Francesco De Bartolomeis, un maestro della pedagogia contemporanea, e di molti di noi

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di Gianni Giardiello

 Vi racconto di Francesco De Bartolomeis, un importante maestro della pedagogia contemporanea, docente emerito della Università di Torino, insignito del titolo d’onore dell’Accademia Albertina delle Arti di Torino per i suoi meriti di critico d’arte.

Christian Raimo nel gennaio del 2020, in un articolo sulla rivista “Internazionale” pubblicato in occasione del 102esimo compleanno del prof., lo presentava così:

“E’ nato a Salerno mentre finiva la prima guerra mondiale e aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 anni ha pubblicato –per intercessione di Benedetto Croce-  il suo primo saggio “Idealismo e Esistenzialismo”, attraverso cui faceva già i conti con l’eredità idealogica del fascismo. E’ un antifascista convinto.  …. Da molti anni vive a Torino e la sua storia è la storia della migliore classe intellettuale che questo Paese abbia avuto. … Delle persone anziane come lui in genere si dice che siano lucide per fargli un complimento; ma De Bartolomeis è molto più che lucido: è analitico, puntualissimo, idiosincratico, aggiornato, combattivo.”

Il racconto che mi accingo a fare riguarda un paio di decenni della sua, mia /nostra vita, quelli in cui noi ci siamo formati umanamente e professionalmente che vanno grosso modo dalla seconda metà degli anni   ’50 o giù di lì, ai primi anni ’70. Uso il noi plurale con un po’ di supponenza, ma senza timore di sbagliare, poiché sono certo che in questa storia non ci sono solo Francesco ed io, ma anche molti di voi, colleghi e amici e miei contemporanei, che mi state leggendo. Poi ci stanno molte altre cose, le nostre scuole, le idee sociali, i principi per una nuova educazione, le teorie pedagogiche, le vicende di un Paese che cercava di rimettersi in sesto e rilanciarsi dopo gli anni orribili del ventennio fascista e le conseguenze di una guerra rovinosa.

Francesco De Bartolomeis è stato uomo di grande cultura, esponente della migliore classe di intellettuali che abbia avuto il nostro Paese “Quella classe –come dice Raimo nella già citata sua presentazione – che negli anni dell’immediato dopoguerra s’inventa una cultura democratica per una società che ancora non esiste”.

De Bartolomeis è stato maestro per molti di noi, soprattutto in quegli anni giovanili, quelli della nostra formazione umana e professionale, e anche in questi ultimi tempi, alla veneranda età di 105 anni, sembrava non avere nessuna intenzione di mollarci, anzi. Erano molti di noi ad avere il fiatone a volergli stare dietro. Ogni tanto lo incontravamo in un convegno sulla scuola, alla presentazione di un suo ennesimo libro, dietro la cattedra dell’Accademia Albertina a dialogare con pittori, scultori o giovani di street art., sempre attivo, sempre un po’insofferente verso i propri malanni, sempre critico e pungente con i molti altri, anzi con quasi tutti. Un giorno lui aveva già 104 anni, con la posta elettronica, gli chiesi cosa pensava del nuovo ministro dell’Istruzione Valditara. Mi rispose come sempre con poche parole perché, diceva, aveva gravi difficoltà di vista: “E’ una disgrazia, una delle tante disgrazie di questo governo”. E in un intervista rilasciata al quotidiano Domani precisava: “Mi sembra assolutamente inadeguato, farebbe bene a stare zitto, dice delle autentiche sciocchezze. Lei si sentirebbe di umiliare una persona e poi dire che l’ha migliorata? E’ una frase molto significativa per la sua mancanza di senso”.

Sempre in movimento e, come lui stesso amava dire, sempre un po’ smodato, nel senso di fuori moda, continuava imperterrito il suo percorso di ricerca fra pedagogia, problematiche dell’educazione e della scuola, critica d’arte, estetica, creatività, e un sacco di scrittura e, negli ultimi anni soprattutto, anche di pittura.

