Occhio ai bruchi da farfalla

di Monica Barisone

L’estate è spesso mite consigliera di buoni propositi, in termini di cura della salute, di riduzione dei ritmi stressanti, di maggiore manifestazione di affetti e opinioni, o migliore gestione di emozioni e atteggiamenti. Si potrebbero definire sogni della durata di lucciole e farfalle. Eppure, potrebbe valer la pena, per una volta, mantenere vivi i ricordi estivi per affrontare questo autunno particolarmente buio.

Se si provasse, cioè, a riprendere il cammino lavorativo ricordando i successi ottenuti nei mesi precedenti, forse riusciremmo a guardare bambini e ragazzi come bruchi da farfalla e i problemi di ogni giorno come forieri di nuove soluzioni.

Se ci provo e torno indietro col pensiero, ricordo di aver concluso il periodo lavorativo con la soddisfazione delle promozioni di alcuni ragazzi disincagliati con enorme fatica, ricordo la brezza giugnola protrattasi quasi per magia fino a luglio, le piccole ma grandi conquiste dei pazienti sopravvissuti nonostante la calura, la speranza di dedicare un po’ di tempo alla scrittura, ricordo la scoperta di un germoglio di sequoia americana, ormai inaspettato, dopo mesi e mesi dalla semina.

Il tempo regala sorprese e sorrisi da non dimenticare. Certo ci vuol pazienza, aveva sottolineato il giardiniere, quando gli avevo chiesto quale terra usare per quei preziosi semi, ricevuti in dono e arrivati a me da così lontano. Pazienza, tenacia, speranza e a volte anche una leggera allerta, per scoprire i germogli in momenti e spazi insospettabili, sotto piccoli cespugli di trifogli quasi in fiore! Ci vuole tempo come la gravidanza per una nascita o il grano sotto la neve (A. Marcoli). L’esercizio della pazienza è da riscoprire, è una delle cose che vale veramente la pena di imparare.

Allora adesso, con i ricordi belli in mente, che ci guidano a vedere, con calma, potremmo porci ad osservare che cosa sta portando questa nuova stagione. Così, guardando, ho trovato in questo buio autunno, alcuni ragazzi quasi magicamente riattivatisi, così come qualche nuova tristezza realistica, ma anche il regalo di una ex paziente che è venuta a trovarmi per raccontarmi i suoi progressi, salutarmi e parlarmi del sogno che finalmente realizzerà dopo una vita: vivere in natura e tra gli animali. E voi invece cosa avete trovato?

Poi, a guardar bene, però, ho incontrato anche tanta fatica e paura, purtroppo ancora. Una paura virale di non farcela, qui! Qui, sulla terra. È una paura che fa sbandare i pensieri e il cammino, ottunde la mente, restringe la visuale. Anche la mia. Fortunatamente però ho ancora del sole nella pelle, dei bei ricordi nelle sinapsi e così inaspettatamente in me si è scatenato un putiferio, una rivolta quasi rabbiosa. La chiamerei spinta vitale di rimbalzo, ribellione o resistenza!

In altre parole, ho sentito l’urgenza di dire basta, mi sono stufata! Abbiamo vissuto per mesi e mesi, forse non del tutto consapevolmente, aspettando che precipitasse la situazione, che accadesse l’irreparabile. Forse accadrà tra non moltissimo ma nessuno lo sa con certezza! Dunque, ci toccherà vivere ancora un poco, per ora! Allora che vita vera sia!

Ho visto una di queste sere un biopic su Steven Hawkins, cosmologo, astrofisico, divulgatore scientifico, noto per i suoi studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo. In giovane età, nel 1963, gli prospettarono, a causa della MND[1], due anni di vita. Ne visse molti di più.

Dopo un periodo di depressione, di elaborazione della notizia ricevuta, riuscì a reagire e continuare i suoi studi, ebbe tre figli e due compagne di vita, oltre a incredibili conquiste professionali, premi ed onoreficenze. Disse, comunicando con un sintetizzatore vocale, ‘Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi…Per quanto difficile possa apparire la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire’. Morì poi, a 76 anni, nel 2018.

Ecco, pensavo a questo, e cioè che, non sapendo bene come andrà, intanto, oltre a tentare di fare del nostro meglio per invertire la rotta verso l’estinzione, val la pena di vivere intensamente ogni giorno che arriva. Mia nonna a 94 anni, qualche mese prima di ammalarsi e morire, mi diceva, ‘ora ogni giorno è un regalo’. Allora che questi giorni, settimane, mesi, anni siano regali!

Basta far soffrire l’angoscia tremenda del domani ai nostri giovani! Che possano vivere forte almeno per un po’. Non so ancora come, ma occorre liberarli da questo incubo, svegliarli e permetter loro di assaporare il gusto del risveglio e inventare delle soluzioni, almeno cercarle. A noi il compito di lasciargliele realizzare, senza intralciarli. Si tratta intanto di fare un passo indietro e chiedere se e come possiamo dare una mano.

Diamo spazio a ragazzi come Daniele che si è risvegliato dall’ipnosi dei media quando ha realizzato che avrebbe potuto provare a riprendere la scuola e studiare per diventare più intelligente e fare qualcosa di buono per sé, gli altri e il mondo, fare qualcosa di buono nel suo piccolo!! Ora cerca con fatica di tenerlo a mente, perché stare nelle interazioni sociali per lui è ancora estremamente faticoso. Giorgio ha visto l’entusiasmo di suo padre, che frequenta solo d’estate, nel volergli insegnare a guidare e si è commosso! Da tempo non provava emozioni particolari e, ad ogni domanda su cosa sentisse, mi diceva ‘É indifferente’. Al ritorno dalle vacanze, si è portato a casa l’idea di prendere prima possibile la patente e dedicarsi alla scuola, perché sa che quest’anno sarà più impegnativo; ha ancora un sacco d’ansia ma la gestisce meglio e soprattutto cerca di non pensare al futuro.

Sono piccoli enormi segnali di ripresa dopo un anno o più trascorsi a ‘giocare a vegeto[2]‘, senza trovare un appiglio per vivere una vita normale!

Finché c’è vita c’è speranza, mi dico, e nel tentativo di resistere o nuotare controcorrente, una bella suggestione è arrivata dal libro Riposare è resistere di Tricia Hersey. Nel suo Manifesto, perché così lo definisce, ci mostra come, nel mondo attuale, la cultura della fatica (grind culture) sia oggi la linea guida per vivere bene, prosperare o addirittura solo sopravvivere. Ne consegue che, perennemente, viviamo in uno stato di coscienza alterato, cioè “siamo in deficit di sonno perché il sistema ci considera delle macchine, ma i nostri corpi non sono macchine…riposare è un atto radicale, perché si oppone alla bugia secondo cu non stiamo facendo abbastanza…non ci stiamo riposando per fare di più e rimetterci, più forti e produttivi di prima, a disposizione del sistema” (T. Hersey, 2024).

Ciò che sembra difficile capire oggi è il valore del riposo, come diritto e non privilegio, necessità e non lusso, aspetto imprescindibile nella manutenzione dell’uomo se si vuole evitare o ridurre burn out, infortuni, dipendenze, suicidi.

