Macchine che sembrano intelligenti

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di Stefano Penge

Immaginate un bel seminario dal titolo accattivante: “Le macchine intelligenti e la scuola: conflitto o opportunità?”. Si presenta come obiettivo, imparziale; non è acritico ma lascia intravvedere la direzione in cui occorre procedere (dalla rilevazione dei rischi alla costruzione di possibilità operative). Ottimismo della ragione e curiosità non vi mancano, siete pronti a iscrivervi?

Un attimo. Già in questo titolo sono visibili alcuni limiti tipici dell’impostazione più diffusa.

Prima di tutto, macchine e scuola: due soggetti, due entità che inevitabilmente si confrontano. Come se ci fosse una natura artificiale che cresce, si sviluppa, produce i suoi frutti (le macchine appunto); e come se la scuola si trovasse in questo giardino incantato, novella Eva, e dovesse decidere come coglierli e mangiarli. Lieto fine: dopo qualche esitazione colpevole ogni invenzione viene assorbita dalla scuola, malgrado l’opposizione dei tecnofobi arretrati e miopi.

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E’ vero che non sono molte le tecnologie per l’educazione nate dentro la scuola, come la tavoletta di cera riscrivibile dei romani o la lavagna di ardesia (che sembra sia stata introdotta negli Stati Uniti nell’Ottocento nel quadro della formazione degli insegnanti: una tecnologia meta-educativa).
Dalla tipografia alle fotocopie, dalle diapositive alla LIM: nessuna di queste tecnologie nasce per l’educazione e nemmeno per la formazione, ma tutt’al più nel quadro della comunicazione aziendale, per la diffusione rapida, economica ed efficace di informazioni.

Però l’introduzione di queste tecnologie nella scuola non è un processo naturale, continuo, unico. Si possono descrivere almeno tre modi con cui dispositivi nati in azienda sono stati successivamente usati nella scuola italiana: quello per cui sono i docenti più creativi e divergenti ad andare a caccia di tecnologie da rubare e riadattare, quello per cui è il ministero a distribuire strumenti  a colpi di piani nazionali e finanziamenti su progetti e quello per cui sono le grandi aziende alle prese con un surplus di produzione che cercano di  esportare quei dispositivi nella scuola costruendo ad hoc un discorso di valori incentrato sull’innovazione, l’efficacia, le competenze del futuro.[i]

In poche parole: il primo passo da fare non è accettare una certa tecnologia come inevitabile per poi domandarsi come sfruttarla, ma prima occorre domandarsi da dove viene e dove si vuole che ci porti, per poi decidere se e come usarla per i fini propri dell’educazione.

In secondo luogo, penso che sia riduttivo parlare di macchine intelligenti contrapposte a tutto il resto. Le macchine non sono stupide o intelligenti, l’uno o l’altro; personalmente preferisco vederle come disposte in maniera continua lungo le due dimensioni dell’autonomia e della complessità. Si va da quelle semplici e pochissimo autonome – la ruota – a quelle complesse che prendono decisioni in base alle variazioni del contesto (il termostato); da quelle che possono prendere un solo tipo di decisione (agire sì/no), a quelle che hanno un set di decisioni possibili; fino a quelle che possono decidere di non agire affatto. In questo, analogico o digitale c’entra poco, né c’è bisogno di scomodare sempre HAL 9000. Vedere le ultime incarnazioni della ruota su questo sfondo aiuta a mettere a fuoco dei temi trasversali che a mio parere vale la pena approfondire e discutere con gli studenti: nel seguito ne indichiamo cinque.