Un “viaggiatore” smodato o non piuttosto, come distingueva Umberto Galimberti sulla pagina culturale de La Stampa di qualche settimana fa , un “viandante”, cioè uno che, a differenza del viaggiatore, rinuncia a dominare il tempo, viaggia per viaggiare e non per arrivare; è un nomade che trova il senso della vita nella ricerca

Una definizione, quella di viandante, che calza a pennello con molti aspetti della personalità e della maniera di vivere di Francesco De Bartolomeis. Intervistato in occasione del suo 102 esimo compleanno diceva: “La mia carriera continua, non spetta a me valutarne i risultati recenti, ho sempre cercato di fare cultura e nella cultura non ci sono i master come nelle attività sportive. Spero che quello che continuo a dire e a fare nelle mie conferenze, nei miei libri, sia giudicato attuale. Il mio viaggio continua…”.

In effetti non si è mai fermato. Ha continuato a percorre i sentieri della ricerca e della cultura, della filosofia e della pedagogia, scoprendosi financo artista dopo essere stato importante critico d’arte, creativo sempre. In uno dei miei ultimi incontri con lui nel suo studio di corso Vittorio Emanuele, notai che sul suo computer si stavano allineando le pagine di un nuovo, ennesimo libro. Riuscì anche in quella occasione a sorprendermi ricordando i miei precedenti interessi per la didattica della storia e della geografia e chiedendomi di poter consultare un volumetto edito da Loescher nella collana “Scienze dell’educazione” (1976), che conteneva una sua ampia relazione sul metodo della ricerca nello studio della geografia svolta nell’ambito delle Giornate di studio su “Scuola e trasformazione sociale: il ruolo della geografia” organizzate dall’associazione AIIG insieme alla Università di Torino, volumetto che non riusciva a trovare nella sua biblioteca. In effetti quel testo io possedevo e fui ben lieto di far gli avere.  Mi resi conto che, con tutta evidenza la sua ricerca continuava, inarrestabile e vitale, a dispetto dei limiti fisici che inevitabilmente stavano sopravvenendo: “non riesco più a fare le 20 vasche in piscina che pure nuotavo giornalmente fino a pochi mesi fa …”.

E’ stato protagonista intellettuale fin da subito.

A Firenze scriveva saggi di filosofia e pedagogia per la rivista Il Ponte di Piero Calamandrei e collaborava alla rivista Comunità di Adriano Olivetti, seguendo da vicino il lavoro della Montessori, e la sperimentazione pedagogica del gruppo accademico guidato da Ernesto Codignola con Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi e altri ma, soprattutto collaborando alla nascita del Movimento di Cooperazione educativa insieme a giovani insegnanti elementari come Bruno Ciari, Giuseppe Tamagnini, Giovanna Legatti, Mario Lodi, che cominciavano ad applicare nelle loro classi le tecniche di Celestine Freinet.  Studiava soprattutto il funzionamento delle cosiddette nuove scuole italiane e europee, occupandosi in particolare della prima infanzia con Margherita Zoebel fondatrice dell’Asilo italo svizzero di Rimini, e, successivamente, delle scuole dell’infanzia messe in piedi da Adriano Olivetti.

E’ il periodo in cui De Ba esplora e approfondisce le nuove pedagogie e didattiche antigentiliane sviluppatesi in Europa sull’onda del pragmatismo americano di Dewey. Di questo filosofo e pedagogista statunitense, il De Bartolomeis in collaborazione con quel gruppo di intellettuali e docenti fiorentini guidati da Ernesto Codignola traduce e propone alcune opere. La Nuova Italia, ne pubblica alcune, a cominciare da “Il mio credo pedagogico” (tit. it. “L’educazione di oggi” 1950) introducendo nella pedagogia italiana, una ventata culturale decisamente nuova e stimolante.

Io credo che … ogni vera educazione derivi dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie …, la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale …. Io credo che .. l’educazione sia perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro…io credo che …” ecc.