Il riposo è un diritto fondamentale di ogni lavoratore e serve a garantire il necessario recupero delle energie psicofisiche dopo lo svolgimento delle attività lavorative. In assenza di recupero il rischio di infortuni, burn out ed improduttività aumentano. È anche per questo che la normativa vigente prevede dei limiti, che i datori di lavoro dovrebbero rispettare, proprio per garantire ai dipendenti il dovuto riposo dal lavoro. Il fenomeno dell’incremento delle cessazioni del rapporto di lavoro per dimissioni sta mettendo in discussione il rapporto tra lavoro e tempo di vita, a favore del secondo e della sua qualità. “E da coloro che non possono rinunciare a un’occupazione non gradita” per questioni economiche, “è nato il fenomeno del quiet quitting: lavoratori insoddisfatti che collaborano solo passivamente, al minimo indispensabile, con buona pace delle teorie organizzative che puntano invece alla collaborazione per la qualità totale” (S.Muffo, 2023[3]).

Quindi, a fronte di una spinta esponenziale all’iperattività, che poi però non viene tollerata come disturbo negli studenti, la proposta rivoluzionaria sembra essere quella di rivendicare il meritato riposo, in un’epoca, tra l’altro, in cui l’insonnia si sta diffondendo a macchia d’olio. I giovani, che da tempo hanno scelto la notte come spazio e tempo in cui vivere liberi dagli adulti, ormai dormono pochissimo, giovano, chattano, studiano, stanno in chiamata, ballano, consumano sostanze e costruiscono dipendenze. Ma occhio ai bruchi da farfalla perché alcuni cominciano a desiderare il cambiamento e chiedono aiuto, come sanno o riescono, proprio a quegli adulti che hanno accettato, forse sin troppo rassegnati, di star fuori dai loro tempi e spazi.

NOTE
[1] Malattia degenerativa del motoneurone, probabilmente una forma rara di sclerosi laterale amiotrofica.
[2] Tratto da una battuta di Julia Roberts in Pretty Woman del 1990, “Oggi gioco a Vegeto: fermo come broccoli”.
[3] Tempo di lavoro, tempo di vita. Qualche riflessione dalla storia, in Lavoro Diritti Europa.




Contenti così, perché sbagliando si impara

di Monica Barisone

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Qualcosa ci turba, ogni mattina, al risveglio.
Si tratta forse di unansietta[1] infingarda, di una piccola peste iperattiva che si diverte a prefigurare solo scenari negativi che affollano tutti insieme la nostra mente e affannano il nostro cuore?
Da dove sia arrivata e come si sia accumulata in noi è, più o meno, chiaro a tutti: scenari apocalittici da un lato e ricerca della perfezione prestazionale, assoluta, dall’altro; fattori, entrambi, estremamente ansiogeni.

Possiamo partire dal fatto che da diversi anni, ormai, si susseguano eventi rilevanti dal punto di vista delle ricadute negative sulla nostra immagine reale e virtuale di finanza, occupazione, salute, clima, vita civile, vita sociale e scolastica; e che da questa rappresentazione della vita derivi quasi linearmente una percezione di precarietà costante e catastrofe imminente. Vissuti di tal fatta, protratti a lungo nel tempo, non possono che attivare reazioni e meccanismi difensivi di egual portata.

Ricordo d’aver seguito un corso di aggiornamento[2] in cui si indicavano, tra gli effetti collaterali delle pandemie e delle catastrofi di origine naturale o umana, gli atteggiamenti e i comportamenti complottisti. Recenti ricerche (Bowes et all., 2023) evidenziano infatti, come, l’adesione alle teorie complottiste, sembri motivata soprattutto dalla necessità di esercitare controllo e dare significato agli eventi confusi o poco compresi. Queste teorie fornirebbero, in altre parole, una spiegazione alternativa capace di offrire sicurezza e senso di controllo rispetto all’ambiente.

Ne abbiamo avuto ampio riscontro a livello individuale, sociale, civile. Il rebound è arrivato sino alla diade della coppia sentimentale o amicale. Tant’è che, tutto ciò che non ci è chiaro del comportamento dell’altro, oppure sembra contraddittorio, si traduce, abbastanza frequentemente, in micro-complottismo di coppia. Nella lettura del comportamento tra coniugi e compagni, ritroviamo situazioni tali per cui, a fronte di un buon livello affettivo, ciò che viene frainteso si traduce ad esempio in assunti del tipo ‘non vuole più stare con me ma mi iper controlla’, oppure ‘mi agita con le sue pseudo patologie per tenermi in scacco’.
Tra amici, soprattutto ‘migliori amici’, è in incremento l’aspettativa dell’esclusività di rapporto, unicità peraltro, come sempre, difficile da garantire. Gli errori di comunicazione, altrettanto fisiologici e frequenti, si traducono allora in tradimenti insanabili e fratture di difficile ricucitura.

A questa grande sfiducia nell’altro, si affianca l’ansia di non venirne a capo, un senso diffuso di impotenza relazionale e prestazionale.
Il dover stare in vetrina per piacere agli altri e dimostrare d’essere al top, d’essere perfetti nel fisico, nella mente e nelle relazioni, accerchiati dagli infiniti specchi dei social, rischia in realtà di paralizzare ogni nostra azione.

Daniele scrive nei suoi appunti: ‘Passo le giornate a guardare video su come vivere, a leggere libri o a guardare serie, ma non mi sembra di imparare o di migliorare’ e così viene a mancare ogni motivazione a provare a vivere. La necessità, anche indotta, di essere apprezzati sfocia in un grande senso di inadeguatezza e debolezza che spinge ancora più a identificare come valore ‘un’immagine ideale eccezionale, possibilmente perfetta. Ed ecco che questa immagine esterna così forte, potente, invulnerabile, invincibile, viene interiorizzata e diventa la guida e il motore che ci conduce, rischiando di travolgere noi e chi ci sta vicino. Perché è un’immagine falsa, priva di vita, morta in quanto nega … l’importanza dell’errore, che è l’esperienza fondamentale della vita nell’imparare … tutto quello che facciamo è stato acquisito per tentativi ed errori’ (Marcoli, 1999).

Suggestive, a questo punto, le riflessioni che sono derivate dalle dichiarazioni e reazioni di alcune atlete e atleti durante le Olimpiadi di quest’estate, contente e contenti anche nel perdere, nell’arrivare ad un soffio, perché neppure lo si sperava! ‘Ma guarda che meraviglia, siamo di fronte a una generazione nuova, finalmente non competitiva: non avvelenata dal desiderio di primeggiare, di nuova sintonica con lo spirito olimpico, importante partecipare’ (C. De Gregorio, Repubblica 04/08/24).
Daniele ci arriva con un altro percorso, altrettanto suggestivo: ‘Pensavo che, se cominciassi ad approvare me stesso, non avrei più un desiderio estremo dell’approvazione altrui’.

