna ad autovalutarsi, fornendo criteri di riflessione e azione, un numero no.

Per concludere: la posta in gioco

Al posto del voto numerico, le famiglie si troveranno di fronte giudizi che indicano la progressione di studentesse e studenti rispetto a obiettivi di apprendimento. Tali giudizi saranno motivo di confusione? In alcuni casi, probabilmente sì. Ma quanto erano chiari i voti? Poco. Nel voto, un’illusoria patina di immediatezza e oggettività nasconde confusione, arbitrio e, spesso, approssimazione.

Indubbiamente, sulla confusione generata da obiettivi espressi in maniera poco accorta si può e si deve lavorare. Ma scuole e docenti hanno tutto il tempo per rimodulare gli obiettivi (qui e qui alcune indicazioni) e, soprattutto, per stabilire un confronto con famiglie, studentesse e studenti che coinvolga attivamente tutte le parti in causa. Questo perché basare la valutazione su giudizi che rimandano esplicitamente a quanto svolto significa condividere e assumere responsabilità.

Responsabilità che riguardano studentesse e studenti, dato che potranno usare i criteri di valutazione per orientare il proprio apprendimento.

Responsabilità che riguardano le famiglie, che avranno una buona occasione per concepire la valutazione non più come il fine del percorso scolastico, ma come un mezzo per regolare un processo rispetto al quale hanno il diritto-dovere di pretendere, finalmente, informazioni affidabili.
Responsabilità che riguardano soprattutto migliaia di insegnanti che avranno l’opportunità di concepire la valutazione per quello che è, ovvero una strategia didattica che non può essere improvvisata. Nel passato, col passaggio dai voti ai giudizi del 1977, l’assenza di un piano sistematico di formazione, sperimentazione e ricerca ha compromesso le possibilità di un reale cambiamento nella didattica, prova ne sia la tendenza, sin troppo diffusa, a usare i giudizi come voti.

Quella che è in gioco è – come sempre – la funzione sociale della scuola. La valutazione incentrata sul voto numerico, limitandosi a ratificare gli esiti di studentesse e studenti, consente al sistema di istruzione di riprodurre, legittimandole, le enormi differenze nelle opportunità educative di milioni di studentesse e studenti. È anche per questo che il voto piace tanto alle soggettività più retrive, sintomatiche o meno che siano. Per evitare di ripetere gli errori commessi in passato è necessario coinvolgere università, soggetti competenti e scuole in progetti di ricerca-formazione incentrati sulla soluzione dei problemi che questo passaggio pone nella pratica didattica. Perdere ancora una volta un’occasione simile significherebbe vanificare gli sforzi di chi concepisce la scuola come strumento di democratizzazione della società finendo col dare ragione a chi, rispetto a problemi complessi, propone soluzioni semplici, plausibili e sbagliate.