In poco più di una decina di pagine Dewey già alla fine dell’800, diceva agli americani del  valore decisivo dell’educazione, del rilievo sociale e civile della scuola e del lavoro degli insegnanti, chiarendo con forza che i processi di acquisizione delle conoscenze erano determinati principalmente dalle esperienze e dagli interessi di chi impara, e che di questi va tenuto gran conto nell’insegnamento, dal suo rapporto con la società  e con la natura, sottolineando l’importanza delle attività e in particolare delle attività cooperative, e del linguaggio come strumento per comunicare e interagire con gli altri.

In una delle sue opere successive più interessanti : “Scuola e società”, Dewey affermava una sorta di circolarità fra educazione e società dicendo che “l’educazione deve essere concepita come ricostruzione continua dell’esperienza” e quindi: “… se tutto quello che si fa a scuola non ha una ricaduta sulla società è del tutto inutile”: e il giovane De Bartolomeis, fresco vincitore di una libera docenza e un paio di anni dopo in cattedra a Torino, di quel credo fa una sua personale lezione nella vita e anche nell’insegnamento accademico.

 Che “accademico” non fu mai: “Non faccio lezioni sul lavoro di gruppo, ma faccio lavorare in gruppo”.

In effetti con lui non facemmo quasi mai lezioni di tipo accademico. In quei primi anni ’60 ci portò molto in giro per l’Italia. Osservando, e ragionandoci insieme, scoprimmo e documentammo molte cose interessanti sull’organizzazione e i metodi di insegnamento di alcune scuole sperimentali italiane come Città- Pestalozzi di Firenze, l’Umanitaria di Milano, o l”Asilo Italo /Svizzero” di Rimini. Con lo stesso spirito di ricerca con lui facemmo seminari residenziali e frequentammo alcuni laboratori di pittori torinesi confrontandoci direttamente con i problemi e le difficoltà dell’operare in campo espressivo e creativo. La creatività è stato sicuramente il campo della personalità infantile più studiato e più valorizzato nella ricerca psicopedagogica di De Bartolomeis.

Contestualmente Francesco De Bartolomeis andava raccogliendo in alcune pubblicazioni la sua lezione pedagogica antigentiliana. Ne ricordo soprattutto tre importanti, soprattutto perché furono i testi che portai al mio primo esame di pedagogia.

Il corposo volume de “La Pedagogia come scienza”, editrice “Nuova Italia”, e i due volumetti: “Cos’è la scuola attiva” e “I metodi della pedagogia contemporanea” per le edizioni universitarie Giannasso e successivamente per le edizioni Loescher, rappresentano la documentazione più completa e approfondita di quella rivoluzione copernicana che aveva investito la pedagogia e la didattica in quel decennio. Una combinazione esplosiva fra le nuove idee sull’educazione, le teorie pedagogiche capaci di finalizzarle e sostenerle, e i metodi didattici attivi per dar loro corpo nel concreto processo di insegnamento e apprendimento. Per gli insegnanti che lo lessero significò, non solo l’acquisizione di un orientamento scientifico nei confronti del proprio mestiere, quanto soprattutto la capacità di “non volgere le spalle ai fatti” che ogni insegnante ha sempre di fronte.

Diceva De Bartolomeis, a dire il vero anche con una certa brutalità, in una sua prefazione: “Non esitiamo ad affermare che la incapacità educativa della maggioranza degli insegnanti, dipende dalla mancanza non meno di idee chiare sulla scuola attiva che di metodi efficienti per realizzarla (…) A che serve riempirsi la bocca della “libertà”, della “spontaneità”, della “creatività” del fanciullo, quando non sappiamo che cosa esse esattamente comportano dal punto di vista di esperienze concrete, quali problemi implicano, in quali forme si esprimono, quali sono le condizioni favorevoli o sfavorevoli del loro operare?”.

Uno dei principi più importanti che appresi dai quei testi che raccontavano di una educazione nuova possibile, è che il buon insegnamento riconosce, rispetta, e soprattutto cerca di “liberare” i bisogni di fondo degli allievi, I bisogni di conoscere, di esplorare il mondo, di esprimersi, di muoversi e di comunicare, di costruire relazioni affettive. ecc. Per questo era decisivo il ricorso ad un metodo di insegnamento e di apprendimento basato sulle attività, sul fare, sullo scoprire insieme sia sul campo che sui libri. Il compito dell’insegnante diventa quindi quello di predisporre le condizioni culturali, ambientali, materiali e strumentali perché questo processo di autoorganizzazione del sapere possa avvenire.