Ciò che bisogna rifuggire allora sembra essere la sensazione costante di insoddisfazione, romantica aspettativa che si possa ottenere quel qualcosa di più, quel quid che forse potrebbe finalmente sanare le nostre mancanze. E anche chi, per sua natura, in realtà, si sentirebbe anche già abbastanza contento di quello che ha e vorrebbe provare a goderselo, si ritrova accerchiato da ansie, paranoie e insoddisfazioni altrui. Bisogna stare molto attenti però perché…

A forza di respirarne
l’insoddisfazione altrui
entra dentro
contamina la tua gioia
di vivere
nonostante tutto[3]

Come sfuggire o, meglio, gestire tutte queste emozioni, sensazioni o sentimenti negativi?
Le ricerche (S. Canali 2021) ci dicono che non è sbagliato provarle, ma è preferibile controllarle, cioè, elaborarle e reagire in modo sano e utile. Suggeriscono diverse strategie: fermarsi e riprendere il controllo di sé, prendere il controllo del respiro, provare a rilassarsi o visualizzare un luogo sicuro. Quest’ultimo esercizio risulta particolarmente efficace e di facile applicazione, anche nelle sessioni dedicate ai bambini. Prediligono alcuni angoli della propria casa, tra cui lo spazio sotto il tavolo, e molti raccontano con entusiasmo della casa dei nonni, come zona franca, rifugio sereno.

Visualizzare un posto sicuro mi riporta ad un’espressione che ha accompagnato una buona parte del lavoro di ricerca di molti anni fa.
Il prof. Oddone[4], medico e psicologo del lavoro, con cui mi laureai e collaborai per una decina di anni, utilizzava il termine indovarsi[5], per riferirsi, nel suo lavoro, alla necessità di mappare le nocività per la salute del lavoratore. Il prof. Soro[6], con cui collaborai negli anni successivi invece aveva scoperto, studiando i Direttori delle grandi Orchestre Sinfoniche, il valore ristoratore, motivante e ricostruttivo in termini di benessere psicofisico, del rifugiarsi, com’era solito fare ad esempio il Direttore Gianandrea Noseda[7], in luoghi fortemente connotati in termini di familiarità e emozionalità. A partire dall’uso dantesco e poi medico, se ne è costruito, cioè, uno più psicologico, quasi la risposta ad una necessità salutare.

Vi sarà capitato di tornare in luoghi natii o comunque frequentati durante l’infanzia, o luoghi in cui vi sentiate bene, sicuri, come a casa. Ecco mi riferisco proprio a quelle sensazioni di benessere e agio, sicurezza e padronanza!
Alcuni luoghi di vita non sono abbastanza confortanti e sicuri per molteplici motivi; per le scarse competenze genitoriali o le difficoltà sociali, o in alcuni casi eccessive attese, standard troppo elevati come ricercare la bellezza assoluta o controllare l’incontrollabile, dimenticando invece che sbagliando si impara!

[1] Inside Out Due, 2024
[2] Emergenza sanitaria da nuovo coronavirus SARS CoV-2: preparazione e contrasto, 2020.
[3] Contaminata, M. Barisone, 2024
[4] Nato nel 1923, medico, precursore della medicina del lavoro. Ancora studente in medicina quando era entrato nelle file della Resistenza ligure col nome di battaglia “Kim”. A lui Italo Calvino dedica il suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Dopo la Liberazione si laureò brillantemente. Esercitò la professione con grande impegno e, dopo essersi affermato presso l’Ospedale Molinette di Torino, insegnò psicologia del lavoro all’università.
Negli anni ’60 con un gruppo di operai di Mirafiori creò la “Dispensa sull’Ambiente di Lavoro”,  tradotta poi in quasi tutte le lingue ed è ancora molto attuale.
[5] Collocarsi, porsi in un luogo: Veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova (Dante), in qual modo, cioè, vi trovi il suo luogo. Il verbo, noto soprattutto per questi versi di Dante (Par. XXXIII, 137-138), è oggi di uso molto raro, tranne che nel linguaggio medico, per indicare collocazione di solito non precisata: tumefazione che può indovarsi in varie parti della superficie del corpo
[6] È stato docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università di Torino, Presidente del Biennio di laurea magistrale in Competenze relazionali e del Master in Competenze relazionali per insegnanti di alunni con bisogni educativi speciali.
[7] Gianandrea Noseda (Sesto San Giovanni, 1964) è un direttore d’orchestra italiano. Ha studiato pianoforte, composizione e direzione d’orchestra al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano perfezionandosi poi con Donato Renzetti, Chung Myung-whun e Valery Gergiev.




Spiragli di luce. Qualcosa sulle paure dei ragazzi di oggi

di Monica Barisone 

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Non è facile far parlare i ragazzi delle loro paure, non lo fanno spontaneamente, ma a ben guardarli, a volte si coglie come una sorta di pallore, di smarrimento e allora, la fantasia che, sottotraccia, ci sia un lieve senso di paura diffusa, si coagula nella mia mente. Se provo a chiedere, formulando una domanda diretta sull’attuale periodo storico, allora decidono di aprire il vaso di Pandora, ed ecco che l’indicibile comincia a scorrere fuori come una lava incandescente e, attorno, rischia di rimanere solo la cenere.

C’è chi mi racconta di sentirsi messo in difficoltà dal boom mediatico rispetto ad alcuni eventi di cronaca, di vergognarsi di essere uomo. Chi denuncia quanto il contesto mondiale sia ansiogeno, disarmante, e muova soprattutto sentimenti di impotenza. Chi sostiene che sia meglio prendere un cane per difendersi che pensare di generare un figlio in un mondo senza speranza. C’è chi non si fa domande per la paura di rintracciare le risposte. I temi più ricorrenti sono il cambiamento climatico, i conflitti, la violenza agita e parlata.

Ho visto recentemente un video su un social che cerca di raccontare a fumetti quello che ci sta succedendo, violenza, finzione e correzione dell’immagine estetica di sé e del potenziale partner, diffusione di immagini private e lesione della privacy che possono portare al suicidio. Tutti assistono col cellulare in mano, riprendono o fotografano e cadono in un tombino che non vedono. Solo un ragazzino osserva ad occhio nudo e piange.

L’esperienza del lock down, da pandemia Covid, ha depauperato le competenze sociali soprattutto dei giovani adolescenti ed ora i ragazzi annaspano. Sarebbe stata utile un’abbuffata di eventi sociali per pareggiare i conti ma l’ansia di riallinearci su programmi, attività curriculari e no, doveri d’ogni sorta, ha soffocato ogni buona intenzione.

Qualche tempo fa l’ennesimo suicidio di una giovane ha sfiorato le nostre coscienze. Una ragazza, che la conosceva, mi ha raccontato con semplicità che lei, nella sua testa, voleva solo far cambiare le cose, che parlare con lei significava trovarsi a pensare a cose che non conosceva, come il diritto di voto, e sentirla dire che c’era tanta, troppa cattiveria sui social.

