La parola “merito” va bene, ma va usata nel contesto giusto

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di Domenico Sarracino

L’idea di chiamare “Ministero dell’Istruzione e del Merito” il vecchio MPI mi ha sorpreso creandomi un certo disagio e anche un inquieto malessere. Dico subito che di per sé l’idea di riconoscere e valorizzare il merito mi trova favorevole, ma a patto che la parola non sia presa isolatamente, ma chiarita, contestualizzata e collegata ad altre fondamentali condizioni.
Ora, il fatto che la compagine di governo utilizzi questa parola insieme ad espressioni ed esternazioni retrive ed oscurantiste che riguardano diritti, visioni del mondo, fatti religiosi e problemi economici e sociali, viene a costituire un puzzle minaccioso che non può non preoccupare.
Nelle mie considerazioni voglio partire dalle disparità presenti nella nostra società che non diminuiscono, anzi si accrescono, per richiamare subito il più alto compito che la Carta costituzionale si pone ed affida a chi è chiamato a guidare il Paese: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Dunque innanzitutto è necessario l’impegno a rimuovere le disparità, a costruire medesime condizioni di partenza e opportunità perché ciascuno poi possa farsi costruttore del proprio futuro, progredire, uscire dalla condizione di condanna ad una immutabile predestinazione che lo confina nella subalternità e ne deprime le aspirazioni.

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Se per tanti di noi l’ascensore sociale si è messo in moto permettendo di raggiungere mete ed un progresso sociale che i genitori, per le ingiuste condizioni sociali, spesso non hanno potuto conseguire è perché si sono congiunti due fattori importanti. Da un lato l’impegno, la fatica e lo spirito di sacrificio (rinunciare ad un divertimento, trascorrere le domeniche a preparare un esame, arrangiarsi con libri usati, arrotondare con qualche ripetizione e cose del genere) per poter esprimere le proprie potenzialità ed spirazioni; dall’altro il sostegno ricevuto dalla nostra Repubblica ( interprete dell’ansia di giustizia sociale e progresso provenienti dall’antifascismo e dalla Resistenza) attraverso borse di studio, assegni universitari ed altre facilitazioni. Promuovere il merito, intendendolo in questo senso, è un fatto di crescita individuale e sociale, apre la società a dinamiche progressive e costituisce un passo nella direzione dello spirito costituzionale e dell’uguaglianza delle opportunità.

E’ importante rilevare che Il benessere, la serenità della vita, la buona organizzazione sociale – un efficace sistema sanitario, scuola accogliente e ben funzionante, uffici pubblici competenti e disponibili, politiche non demagogiche ma responsabili – non sono mai dati automaticamente, ma sono sempre il frutto di una buona e giusta organizzazione sociale, del lavoro degli uomini e delle donne, delle loro preparazioni professionali e della responsabilità con cui le esercitano. Il vero riconoscimento del merito è quello che mette al bando nepotismi, raccomandazioni e scambi di favore; e pone abbienti e meno abbienti nelle stesse condizioni di partenza.

Il merito non può ridursi ad una corsa, ma deve essere un impegno a fare ciascuno al meglio il suo lavoro, a svolgere responsabilmente il compito a cui è chiamato. Infine, nel campo della scuola la parola in questione merita una particolare declinazione sia che si parli degli allievi che dei docenti.
Riferendoci agli allievi, non credo che ci sia consiglio di classe, per quanto malmesso, che nel processo valutativo non tenga conto di questi punti fermi, ben noti agli operatori del settore: situazione di partenza, percorso compiuto, impegno, buona volontà, partecipazione alla vita di classe, responsabilità e collaborazione; e non ci può, non ci dovrebbe essere consiglio di classe che non tenga conto anche dei supporti forniti per non fare parti uguali tra disuguali. E qui, più che parlare di merito, parlerei di valorizzazione da riconoscere.
Per quanto riguarda il lavoro dei docenti – che si articola in competenze disciplinari, didattiche, psico-pedagogiche, relazionali ed organizzative – non voglio negare che esistano differenze, ma nel contempo non posso non rilevare che esso è difficilmente misurabile, perché i modi di essere bravi professionalmente sono diversi ed ognuno ha i suoi effetti positivi sulle ricadute educative: c’è chi è un bravo disciplinarista e magari non brilla in empatia; chi si connota per le particolari doti didattiche; chi per una naturale dimestichezza con il mondo delle nuove tecnologie; chi per il tratto umano e la cura degli aspetti psicopedagogici; chi , più estroverso, riesce meglio a vivacizzare la lezione; chi è esempio di organizzazione, metodo, puntualità e precisione; chi più naturalmente è capace di stare vicino, incoraggiare e stimolare …
C’è poi anche il caso di insegnanti che non ce la fanno a reggere la classe o di chi demerita, ma la mia esperienza mi permette di dire che si tratta di casi sporadici e limitati, che si possono affrontare occupandoli in compiti collaterali o, nei casi di violazioni dei compiti contrattuali, ricorrendo alle leggi in materia. Infine, rimanendo nel campo scolastico, mi pare davvero importante richiamare un’osservazione che anche in questa sede va ribadita.
La scuola non è un processo produttivo, in essa non si producono oggetti, per cui data una materia grezza , si organizza una catena produttiva alla fine della quale devono uscire prodotti standardizzati con precise caratteristiche.
No, la scuola non è questo e guai se anche lontanamente qualcuno arrivasse a pensarlo. Dalla scuola non uscirebbero persone libere e dotate di autodeterminazione, ma freddi automi, mostruose amebe, la fine del mondo umano. Il difficile o la specificità del lavoro scolastico sta nel fatto che i soggetti in formazioni sono esseri umani, ciascuno con una propria storia, le proprie conoscenze ed esperienze, il proprio vissuto, il proprio background; e che perciò non possono essere oggetti predefiniti, ma soggetti che devono acquisire un loro sapere e saper vivere, un loro peculiare abito comportamentale, una capacità di pensiero autonomo e libero. Il lavoro scolastico non è una filiera lineare e ben sequenziata che si può racchiudere e descrivere in una formula, un algoritmo.
A scuola il successo educativo e le buone riuscite degli allievi sono sempre il frutto dell’azione educativa condivisa e congiunta che richiede costante ricerca e messa a punto, tentando e ritentando; è il risultato di una comunità di soggetti che solo agendo insieme possono riuscire nel difficile compito. E perciò premiare, riconoscere il merito di pochi, comporta il rischio di minare quel clima di collaborazione ed aiuto reciproco che fonda la comunità educativa e che permette alle forze di unirsi, e così facendo non le separa, non le contrappone ma moltiplica la capacità della scuola di svolgere i suoi importanti e delicati compiti