Ma le conoscenze e gli stimoli culturali pur acquisite nell’originale percorso di ricerca predisposto e proposto dai suoi libri, non sarebbero certo bastate se non ci fosse stato l’aiuto di quel magnifico gruppo di insegnanti del Movimento torinese di Cooperazione Educativa (con F.Alfieri, M.T.Fontana, D.Ridolfi, S. Mosca, M.Dina, B.Chiesa  e molti altri) con il quale ho costruito dopo la laurea, poco alla volta, le mie competenze di insegnante nella scuola elementare prima e nella scuola media, poi, imparando ad affrontare e a superare l’ansia e i timori di un lavoro professionalmente e umanamente complesso. Imparando soprattutto quanto fosse importante il potersi confrontare e cooperare fra pari, il poter costruire insieme e poi sperimentare in classe, strumenti, schede e percorsi didattici, e l’imparare dalle buone esperienze altrui. In altre parole utilizzare le metodologie laboratoriali fra adulti, per costruire e sperimentare condizioni laboratoriali per l’apprendimento degli alunni.

A Torino De Bartolomeis incontra il mondo del lavoro, la fabbrica, gli operai e accetta anche una consulenza alla Olivetti.

A Firenze mi mancava il rapporto con la realtà del lavoro, la conoscenza da vicino delle tecnologie produttive, della condizione dei lavoratori, della cultura del lavoro. A Torino invece c’era la Fiat: mi è sempre interessata questa città e questa realtà che esprimeva molto della condizione sociale e culturale italiana di quegli anni. Ed è questa la ragione per cui finii di accettare un ruolo di consulente alla Olivetti di Ivrea.”

Ne è testimonianza concreta il volume “Cultura, lavoro e tempo libero” pubblicato nel ’65 dalle Edizioni di Comunità in cui De Bartolomeis compie un primo tentativo di definire i caratteri di una nuova cultura pedagogica, necessari ad affrontare i mutamenti, sociali, educativi e formativi, posti dal profilarsi di una civiltà in cui è compresente il lavoro e il cosiddetto tempo libero, il tempo del non-lavoro.

Era un ulteriore tratto del suo percorso di “viandante” pedagogico “smodato”, “capace di comprendere e far convivere la scienza, l’arte, la musica, la pittura, la psicologia clinica “non a livelli patologici”.

Intanto per fare la mia tesi di laurea mi toccò di lavorare in fabbrica. Il Professore mi invitò a compiere una vera e propria esperienza lavorativa nella fabbrica Olivetti di Ivrea, di cui lui era nel frattempo diventato consulente pedagogico. Per questo, con una buona dose di presunzione e faccia tosta, posso dire di aver “contribuito” a costruire l’ipotesi di una nascente branca della pedagogia, la pedagogia industriale. Nell’arco di tre mesi ho potuto frequentare e “mettere concretamente le mani” nelle lavorazioni dei principali settori di quella che allora era la più importante industria italiana per la produzione delle macchine per scrivere: dalle linee di montaggio dei vari segmenti di prodotto, alla costruzione degli stampi e degli attrezzi per poterli produrre, alla produzione degli stessi, fino ai sacri luoghi della loro progettazione e della loro sperimentazione. Inserendomi direttamente nelle “giostre” di montaggio (almeno per quanto riguarda le procedure più semplici) e lavorando insieme a operaie e operai, oppure accontentandomi di restare loro accanto come aiuto (poco esperto, ma volenteroso), potei raccogliere molte informazioni e qualche pensiero, intorno al tema che avevo scelto per sviluppare la mia tesi: quello relativo all’analisi dei linguaggi che caratterizzavano le interazioni fra i diversi attori del processo produttivo e degli stessi con i diversi tipi di  produzione. In un secondo momento anche con l’aiuto di alcuni docenti ed esperti di notevole qualità scientifica e culturale (a Ivrea conobbi personalità come Luciano Gallino sociologo del lavoro, Tilde Giani Gallino psicologa e psicoterapeuta, Francesco Novara psicologo del lavoro,) che insieme allo stesso De Bartolomeis svolgevano compiti di consulenza nei vari servizi funzionali alla organizzazione del lavoro della fabbrica (reclutamento, mobilità, formazione, ecc.),potei mettere in relazione quei  dati con le problematiche della formazione professionale e con la realtà socioculturale del territorio e della comunità locale.