Anche tra ragazzi, allora, si comincia a parlarne e qualcuno mi dice che ‘i social non fanno bene, non sono buoni.’ Usano un linguaggio impreciso, generico ma primario, quello che si usa per fare chiarezza dentro di sé, per distinguere tra ‘mi fa stare bene’ e ‘mi fa stare male’, tra giusto e sbagliato, buono e cattivo, sano e malato. 0ra forse cominciano a sollevare di nuovo lo sguardo…dal cellulare alla vita circostante ma ciò che vedono li smarrisce ancora di più.

A chiedere ancora scopri che le emozioni che non sanno gestire sono soprattutto la tristezza e la rabbia; quindi, meglio non riflettere troppo e farsi troppe domande perché poi non saprebbero come contenere il furore, il dolore, la mancanza di senso di questo periodo di vita. Hanno la vaga idea che per conquistare la calma ci vorrebbe del tempo, luoghi sicuri e magari persone fidate con cui confidarsi. Tutti fattori piuttosto dispersi in questo momento. Il tempo è ormai prosciugato da post, like, foto, podcast, correzioni di immagini e voyeurismo. L’unico luogo sicuro sembra essere rimasto, nell’immaginario collettivo, il proprio letto. Gli adulti, poi, sembrano quasi tutti in balia di una resa incondizionata al peggio.

Se chiedo ancora, i ragazzi mi dicono che nelle scuole non si pensa a progetti sul disagio mentale, sulla perdita di motivazione allo studio ed al lavoro, né sulle neurodivergenze, ma piuttosto sulla raccolta differenziata, o tuttalpiù sul bullismo.

In questo panorama di frantumazione delle sicurezze e dunque dell’io, trovare leve di vita, spunti di speranza, ancore di salvezza o appigli per non scivolare nel baratro, diventa davvero complesso.
Gli sprazzi di luce che ho trovato sono davvero anomalie, di nicchia, forse persino un po’ naif o fantasy.
C’è la sfida del superamento della nostra visione antropocentrica del mondo per imparare dalle piante nuove linee guida per abitare il pianeta nel rispetto di tutti gli esseri viventi. In libri come La Nazione delle Piante o La tribù degli Alberi, Stefano Mancuso[1] affronta il tema della superiorità delle piante rispetto all’uomo in modo innovativo e provocatorio. Porta alle nostre orecchie la voce del bosco ‘Perché anche le piante hanno una personalità, delle passioni, ciascuna ha un proprio carattere. Cercano sottoterra per guardare il cielo. Si studiano, si somigliano, si aiutano’. Potrebbero aiutarci, se solo le osservassimo con un pochino di attenzione.

C’è ‘Un mondo a parte’ di Riccardo Milani, un bel film che piace nella sua semplicità e purezza, a sostegno di una buona causa. Persone comuni (quasi tutti) come attori, ritagli di natura (animale, vegetale e umana) da incanto, un buon stare nella necessità che porta lo spettatore a restare in piedi a leggere i titoli di coda, a decidere di tornare a breve a rivedere il film, a restare in quel ‘buon stare’ così opposto al ‘male di vivere’ che opprime un po’ tutti.
C’è la forza di una ragazza, di soli quindici anni, che ha appena ricevuto una diagnosi di sindrome bipolare, dopo due anni di incomprensioni e cure sbagliate, che mi dice, dopo aver versato poche calde lacrime, ‘Cerco di prenderla con ironia e penso che ora con le cure giuste starò meglio’.

[1] Neurobiologo e studioso di neurobiologia vegetale




L’amore per il sapere e la sua trasmissione esistono ancora

di Monica Barisone

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Qualche tempo fa ho avuto una bella chiacchierata con Reginaldo Palermo sul fatto che si possa considerare ancora l’insegnamento come il mestiere più bello del mondo, ma anche che le sue evoluzioni storiche e contestuali lo hanno reso estremamente complesso e stressante, talvolta persino estenuante per il carico di responsabilità.
Il tempo che bambini e ragazzi trascorrono negli edifici scolastici e a contatto con personale docente e non docente raggiunge ormai estensioni tali da rendere la vita scolastica più che un’integrazione del contesto esperienziale familiare, quasi un’alternativa. Questo implica enormi potenzialità di influenzamento, orientamento, accompagnamento di piccoli, ragazzi e giovani al domani, verso il futuro che, almeno per qualche tempo, sarà anche il nostro.
La consapevolezza di questa responsabilità può disorientare e disarmare. Eppure, le scuole hanno ripreso a fervere di iniziative e progetti; ci si prova, nonostante le risorse non siano mai abbastanza.
Come ci ricorda Save the children ‘L’istruzione rappresenta la chiave e la possibilità per conoscere e costruire poi una propria idea di mondo e di futuro. È un diritto sancito dalla Carta dei diritti dei bambini (CRC – Convention on the Rights of the Child). Lo è perché è lo strumento più valido per combattere povertà, emarginazione e sfruttamento’ (aprile 1922).

Riflettere su questi temi mi ha riportato alla mente alcuni incontri che ho avuto negli ultimi anni e che ora vedo sotto una luce nuova, quella della trasmissione intergenerazionale di competenze e sapere, ed anche di una sorta di give back, restituzione appunto, alle nuove generazioni.
Può succedere, per esempio, di innamorarsi dell’insegnamento apparentemente per caso, come mi ha raccontato un laureato in fisica matematica, una mente meravigliosa, apparentemente incagliata nel sogno della ricerca per tutta la vita. Qualche incidente di percorso lo ha rimbalzato, durante la fuga dai contesti aziendali, proprio nelle aule degli adulti delle scuole serali. Lì ha scoperto quanto non sia poi così male lavorare come insegnante, stare accanto a chi ha trovato solo tardivamente la motivazione a completare o coronare gli studi, e soprattutto sperimentare l’urgenza di segnalare loro l’irregolarità della stessa matematica. Trascorre gli intervalli a rispondere alle domande dei suoi allievi, domande, come le definisce lui, terribilmente pertinenti.
Questo giovane ha scoperto che ci si può appassionare proprio laddove si temeva di sperimentare la noia mortale e, casomai, ottenere nello stesso periodo un pre-printing della prima pubblicazione che probabilmente potrà fare la differenza nei prossimi concorsi da ricercatore. I paradossi della vita, nella loro straordinarietà, ci colgono a volte proprio quando ci abbandoniamo al suo apparente non senso.

Un altro incontro significativo riguarda invece un giovane professore di matematica che, al mondo accademico, ha preferito la docenza al liceo. Dopo un percorso radioso di dottorato, contrassegnato da esperienze internazionali, nasce l’idea di una virata e la scelta di lavorare per rendere accessibile la sua amata disciplina agli studenti delle classi che gli sarebbero state assegnate.
È stato non solo confortante ma piacevolmente sorprendente ascoltare il racconto della sua cura e dedizione nel correggere i compiti degli allievi; l’analisi speleologica condotta per rintracciare, anche negli elaborati più disperati, tracce di processi logici che consentissero di dare valutazioni, non solo meno severe, ma davvero coerenti con il livello di preparazione dei ragazzi!
Certo non è stato semplice confrontarsi col mondo di ragazzi che si trovano alle superiori quasi per caso, con vissuti e visioni delle relazioni interpersonali quanto meno complesse ed ostiche; con la burocrazia intrecciata, in modo quasi inestricabile, all’insegnamento nella pratica quotidiana.
Nulla di tutto ciò lo ha fermato, ha affrontato altri concorsi e incontrato talvolta incomprensioni verso la sua visione di insegnamento ma ha conquistato il suo posto.

