Tutta colpa del patriarcato? Forse manca la “cultura del Noi”

   Invia l'articolo in formato PDF   
image_pdfimage_print

di Raimondo Giunta

Si è sperato per qualche giorno che non succedesse l’irreparabile, ma non è stato così. Giulia Cecchettin è stata massacrata dal suo ex ragazzo. Dopo il ritrovamento del suo corpo martoriato un’ondata di indignazione ha scosso la società, colpita dalla crudeltà con cui è stata stroncata la sua vita ad opera di un giovane, che sembrava molto lontano dalla capacità di compiere questo efferato delitto.

Con forza si è riaperto il dibattito politico e culturale sulle responsabilità delle istituzioni, sui rimedi e sugli strumenti ritenuti adatti per contrastare ogni forma di violenza contro le donne e soprattutto i femminicidi, la cui frequenza in tempi di profonde trasformazioni dei costumi è uno scandalo ingiustificabile.
Il problema interpella drammaticamente la coscienza di ognuno di noi ed esige riflessioni e risoluzioni all’altezza della sua gravità.

I ragionamenti che farò rispecchiano i miei attuali e provvisori convincimenti e non hanno alcuna pretesa, se non quella di fare un po’ di chiarezza per me stesso; sono relativi agli strumenti e alle conoscenze in mio possesso.

Il ricorso sempre più frequente all’uccisione delle donne nei conflitti e nei rapporti interpersonali è un fenomeno che va analizzato in tutti i suoi aspetti, senza alcun preconcetto.  In più di un intervento viene richiamata per i crimini contro le donne la violenza che deriva dai cascami della cultura “patriarcale”, ancora operante a parere di tanti nel comportamento e nelle scelte di molti uomini.

Ragionamento questo che non mi risulta del tutto convincente.  Avrebbe piena validità, se ancora l’istituzione familiare avesse quella struttura e quella stabilità che aveva creato la tradizione del capofamiglia, padrone della sorte dei suoi componenti, sempre pronto ad esigere la sottomissione delle donne, della moglie e delle figlie soprattutto.

Questo tipo di famiglia sopravvive in zone sempre più limitate della società, ma da tempo è stato sostituito da un altro in cui si praticano non facilmente, ma si praticano la parità tra uomo e donna e rapporti tra genitori e figli in cui è difficile trovare l’autoritarismo dei tempi passati.

Parte rilevante degli autori e delle vittime di molti femminicidi hanno un’età che li porta fuori dalla stagione del patriarcato imperante e li colloca nei decenni in cui hanno frequentato la scuola, fino alle superiori, in classi miste, in cui ragazzi e ragazze per tanti giorni e per alcuni anni hanno preso l’abitudine di stare insieme, di conoscersi e di praticarsi.

Certo, se si pensa con quanto entusiasmo donne e uomini hanno affrontato a partire dagli anni ’70 le lotte che hanno trasformato la vita di tutti, la lunga catena dei femminicidi ci ammonisce sul fatto che certe conquiste non sono diventate patrimonio di tutti. Qualcuno è rimasto ai margini assente e anche ostile. Dopo quella stagione, che con qualche ragione si può definire la stagione del Noi, la stagione dei beni comuni, ne è subentrata un’altra in cui si è fatto prevalere il privato sul pubblico, l’egoismo sull’altruismo, fino al punto di storpiarne le ragioni e la serietà affibbiandogli il nome insolente e offensivo di buonismo. Una stagione che ha esaltato la competizione in tutte le varianti, comprese quelle che ricorrono all’aggressività e alla scorrettezza; che ha premiato il ricorso alla menzogna, il dileggio e l’offesa a danno del rispetto; una stagione in cui si è inneggiato sempre ai vincitori e si sono derisi i diversi, gli sconfitti della vita, in cui si sono adulati i ricchi e si sono mortificati e disprezzati i poveri; una stagione in cui la prevaricazione ha cancellato ogni forma di dialogo.

Potevano i frutti velenosi di questa lunga e insopportabile stagione lasciare indenni le relazioni tra le persone e le relazioni tra uomini e donne? Credo proprio di no.

Al peggioramento della qualità delle relazioni umane non sono estranei i messaggi continui e invasivi delle tv, dei film e della pubblicità che riducono la donna al solo suo corpo, facendone preda destinata alle voglie e ai capricci degli uomini; possesso da cercare e mantenere per i propri piaceri e per certe forme aberranti di autostima.

A parte va considerato un altro aspetto del problema, che è quello della difficoltà, dell’imbarazzo e dell’invidia maschili nell’accettazione del crescente successo delle donne nelle occupazioni di rilievo pubblico nella società.

E’ facile inneggiare all’autonomia intellettuale e morale delle donne, ma a non pochi uomini riesce difficile convincersi che le donne possano rivelarsi migliori per qualità e per capacità. La libertà della donna, la sua autonomia, il rispetto delle sue esigenze e delle sue legittime ambizioni vanno collocati al vertice della trasformazione e del miglioramento dei costumi, ma hanno bisogno della pratica quotidiana del dialogo e del rispetto della dignità di ogni persona.

Sia che ci riferisca a giovani coppie, sia che ci si riferisca a coppie mature la violenza e gli assassini delle donne ci riportano ad una cultura sempre più estesa e radicata in cui la vita soprattutto quella degli altri non conta nulla, in cui la ragione appartiene a chi è più forte e chi è più forte crede di avere nelle proprie disponibilità chi è più debole, perché è donna, perché è povero, perché è straniero, perché è meridionale, perché è disabile, perché è disoccupato, perché non ha una casa e nemmeno una macchina.

L’ondata dei femminicidi non proviene solo dai residui della cultura patriarcale, ma anche dall’insieme dei valori praticati che ha reso difficile il rispetto di ogni persona e della donna in molti episodi ed occasioni della vita quotidiana. Il rispetto delle donne non può essere un’eccezione al rispetto che va portato ad ogni persona in ogni ambito dei suoi diritti. E non saranno solo i provvedimenti e le misure più stringenti in ambito penale e processuale, come quelli approvati, a risolverne le sorti, se resta tutto intero l’impianto delle decisioni e della cultura che produce scarti, disuguaglianze e odio sociale. Se rimane in piedi l’apparato dell’informazione e dei media che ha mercificato la donna ed esalta gli istinti predatori degli uomini.

Solo una ripresa in grande stile della cultura del Noi col tempo potrà contenere e sconfiggere il femminicidio; la scuola non ha bisogno di alcun progetto di cultura del rispetto. Per farla funzionare si sa che se non c’è rispetto reciproco non si riesce a fare nemmeno un’ora di educazione fisica e che ci sono tanti di quegli argomenti da cui estrarre ricchi insegnamenti per questo scopo. Sono le famiglie che devono riprendersi la responsabilità educativa, che in questo genere di problemi non ha mai funzionato tanto bene. Sin da piccoli si insegni e si pratichi il rispetto delle bambine e si contrastino le soperchierie dei ragazzi; non si giustifichino e non si coprano le forme di violenze che vengono praticate in casa e fuori e il marito rispetti la moglie, e il fratello la sorella e si considerino fratelli e sorelle tutte le persone con cui si entra in relazione.

E questo il campo in cui le parole, da chiunque pronunciate, non contano niente. Contano solo buoni e costanti esempi.

“Un’educazione davvero valida per i giovani come per gli adulti non consiste nel prodigarsi in consigli, ma nel mostrare che viviamo mettendo in atto i moniti che siamo pronti a rivolgere ad altri” (Platone-Leggi(729 b)