Il mio incerto tentativo pre-accademico, la tesi di laurea, si poneva all’interno della elaborazione teorica di De Bartolomeis per il quale la pedagogia doveva acquisire una propria specifica autonomia nell’ambito delle scienze sociali. Già nel 1953 con la già citata opera “La pedagogia come scienza” il De Ba, sostenendo che le politiche dell’educazione non avevano a che fare solo con la scuola, ma con la società tutta, si propone di rompere gli steccati che confinano la pedagogia al solo ambito scolastico, auspicando un passaggio dal sistema educativo a quello formativo, ponendo cosi la base concettuale  per una seria innovazione  della questione riguardante la natura e il ruolo della formazione professionale.

Per quanto mi riguardava, che non mi si chiedesse più di tanto! De Bartolomeis ci provò, ma io preferii tornare alla pedagogia e alla didattica della scuola attiva e alla mia prima prova da insegnante elementare del MCE, abbandonando al suo destino la, almeno per me, mai veramente nata “pedagogia dell’industria” una ipotesi epistemologica che in verità, forse oggi in tempi di così intense e continue novità tecnologiche e digitali, dovrebbe e potrebbe essere ripresa in considerazione.

Erano anni politicamente e socialmente e culturalmente molto intensi e molto interessanti.

Alla lezione critica di Don Milani ad una scuola vecchia, incapace di affrontare i problemi posti dalle diseguaglianze sociali, economiche e culturali del Paese, e dalle  nuove sfide poste, a grandi e piccini, da uno sviluppo economico e sociale impetuoso e scoordinato, si univa la contestazione studentesca e operaia del ‘68/69 sulla necessità di una cultura nuova capace di contrastare il carattere selettivo e non inclusivo di quella che veniva definita la scuola “di classe” o la “scuola dei padroni”. La cultura e i modelli pedagogici della vecchia scuola gentiliana, a cominciare da quella che De Bartolomeis segnalava come la “triade malefica” (lezione – studio a casa – interrogazione) continuavano, ostinatamente, ad essere proposti come base dei programmi, degli orari scolastici e dei metodi di insegnamento, di ogni livello di scuola, dall’elementare fino all’Università.

In risposta ad una scuola di base, che attraverso voti e pagelle continuava nella sua opera selezionatrice, escludendo, allontanando, discriminando soprattutto i più deboli, molti insegnanti elementari e della media inferiore, a cominciare da quelli del MCE decisero per protesta di rinunciare a classificare gli alunni con i voti numerici e di dare sulle pagelle i voti uguali per tutti. Alle famiglie un po’ sconcertate, veniva proposto un colloquio per chiarire il significato di questa forma singolare di protesta proponendo agli alunni un tipo di valutazione non basata sui numeri, ma su indicazioni e consigli di carattere formativo. Con un documento “ciclostilato”, sottoscritto anche da pedagogisti, come lo stesso Francesco De Bartolomeis, e da alcuni presidi e docenti di scuola media, e inviato alle autorità scolastiche, i maestri del MCE e non solo, rivendicavano la necessità di una pedagogia non selettiva, capace di accogliere e includere tutti ragazzi, insieme  alla richiesta di una scuola più ricca di tempo, di spazi attrezzati, di libri e di sussidi didattici. Un documento che pur nella sua fragilità rivendicativa poneva però le basi per la proposta di una scuola elementare che abolendo il vecchio doposcuola frequentato solo da quelli del “patronato scolastico”, promuovesse una scuola a Tempo Pieno, per tutti gli allievi, e con due docenti per ogni classe. Un modello che si sviluppò a partire dalle zone più periferiche di Torino in cui erano presenti soprattutto ragazzi provenienti dalle fasce di popolazione meno culturalizzate, con genitori impossibilitati perché impegnati entrambi nelle attività di lavoro a occuparsi dei figli. Ma questa è una parte della storia che merita un capitolo a parte.