Ho avuto poi l’opportunità di vedere una neolaureata in Sociologia, studiare ore per arrivare preparata e pronta alle sue prime docenze nei suoi primi corsi di formazione aziendale! Assetata nell’apprendere dai colleghi anziani, propositiva nella modernità del suo pensiero avanguardistico, con l’atteggiamento fiero di chi sente fortemente l’urgenza di produrre un vero cambiamento con il proprio lavoro. L’ho sentita, parallelamente, raccontare con gioia, anche se stremata, i piccoli successi nel lavoro apparentemente insolito di aiuto cuoca in un contesto sostenibile, in realtà assolutamente coerente con le sue scelte ambientaliste coniugate con lo sguardo sociologico sulle professioni del futuro.

Più racconto queste storie e più me ne vengono in mente, come quella del ragazzo che è riuscito a portare un allievo non vedente a far canestro! Nel raccontarsi ricostruisce un aneddoto: lui era il bambino che, quando arrivava a scuola la mattina, diceva all’insegnante ‘Cosa facciamo di bello oggi?’. Dopo aver girato il mondo registrando eventi sportivi nazionali ed internazionali, torna alla scuola anche per metter su famiglia. È un po’ in ritardo sui punteggi per le graduatorie, fatica a conquistar supplenze significative, sopravvive in pandemia, riparte andando ad insegnare scienze motorie in un Istituto in cui non c’è neppure la palestra. Porta i ragazzi al parco, scopre sul territorio strutture con cui costruire convenzioni per portarli a correre, giocare, far sport in sicurezza. Stremato riesce a raggiungere la supplenza annuale nel suo Comune nelle scuole elementari dove finalmente, fanalino di coda in Europa, anche in Italia è stato inserito l’insegnante di Educazione motorie.

Se questi vissuti sono il risultato di anni di così grande confusione nel mondo valoriale degli adulti di riferimento, possiamo pensare che, nonostante tutto, dalla vita scolastica e sociale si continui ad apprendere. Ciò che viene trasmesso, come da vero mandato educativo, riguarda allora non solo la sfera dei contenuti, ormai di complessità e ampiezza estrema, ma anche l’area valoriale, ‘passionale’, creativa e produttrice di cambiamento.




Fame di vita vera

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

La vitalità, attitudine a vivere in modo autonomo, serve ad affrontare con grinta difficoltà e imprevisti nella quotidianità, e consente di gustare appieno scoperte, sorprese, conoscenze. Ma cosa l’attiva? Quali trigger la innescano? Ho visto, piuttosto accidentalmente, un video in cui un medico asiatico rianimava un neonato…

Quasi ipnotizzata, ho osservato lui e la sua equipe compiere atti rapidissimi, senza fermarsi un attimo, sinché il bimbo non ha cominciato a reagire tossendo ed ha iniziato finalmente a piangere. La vita è esplosa in lui quasi come per incanto, una specie di on/off, prima non c’era e poi d’improvviso è stato, era vivo.

In un viaggio caotico in treno verso il mare ho visto due giovani, pieni di desiderio, arrotolati l’uno nell’altro, baciarsi avidamente: la vita pulsava di passione.
Quella stessa energia vitale sembrava animasse una piantagione di granturco verdissimo sotto il sole di mezzogiorno. Ma era vita vera, ci avrei giurato, anche quella nei piedi di due anziani per mano, con l’acqua di mare alle caviglie, alla luce della luna, dolcissimi, freschi come teenagers.

L’ho avvertita anche nelle foto inviatemi da una giovane paziente: mi rendicontava una piccola vacanza costruita nelle avversità della separazione, conflittuale, dei genitori. Mi descriveva angoli lacustri rintracciati con tenacia nei pressi dell’abitazione di una zia e mi ricordava con ardore d’essere in partenza per una vacanza studio in Scozia, impresa per cui aveva combattuto con i denti sino allo stremo delle forze. Che spettacolo!
Vitalità, energia, cercala dove ti pare. Ma cercala. Non smettere mai di cercarla. Il nostro cervello ne ha bisogno per portare il corpo là dove vuole andare, per realizzare i sogni di ogni giorno, per amare, creare, imparare, costruire. Anche questo nessuno ce lo insegna. Forse un tempo non era così necessario ma ora sembra davvero utile, quasi indispensabile, sapere dove e come recuperare vitalità, energia psichica.

È suggestiva, in questo senso, la proposta di Kawaguci (2022) con ‘Il primo caffè della giornata’: “Dentro ciascuno di noi esiste la capacità di superare ogni genere di difficoltà. Ognuno possiede quell’energia. Ma a volte, quando questa energia sfugge attraverso la valvola dell’ansia, il flusso si restringe. Più grande è l’ansia, più forza serve per aprire la valvola che libera energia. Questa forza è potenziata dalla speranza. Anzi, si potrebbe dire che la speranza è il potere di credere nel futuro”.

Un primo trigger allora potrebbe essere un evento gradito o favorevole che si realizza, un’aspettativa, un’aspirazione, un sogno che si avvera. Come la vacanza insperata della giovane Giada, la piccola gioia procurata dalla percezione dell’acqua alle caviglie dei due anziani, ma anche la promozione inaspettata di Giorgio, ragazzo con disturbi specifici di apprendimento, ammesso all’esame di maturità con riserva, che esplode nelle prove, esprimendo al massimo le sue potenzialità, perché un docente gli esterna tutta la fiducia che ha in lui! I trigger, dunque, non sono solo casuali, ma possono essere creati intenzionalmente.

In una ricchissima mostra dedicata ai progetti svolti dai ragazzi durante l’anno, c’era una sezione dedicata ad un’attività incentrata sul benessere e sulle emozioni. I ragazzi avevano realizzato dei podcast direi su una decina di emozioni anche se una sola era positiva, la gioia. Ci avevano lavorato insieme, non era stato facile ed ora era lì a portata di orecchio per chiunque avesse la pazienza e curiosità di sedersi un attimo ed ascoltare, assorto, essere travolto e cominciare a sorridere, a sperare che i nostri ragazzi ce la potranno fare, dopo l’estate e forse anche più in là.