  1. Le macchine non sono state inventate semplicemente per fare un lavoro: sono state inventate per fare un lavoro usando meno forza, anche se in più tempo (come la carrucola); oppure per usare una forza diversa da quella muscolare umana (come l’aratro o il motore elettrico); oppure per smontare un lavoro complesso in piccole azioni semplici che si possano ripetere e migliaia di volte, in maniera sempre uguale e senza errori (come la macchina tipografica).Negli ultimi secoli ci siamo concentrati solo sull’ultima abilità perché una volta scoperti il motore a scoppio e quello elettrico il problema dell’uso della forza muscolare non si pone più; almeno così pare, fino al momento in cui scopriamo che le macchine che costruiscono i modelli linguistici sottostanti a ChatGPT consumano la stessa elettricità di un’intera provincia italiana. Per lo più  si tratta di elettricità prodotta in loco tramite sterminati campi di pannelli fotovoltaici, quindi definita “verde”; ma gli effetti collaterali (dal consumo d’acqua nel processo di estrazione dei minerali rari come il gallio e il germanio, allo smaltimento e stoccaggio dei rifiuti) non sono banali.Primo tema trasversale su cui appuntare l’attenzione: l’energia.

     

  2. Le macchine tradizionali si possono pensare come abilità congelate in mattoncini: abilità applicabili ripetutamente, indipendentemente da quelle delle persone che le usano. Un tipografo non deve essere uno scrittore e nemmeno un calligrafo. Staccare l’abilità dalla persona produce dei vantaggi: per esempio, le macchine possono essere usate da persone deboli o inesperte, o possono lavorare continuamente per un tempo superiore alla giornata di lavoro, senza andare in ferie o in malattia. A chi giovino questi vantaggi è un’altra questione che è legata al possesso delle macchine. La pubblicità della macchine per l’automazione dei lavori di casa presenta la casalinga come l’unica beneficiaria dell’adozione della lavatrice o dell’aspirapolvere, come le macchine per ufficio vengono presentate come aiutanti delle segretarie. Ma è ovvio che questo dislocamento delle abilità dalla persona alla macchina ha degli effetti sulle relazioni tra persone, nella famiglia come nell’ufficio o in fabbrica.Secondo tema: i lavori che diventano obsoleti e le classi sociali che perdono potere d’acquisto. 
  3. Ha effetti – e questo dovrebbe farci riflettere per tempo – anche sulla formazione e sulla scuola: non ha senso insegnare alle persone delle abilità che sono di pertinenza delle macchine. Né ogni formazione professionale può essere convertita nella formazione per gestire le macchine. La macchina può finire per sostituire l’operaio, o anzi essere progettata apposta per finirla una buona volta con tutti i tipi di operai; nello stesso tempo, contribuisce alla chiusura dei corsi di formazione professionale, dalle lingue alla programmazione, e quindi permette di finirla una buona volta con tutti i tipi di docenti.Terzo tema: il destino della formazione, per come la conosciamo ora. 
  4. Appena si sale un po’ di complessità e autonomia si trovano macchine che non fanno affatto sempre la stessa cosa, sia nel senso che eseguono una serie di operazioni, sia nel senso che possono eseguire alcune operazioni al posto di altre. Un carillon è una macchina che è in grado di eseguire sequenze di azioni (musicali) diverse, infinite sequenze di azioni. Ma può eseguire solo sequenze musicali scritte per quella determinata macchina. La stessa cosa vale per il telaio Jacquard. Entrambe sono basate sull’idea di “programma”, cioè di serie di azioni scritte in maniera formalizzata, leggibili in maniera univoca ed eseguibili. Nel caso del telaio, quando si vuole avere risultato diverso, questo programma può essere sostituito. Invece di cambiare tutta la macchina (con costi e tempi enormi), si cambia solo la scheda. E’ la prima volta che l’hardware si separa fisicamente dal software e i due fratelli seguono una strada diversa. Come se lo stesso corpo potesse ospitare anime diverse, a turno.Anche le macchine digitali sono in grado di eseguire azioni diverse in base al programma che viene caricato. Solo che hanno in più la possibilità di “apprendere” abilità diverse e tenerle in memoria per sempre o finché non le si mette a dormire. Un telaio Jacquard non ha memoria; invece un computer sì: quando lo si sveglia, si ricorda tutto quello che ha appreso nel passato. Non è solo una questione di comodità: significa che un computer può eseguire un programma nel contesto di un programma precedente. In sostanza, in questo modo si reinventa il concetto di cultura – conservabile, trasmissibile, sovrapponibile – che permette di andare oltre la natura.Sembra una banalità, ma è la base per tutte le finzioni presenti e future: un computer esegue un programma in base al quale si comporta come un altro computer. In pratica il software si mangia l’hardware, cioè fa finta di essere un hardware diverso.