In quegli anni a cavallo del 1970 trovarono nuovamente terreno fertile nell’elaborazione critica della pedagogia di De Bartolomeis le questioni della innovazione dei contenuti programmatici e dei metodi di lavoro attraverso cui processarli nei percorsi di insegnamento / apprendimento. E’ del 1969 la pubblicazione de “La ricerca come antipedagogia”, il libro che segna in qualche modo il punto terminale del suo itinerarrio di elaborazione e proposta nel campo della educazione e della formazione.

Il titolo “La ricerca come antipedagogia” ne qualifica la caratura e gli intendimenti programmatici in maniera del tutto evidente, suscitando grande interesse nel mondo dell’educazione. Il libro ebbe anche il merito di confrontarsi con le idee e le speranze del movimento studentesco del ’68, che ne apprezzò soprattutto l’intento innovatore dei vecchi sistemi di educazione scolastica e universitaria, e la rivendicazione di una nuova cultura come condizione essenziale per giungere ad un vero rinnovamento sociale.

In quegli stessi anni il prof. De Bartolomeis, inimicandosi quasi tutto il Senato accademico, propone e realizza il suo “sistema dei laboratori” che sostituiscono totalmente il sistema delle lezioni e degli esami basati su una cultura puramente libresca, garantendo agli studenti di pedagogia una serie di occasioni di progettazione, di operatività diretta sui materiali, di creatività e, soprattutto, di ricerca e sperimentazione attraverso cui apprendere. Qualità degli apprendimenti che solo l’utilizzo di spazi laboratoriali attrezzati (e non certo delle vetuste aule a gradoni di Palazzo Campana) poteva garantire.

Il mio racconto per ora si ferma qui: ma molto resta da raccontare!

Il tanto che ho raccontato della sua vita e delle sue opere copre, in verità, solo un arco biografico temporalmente ristretto (dagli anni 50 agli anni 70) e riguarda solo alcuni aspetti del suo pensiero, dei suoi scritti e dei suoi interventi nel mondo della educazione e della scuola. Sono tra l’altro quegli aspetti del suo lavoro che più hanno avuto a che fare con i miei primi passi nel mondo della scuola come insegnante nella scuola elementare e media e successivamente come direttore didattico.

D’altra parte il suo contributo più importante alla Pedagogia l’aveva già dato, liberandola dall’univoco riferimento alla scuola e alla didattica, per indicarne invece una funzione indispensabile per affrontare la complessità del sistema formativo.

Negli anni 80 continua però a occuparsi di scuola affrontando le molteplici implicazioni del rapporto fra scuola e territorio, (“fare scuola fuori della scuola” è il titolo di una pubblicazione Stampatori del 1980), riprendendo e approfondendo soprattutto le questioni riguardanti la conduzione delle sempre più numerose scuole a Tempo Pieno che egli ritiene indispensabile come tempo necessario per apprendere.

Questa è quindi ben lontana dall’essere la sua biografia. Piuttosto è il racconto di quegli aspetti del suo pensiero e della sua azione culturale e professionale che più hanno avuto a che fare con un tratto significativo della mia vita.

Poi a partire dagli 80 anni me lo sono perso. O meglio è stato lui che ha svoltato con decisione verso nuovi territori da esplorare, preferendo dedicarsi prioritariamente alla ricerca e alla approfondimento delle questioni riguardanti la creatività, l’estetica e la produzione artistica, attraverso quella che giustamente Claudio Strinati definisce nell’introduzione dell’ultimo libro scritto e pubblicato nel 2022 a 103 anni dal nostro prof, intitolato “La realtà dell’Arte” (edito da Rosemberg &Sellier), una “vastissima meditazione sull’arte contemporanea”.