Un altro modo sperimentato di trasformare l’ansia in energia positiva è quello di prendere di petto i problemi e affrontarli in modo radicale e deciso. Se agisci il prima possibile, accelerando i tempi, riduci le possibilità di ripensamento, eviti quel continuo ruminare di pensieri che è alla base di eccessive preoccupazioni.
In diverse occasioni mi sono trovata nella stanzetta dedicata allo sportello d’ascolto o nel mio studio ad aiutare i ragazzi nell’organizzazione dello studio per superare l’angoscia di non farcela. Ogni volta sorpresa dal fatto che non sapessero che potesse aiutarli contare le pagine da studiare, dividerle per il numero di giorni che precedevano la verifica, o non avessero mai riflettuto su quale fosse il momento del giorno più favorevole allo studio, o come utilizzare i motori di ricerca, che loro subiscono, passivamente, ogni giorno, per recuperare, invece, attivamente, riassunti, sintesi, film, lezioni brevi…insomma tutto ciò che esiste sulla rete per poter arrivare più preparati alle interrogazioni nel minor tempo possibile, padroneggiando davvero gli argomenti di studio. E, durante quei venti o quaranta minuti di colloquio ho potuto vedere tante volte le loro guance riprendere colore, distendersi i lineamenti… tornare a vivere, per poi reincontrarli sorridenti nei corridoi o alla seduta successiva soddisfatti dei propri risultati o miglioramenti.
Come dice spesso provocatoriamente Matteo Lancini, psicoterapeuta che si occupa da tempo di adolescenza, forse non bisognerebbe proibire l’uso dei cellulari ai ragazzi ma insegnar loro veramente ad usarli per affrontare il futuro.

Nell’ultimo corso di educazione all’affettività, quest’anno, la proiezione nel futuro dei ragazzini di quinta, espressa attraverso il disegno, riguardava soprattutto e per la prima volta, il tempo libero anziché, come negli anni passati, tanti anni passati, la realizzazione lavorativa o familiare e relazionale. Questa è l’eredità lasciata dal lock down, la scoperta del tempo per sé stessi.
Durante i colloqui con i ragazzi che stentavano a riprendere lo studio o non riuscivano ad entrare o restare a scuola, dopo la fine della didattica a distanza, ricorreva il loro spiegarmi che avevano bisogno di tempo per le loro cose da fare, le loro passioni, spesso on line, come vedere video, ascoltare musica, leggere libri (ma non quelli indicati dai docenti), oppure stare con gli amici, uscire, stare fuori casa, costruire e rompere legami, piangere per le persone perse.

“È come se le persone,” come denuncia con chiarezza Natalia Aspesi (La Repubblica 4 agosto 2023) “in mezzo a una guerra, alla paura dell’atomica, alla fine della Terra, al futuro pauroso, sentissero il bisogno di verità” di vita vera, di un sapere scelto autonomamente o piuttosto, addirittura “di un dolore umano e comprensibile, di una disperazione vera.”
Queste preziose considerazioni sembrano collimare con quanto emerso in un progetto sulla dispersione scolastica[1] nel torinese.

Erano stati condotti incontri di gruppo con composizione eterogenea per cercare di lavorare alla costruzione di una comunità scolastica permanente e i ragazzi avevano vissuto esperienze guidate di apprendimento tramite competenze trasversali (danza, sport, arte, cultura).
Durante gli incontri i ragazzi avevano, cioè, sperimentato attività non competitive in sport e danza, attività sull’identità personale e sulla dispersione, avevano riflettuto sulla propria percezione di scuola, lavoro e futuro. Durante il follow up sono emerse alcune interessanti opportunità di apprendimento derivate dalle attività: saper lavorare insieme e confrontarsi grazie all’interazione con persone di età diversa dalla propria, essere più motivati grazie ad attività pratiche e nuove, imparare (facendo, più che scrivendo o ascoltando) a comportarsi, ad ascoltare e conoscere gli altri, a capire ‘com’è la vita’.
Stare con i compagni di età diverse aveva permesso loro di confrontarsi su percezioni diverse, di capire come affrontare l’ansia del futuro ascoltato i più grandi, più navigati. Si era verificato un passaggio di consegne rispetto alla gestione della scuola che i grandi avrebbero lasciato a breve, c’era stata una trasmissione di esperienze nel fronteggiamento dello stress dei docenti, ma anche la costruzione del sogno di una scuola migliore, più green, più attiva e laboratoriale, meno orientata alla prestazione e più al benessere collettivo. Una curiosità? Alla domanda se fosse utile la presenza dello psicologo nella scuola, in mezzo al grande assenso, un’affermazione condivisa: ne hanno bisogno persino i docenti perché sono sempre troppo stressati!

[1] Star bene a scuola per costruire il futuro. Un progetto di educazione comunitaria per contrastare la dispersione scolastica. Due incontri esperienziali tra arte, cultura, psicologia, sport e danza per approfondire i senso dello star bene a scuola e…nel mondo. IC Settimo II.




L’amore per chi resta. Riti di passaggio

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Da tempo volevo cercare di affrontare il tema dei processi che si articolano attorno all’esperienza del lutto e della morte, era nell’aria da mesi, era nei discorsi dei ragazzi, nei disegni dei bambini, nei visi inespressivi di chi mi parlava, esprimendo rassegnazione e senso di precarietà.
Poi ho incontrato Marybel dai dolci sorrisi, che mi chiedeva come preparare i suoi tre bambini alla incombente dipartita della nonna tanto amata, e l’urgenza è diventata necessità, ma una necessità che conteneva anche la chiave di lettura: l’amore per chi resta.
Spesso gli adulti, presi nella morsa del loro dolore e dalla negazione per difendersi da quanto sta accadendo, dimenticano la necessità del bambino di elaborare il proprio lutto.
Per proteggerlo dal dolore e dall’angoscia, cercano di tenerlo all’oscuro, a volte perfino d’ingannarlo su ciò che è accaduto o sta accadendo.
Il bambino può percepire però d’essere stato imbrogliato (A.Marcoli,2014), può imparare a non fidarsi dei grandi e a non mostrare il proprio vero sentire; può costruire teorie bizzarre sulla vita e la morte, a volte altamente patogene. Al contrario, il bambino, la bambina vanno supportati e accompagnati nel tempo e nello spazio per capire, esprimere ogni emozione (stupore, curiosità, dolore, angoscia, paura, rabbia, senso di colpa o d’impotenza…).
A volte possono persino pensare d’esser loro i ‘colpevoli’, allora occorrerà rassicurarli, parlar loro dell’inevitabilità della morte e del fatto che non verranno abbandonati a breve anche dagli altri adulti cari.

Costruire con loro riti di passaggio aiuta a costruire senso! Permettere loro di partecipare ai momenti commemorativi, può aiutarli ad imparare o ricordare che dopo la caduta delle foglie arriva sempre la primavera.
I momenti in cui ci si trova in famiglia, ad elaborare un lutto comune, sono preziosi per la loro forza integrativa nella mente di ognuno (C. De Gregorio 2011).
Rimangono in memoria come momenti tristi, ma, paradossalmente, anche felici. La mancata elaborazione del lutto invece può comportare malessere psichico duraturo e può avere conseguenze pesanti sulla salute mentale della persona e dei suoi discendenti, come risulta da ricerche e psicoterapie (P. Roccato 1995, 2013).
Durante un corso di formazione in ambito bioetico, con immenso dolore, un medico ci raccontò d’essere stato escluso, da bambino, dal poter partecipare al funerale del padre, di aver attribuito questa decisione alla madre e di averla detestata tutta la vita per questo. Con l’aiuto dei compagni di corso ragionammo sull’eventualità che la madre fosse stata mal consigliata e che nel pieno del suo dolore avesse inutilmente cercato di proteggerlo da ciò che già lei, probabilmente stava sentendo come insostenibile. Insieme, tra le lacrime, facemmo pace con quei suoi ricordi che purtroppo avevano condizionato in modo significativo la sua relazione con la madre. Gli augurammo di riuscire a recuperarne almeno una parte.
Favorire l’elaborazione del lutto è dunque fondamentalmente fare prevenzione primaria e ‘preparare un bambino ad affrontare gli avvenimenti dolorosi della vita vuol dire aiutarlo a camminare in modo più leggero verso il futuro’ (A. Marcoli 2014).