    Quarto tema: la virtualizzazione.

     

  5. L’enorme differenza tra un carillon e un computer è che il computer non è limitato ad un solo tipo di azioni, quindi di abilità. Ad un computer si può “insegnare ad imparare”, non solo scrivendo nuovi programmi, ma inventando nuovi linguaggi con i quali scrivere altri programmi.
    Tra le cose che può imparare a fare un computer è modificare o tradurre o scrivere nuovi programmi, che in fondo sono solo sequenze di simboli con un qualsiasi testo. Si tratta per la verità di cose non particolarmente nuove, che i computer fanno da sempre e, letteralmente, in continuazione. Il fatto che sappiano trattare testi in generale, compresi quelli delle lingue naturali, non dovrebbe stupirci più di tanto. Se sapessimo che i computer passano la vita ad analizzare, riassumere, tradurre quel tipo particolare di testo che è il codice sorgente di un programma forse saremmo meno colpiti dal fatto che lo sappiano fare con l’italiano.Quinto tema: la produzione automatica di testi.

Le macchine più avanzate hanno la meta-abilità di sapere quale abilità applicare e quando farlo; le potremmo chiamare competenze. Hanno dei magazzini di risorse, e possono andarle a scegliere per usare quella più adatta. Non è escluso che la definizione standard di “competenza” come capacità di selezionare le risorse più adatte ad un problema derivi proprio da questo modo di funzionare delle macchine complesse; nel senso che quella definizione è stata scritta in un’ottica che paragona il cervello ad un computer e il pensiero al software.

Certi software, da tanto tempo, sono capaci di esercitare competenze che a noi umani sembrano “alte”, cioè vicine alle nostre: sanno giocare a scacchi, sanno risolvere problemi, in particolare quelli di ricerca all’interno di archivi sterminati. Non brillano particolarmente nel campo della produzione di oggetti nuovi ma comunque lo fanno. Se i programmatori sono in grado di definire formalmente come si risolve un problema, o come si crea un minuetto, i software sanno farlo –  con piccole variazioni dovute al caso, anche quello inserito dal programmatore con parsimonia.

Su questa relazione programmatore-programma si basa il senso didattico di insegnare a programmare ai bambini (e in generale a persone che nella vita non faranno i programmatori, piccoli e grandi). Il famigerato e bistrattato coding è un modo di costruire dei modelli di situazione definendo le condizioni e le regole. E’ un modo di capire le situazioni, di comprendere le relazioni tra cause ed effetti, potendo sperimentare direttamente e immediatamente, correggendo le regole fino ad arrivare al risultato atteso. Non è tanto un gioco gradevole, un modo per esercitare la creatività e passare il tempo disegnando girandole e muovendo gattini, ma un laboratorio per la mente dove si mettono alla prova in maniera collettiva (e quindi discutibile) diverse interpretazioni del mondo. E’ uno dei casi a mio parere più significativi di ripensamento di una tecnologia nata altrove (la programmazione) e del suo adattamento al contesto e agli scopi della didattica. Non si fa coding per preparare futuri programmatori domani, ma per scoprire come funziona il mondo oggi.

Questa modalità (che chiamerei “tradizionale”, a segnalare che novità e tradizione si susseguono più velocemente di quello che ci piacerebbe) viene messa in discussione dai servizi di intelligenza generativa. Il bello di questi servizi è che la competenza che esibiscono non è stata costruita a tavolino, ma è stata imparata sul campo; solo che è impossibile dire esattamente come.

[i]Una versione più estesa di questa descrizione è nel volume 4 di “Il mondo della rete spiegato ai ragazzi”