Il principio di educabilità e il diritto dell’allievo di “fare resistenza”

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di Raimondo Giunta

Attenersi al principio di educabilità significa pensare che qualsiasi alunno è capace di fare meglio di quanto non sembri e di quanto non abbiamo creduto.

Significa pensare che tutti hanno il diritto di essere educati nei tempi e con i modi più congeniali alle loro attitudini.
E’ il principio che dà sostanza e giustificazione all’esistenza dei sistemi di istruzione.
Succede a volte che l’alunno si collochi in posizione ostile o indifferente rispetto all’insegnamento; l’educatore, in questi casi, deve chiedersi per quali motivi avvenga e non dovrebbe cercare violare questa resistenza.
L’educazione è condivisione, non violenza; è chiamata, non costrizione. Si agisce sulle cose, non sulle persone: nell’educazione, pertanto, è possibile che l’insegnante faccia esperienza della propria impotenza.

L’educabilità si deve misurare con l’impossibilità, anzi con il divieto di condizionare il soggetto in apprendimento, che ha tutto il diritto di poterci sfidare con il suo rifiuto, con la sua opacità, con la sua avversione.
Mettere al centro l’alunno vuol dire anche questo.
La buona pedagogia ci ricorda il diritto dell’alunno alla sua irriducibilità ai tentativi di seduzione di condizionamento, di manipolazione.
Non promette di fare miracoli.

L’educazione, proprio per questi motivi, è un percorso accidentato e avventuroso sul cui esito felice non ci sono certezze e non si possono fare scommesse: bisogna misurarsi con le contestazioni, con gli ostacoli e con i rifiuti; bisogna mettersi sempre in discussione e solo così si potrà sperare nel successo formativo.

Il desiderio di apprendere e la perseveranza nell’impegno dell’alunno senza dubbio dipendono dal lavoro dell’insegnante e dalla sua capacità di instaurare una relazione educativa “rassicurante” e motivante; dipendono dalla sua quotidiana testimonianza di proporsi come esempio di ricerca e di amore del sapere.
“Se mai qualcuno ti avrà educato, non sarà stato con le sue parole, ma col suo esempio”(Pasolini).
L’azione educativa per le emozioni molteplici che suscita, per la disparità di statuto dei partners in causa, per le poste in giuoco supposte o reali, è un’esperienza che resiste a molti tentativi di razionalizzazione, verso i quali ci si deve dotare di un sovrappiù di precauzione e forse di preoccupazione.

Non c’è niente di peggio per la ragione degli eccessi razionalistici.
“L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione”(E.Morin).
Una concezione puramente funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante ad un semplice impiegato; l’accezione esclusivamente professionale lo riduce ad esperto.
I giovani hanno bisogno di adulti umanamente significativi che sappiano parlare alla loro mente e al loro cuore, di docenti che sappiano dar vita al sapere trasformandolo in risorsa per risolvere problemi e per vivere meglio.
L’educatore è paziente davanti l’errore e lo trasforma in una risorsa per la crescita dell’alunno; ascolta con attenzione i ripensamenti e i dubbi e incoraggia, perchè la difficoltà è superabile e il problema può essere risolto, perchè l’alunno ne è capace e prima o poi ne verrà fuori.

Nell’insegnamento bisogna coniugare il rigore della professionalità e la benevolenza del’amico, doti umane indispensabili per rispettare il principio di educabilità delle persone. Nell’educazione ci vogliono più certezze morali che scientifiche: ogni pratica pedagogica sottintende una concezione dell’uomo oltre quella dell’apprendimento e rinvia all’etica della convinzione e all’etica dell’autenticità; ogni insegnante in classe propone, a volte inconsapevolmente, un modello educativo in cui le conoscenze professionali si intrecciano con criteri di valore.
E’ un dovere renderli espliciti e commisurarli al rispetto dei diritti dell’alunno ad una buona formazione. Per educare bisogna agire in classe come comunità morale, come comunità democratica, come comunità di apprendimento.