Con Marybel siamo arrivate un pochino in ritardo e ora la bimba mezzana sta patendo tutti i processi separativi, problematizza l’andata alla scuola materna, si aggrappa al nonno, è triste ed arrabbiata ma sta cominciando a ricevere alcune risposte dai genitori, guarda il cielo e nelle stelle ritrova la nonna, le sta dedicando un libricino con foto, disegni, ricette che sta raccogliendo insieme alla mamma. Ci vorrà del tempo per far pace con questo evento naturale ma inaspettato e prematuro.
Anche ora, dopo la pandemia servirebbe un rito di chiusura ed elaborazione di quello che abbiamo vissuto per più di due anni, proprio per circostanziare gli eventi nella loro eccezionalità.
Nei primi mesi di quest’anno, all’interno di un progetto a contrasto della dispersione scolastica, ho chiesto ai ragazzi di una scuola media di parlarmi delle loro preoccupazioni. È emersa una grande paura per il futuro imperscrutabile e per la possibilità che vengano a mancare i propri cari.

L’aver preso coscienza della realtà della morte, con immagini e conteggi 24 ore su 24 durante la pandemia, ha strutturato in loro una sorta di angoscioso terrore.
A questo purtroppo si aggiunge anche la ricezione continua di stimoli e informazioni dai social, ad altissima velocità, cui sono esposti, e che accorcia enormemente i tempi del presente e del futuro, sollecitando con urgenza il soddisfacimento dei bisogni e la realizzazione degli obiettivi, con aspettative altissime.

Le ricadute più frequenti però sembrano essere una quasi totale perdita di senso e una caduta energetica vistosa, in alcuni casi persino estrema, come ci indicano i dati crescenti relativi ai suicidi.
A volte, raccontano, scappa il senso dalle giornate, sembra non esserci un buon motivo per muovere un passo, parlare, sorridere. Si sente il bisogno disperato di saper cosa fare per ricominciare, per smettere di sopravvivere ma fuori nulla li attrae o li accende. Spesso si rischia di pensare di non essere amati, ma in realtà non si sta più amando e questo genera distanza sociale. Si dice che per superare le crisi sia necessario attraversarle, guadarle, ma in quei momenti sembrano paludi stagnanti, senza possibilità di movimento. Sembra che nessuno possa aiutarli, passargli il boccaglio con l’ossigeno.

Lo racconta proprio così Federica, giovane neolaureata in cerca di prospettive in questo momento di stagnazione economica.

————————————————————————————————

Le fronde degli alberi che si muovono cullate dal vento mi regalano sempre una gioia profonda. Questo però durante il giorno. Di notte quel fruscio mi mette inquietudine, come se qualcosa di strano o minaccioso si stesse avvicinando. Un po’ come il Nulla di Fantasia.
Questa metafora non è scontata nel momento in cui mi trovo a fare i conti con un profondo radicamento a terra dei miei piedi, mentre il mio sguardo ha introiettato una visione esterna, periferica, quasi aerea sul mondo. Lucida e a volte disillusa. Preoccupata e un po’ rassegnata. Mi sembra di essermi accorta che viviamo tutti in una finzione o in tante finzioni, che poco valga la pena, che questa vita e questo pianeta poco hanno di definito e sono preda delle coincidenze, del caso, così come lo siamo noi e i nostri destini. Poco è certo, se non che questa vita smetterà di battere, quella dei miei cari anche, spero il più tardi possibile, e anche quella della nostra specie, una tra le tante, del pianeta.

Non sono, non siamo più il centro.
Questo mi fa sentire vagamente persa. Sto cercando di capire il momento in cui si è rotto qualcosa, e cosa sì è rotto. Se quando l’estate scorsa è morta la mia gatta Tigra o già prima, non saprei. Ho perso un po’ di senso e mi sembra di vedere tutto sotto una strana luce ridicola, come se quello che facciamo, costruiamo, viviamo non fosse che una copertura, un nascondere la vera realtà, la finitezza, l’insensatezza, l’incertezza.
Molte cose ancora mi danno benessere: una bella fioritura, gli uccellini, gli affetti e gli amici veri, forse l’unica ragione sensata, la danza ed i piaceri semplici, come la lettura, il sorriso di un’allieva, uno studio ben riuscito, le fragole.
Ma sono tipicamente più triste. Non ho perso la luce negli occhi ma se ne è aggiunta un’altra più spettrale. Nonostante questo continuo a rifugiarmi nella cura del cibo, del corpo, dei miei interessi e dei rapporti, nella preoccupazione sul futuro, sul lavoro…
Definire cosa sia il superfluo, capire se esiste un’essenza. Come si fa a vivere sereni dopo una scoperta così? Come hanno fatto filosofi e poeti? Forse l’accettazione di questa realtà, della malattia, del nonsenso, della povertà, della morte, del non controllo se non futile possono aiutare a vivere meglio…godendo dei piccoli piaceri transitori (se l’agnosticismo non mi inganna), del soddisfacimento di un bisogno proprio o dell’altro, della realizzazione di un compito ben svolto, del mare, dell’amore.
Mentre cerco il pezzo rotto, vorrei provare a soffermarmi di più, a contemplare, registrare immagini e sensazioni, amare più consapevolmente e più profondamente, tenere stretto ciò che posso, vivere; che è l’unica cosa che siamo nati per fare.
————————————————————————————————

Ho provato a spiegarlo ai ragazzini delle Medie, che si sentono isolati nelle classi, rifiutati, non visti. Spesso, loro stessi, evitano, non vedono, non parlano con i compagni, non permettono agli altri di conoscerli. Abbiamo costruito cartelloni con i loro desideri per il futuro, per una scuola nuova, per un lavoro un po’ più a misura d’uomo. Ora i loro lavori sono in mostra e speriamo contamino un po’ anche gli adulti!
Se notiamo qualcosa che non va, troppa rabbia, silenzio, sonno, apatia nei nostri vicini di vita, anche se purtroppo in questo momento siamo tutti un po’ a corto di energia psichica, proviamo a pensare che si può fare un po’ di staffetta, senza esagerare, ogni tanto prendendo fiato, mentre l’altro, arrancando guadagna qualche metro… Forse in due, in tre… forse insieme possiamo provare, galleggiando, nuotando a pelo d’acqua, a raggiungere l’altra riva, ma insieme, senza perderci troppo di vista.

Come ho consigliato proprio ieri ad una mamma turbata dal cambiamento umorale del figlio, in un contesto di vita connotato da frequenti lutti familiari, possiamo tentare di riempire ancora la nostra storia di vitalità, allargando lo sguardo sugli altri, sul mondo che pulsa.




Semi di fiori per farfalle

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone

Mi è sempre piaciuto lavorare con altre persone e da chi ho incontrato ho imparato tantissimo: fare scelte controcorrente e tuffarsi in avventure coraggiose, non temere i furti di ingegno e non invadere spazi altrui, ma anche accogliere la stima e la fiducia per costruire opportunità. Proprio per la gratitudine che sento per questi e altri apprendimenti, che sono stati vitali nella professione, vorrei provare qui a rilanciare il tema della collaborazione tra colleghi e professionisti e spargere semi per fiori che richiamano farfalle. Esiste davvero questo tipo di semi e il risultato è stupefacente. Li regalai la primavera scorsa ad una delle docenti più accogliente e integrante che abbia mai incontrato, e chissà, una delle prossime volte vi racconterò anche cosa stiamo combinando insieme!

Intanto vi vorrei segnalare come nei contesti scolastici e sanitari stia avvertendo folate di demotivazione, disinvestimento emotivo, ansia gestionale, cinismo, finanche disperazione. Dopo anni silenti, descritti soprattutto attraverso termini come flessibilità, liquidità, mobbing, molestie sul lavoro, precarietà, nei contesti lavorativi oggi ricompare il termine burn out.
I giovani non sanno neppure di cosa si tratti ma noi ce lo ricordiamo bene! Una forma di esaurimento o surriscaldamento, legato ad una condizione di stress lavorativo protratto e intenso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo associato anche a demotivazione, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, difficoltà di concentrazione, irritabilità, senso di colpa, mancanza di iniziativa, assenteismo. A livello fisico può manifestarsi invece con emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Coniato nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da un particolare tipo di reazione allo stress; sperimentata dagli operatori sanitari e poi estesa ad altre categorie di “helping profession”, fra cui le professioni sanitarie: medici, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari; venne studiato soprattutto negli anni ‘80 e ‘90 (Maslach e Jackson,1981). Poi si capì che riguardava anche tutto il mondo scolastico!

Tra le risorse per fronteggiarlo allora si enumerava soprattutto la formazione e infatti proprio in questi mesi stanno ripartendo mille progetti nelle aziende e non solo. La risorsa principe è sempre stata in realtà far gruppo o squadra, come si diceva negli anni ’90 (Quaglino, Casagrande, Castellano 1992). In sostanza si proponeva di reggere insieme le fatiche, scambiare strategie, creare soluzioni e sviluppare le potenzialità diffuse… ‘con-dividere’ cioè possedere insieme, partecipare insieme, offrire del proprio ad altri.

Azioni, competenze che sicuramente possono giocare un ruolo fondamentale in qualsiasi campo lavorativo, si sa; eppure, anche nella pratica didattica risulta difficile, talvolta, condividere con altri una propria esperienza o un proprio modo di fare. Entrano in gioco le nostre competenze sociali: saper avviare, sostenere e gestire un’interazione di coppia o di gruppo, spontaneamente e con continuità. Ciò che in realtà proponiamo e valutiamo anche nel lavoro con bambini e ragazzi!

Si tratta di competenze naturali ma anche oggetto di apprendimento, dunque, potenziabili attraverso attività che riguardano la percezione di sé, l’ascolto, la rappresentazione sociale, il gruppo. Questo per tendere a diventare un po’ come musicisti jazz che “ascoltandosi reciprocamente e ascoltando sé stessi, sentono in che direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il loro modo di suonare…” (D. A. Schön, 1983), cercano cioè di armonizzare la propria prestazione con gli altri, al fine di contribuire tutti al meglio all’opera che stanno producendo.

Questo, che sembra un atteggiamento quasi magico, è in realtà applicabile in ogni contesto lavorativo. Qualche anno fa ho partecipato ad un progetto[1], che ricordo spesso e a cui sono grata[2] ancora oggi. Un gruppo multiprofessionale nell’area canavese, cui partecipavano educatori, insegnanti della scuola d’infanzia, assistenti sociali, psicologi… Da che mi occupavo di formazione e supervisione, si trattava di una situazione pressoché unica nel suo genere!

Ci siamo conosciuti, abbiamo cercato di costruire un linguaggio comune, abbiamo discusso insieme di situazioni davvero complesse, condividendo tutto il possibile in termini di competenze e sapere, ci siamo sostenuti gli uni gli altri nei momenti più difficili (perdita del lavoro, smembramento di team, cambi di sede…) e sui temi più sfidanti (morte, abuso, dipendenze…). Un’esperienza di comunità scientifica[3] che ho sempre sognato di vivere e respirare.

Poi è arrivata la pandemia e allora ci siamo inventate un sostegno a distanza e abbiamo riflettuto su come stessimo vivendo un periodo così anomalo. Volevamo tornare nel mondo reale per cambiarlo almeno un po’ e far fronte con forza e coraggio ai prevedibili contraccolpi che sarebbero arrivati nel medio e lungo periodo. La speranza di poter eliminare il distanziamento era diventata quasi un’urgenza emotiva e cognitiva. Ma c’era anche il desiderio di reinventare l’essere educatori. C’era la consapevolezza di non voler scendere a compromessi, la fiducia nel cambiamento e la capacità stoica ed organizzata di reagire. Ci siamo salutate prima dell’estate e approfitto di questa sede per ringraziare ancora tutte e tutti!

Pensare a loro mi ha fatto ricordare come il primo gruppo di cui sia occupata veramente sia stato quello dei bambini e ragazzini del mio cortile. Nel turn over tra piccoli e grandi, per un’estate, ero rimasta l’unica un po’ più grande con una masnada variopinta di cuccioli. Ci siamo divertiti un sacco e si sa, anche in una sola estate, siamo cresciuti davvero tanto insieme.

Nella mia vita ho svolto davvero tanti mestieri, frequentato tanti contesti e tanti gruppi, crescendo ogni volta un po’. Il percorso con questo gruppo multiprofessionale del Canavese è stato tutt’altro che banale. Diversissimi ma uniti da un solo centro, i bambini, abbiamo ‘giocato’ insieme a lungo e con passione. E sono cresciuta ancora, perché dagli altri si impara sempre e dai bambini di più! Spero sia stato così anche per loro.

In un periodo storico di individualismo estremo, ho imparato di nuovo che insieme si arriva più lontano e si costruiscono cose nuove, che prima non c’erano. Ho imparato che ascolto a racconto viaggiano sempre insieme, che quando si sbaglia strada si può tornare indietro e ripartire, che è meglio se si fa a turno nel prendere la posizione di guida, che quando si brancola nel buio, ma si è in tanti, ad un certo punto arriva sempre qualcuno con un po’ di luce, con un sorriso, con una speranza, un’idea.

Buon lavoro e buona vita a tutte le farfalle con cui ho volato!

[1] Progetto Cipì – Canavese Insieme per l’Infanzia
[2] Ringrazio in particolare Reginaldo Palermo per avermi messo in contatto con questo prezioso Gruppo di Lavoro
[3] Alcuni di questi brani provengono proprio da quell’esperienza durata alcuni anni.