di Monica Barisone
STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE
Come tutti gli anni, a maggio, ho incontrato ragazzini e ragazzine delle quinte classi primarie per ragionare insieme di affettività, fiducia e sessualità. L’intervento aveva l’obiettivo di aprire un confronto e una riflessione su questi aspetti basilari della costruzione dell’identità personale, in concomitanza con l’ingresso nella pubertà. Si è trattato non soltanto di passaggio di informazioni ma soprattutto di co-costruzione di uno spazio di ascolto attivo volto a domande, curiosità, paure dei minori, ma anche degli adulti, relative a questi temi. Si è lavorato anche accostando l’area della tutela e della prevenzione del maltrattamento e dell’abuso, e approfondendo i temi del consenso, dell’immagine corporea, e delle diversità di genere[1].
Questa attività rappresenta, per me, da anni, un bagno di realtà rinfrescante e rinvigorente durante il quale scopro nuovi orizzonti. Quest’anno mi sono imbattuta in una temuta conferma, la scomparsa del futuro nel loro immaginario.
Nel rappresentare sé stessi ‘da grandi’, infatti, più della metà di ragazze e ragazzi ha raffigurato la propria persona, in versione di giovane adulto, con uno sfondo generico, il vuoto, o un vago panorama cielo/terra. In modo esplicito, uno di loro, ha proprio scritto di non sapere cosa farà ma ha anche indicato la probabile vera risposta che sentiva nella testa: ‘I do nothing!’, il niente, lo zero. Emergevano qua e là, negli altri disegni, ipotesi di vita familiare e genitoriale, desideri lavorativi e in alcuni casi la presenza degli amici di sempre accanto a sé, raffigurazioni, queste, che invece avevano costituito per anni la maggior numerosità.
Sappiamo tutti quanto sia importante la progettualità del futuro per crescere, inventare, costruire sé stessi e il mondo di relazioni oltre al mondo reale da vivere. Sappiamo quindi quanto possa essere pericoloso questo percorso a breve gittata, che rischia di girare quasi in tondo. Con la collega sociologa ne abbiamo parlato anche con i genitori, cercando di ingaggiarli nella sfida di continuare a progettare il futuro proprio e dei figli, di non vivere alla giornata ma continuare a sognare e desiderare per loro e per sé stessi..
Dal progetto finlandese When I grow up, coordinato da Susanna Heugenhauser (2021), per esempio, emerge come, dando importanza alle soft skills, i bambini possano acquisire maggiore fiducia in sé stessi e guardare al futuro con maggior fiducia, ma soprattutto manifestare, a distanza, una maggiore spinta motivazionale.
È proprio con la mancanza di quest’ultima spinta, energia, che mi sono confrontata, infinite volte, quest’anno, lavorando poi con i ragazzi delle superiori. Più e più casi di difficoltà a frequentare regolarmente la scuola, ad affrontare costantemente le prove di valutazione, la frustrazione del voto insufficiente, il cumulo di pagine, i contenuti da studiare e memorizzare in modo sovrapposto, da recuperare con verifiche che si accavallano, all’inseguimento della sufficienza, del semaforo verde per procedere.
Li ho visti cercare, e non trovare, la motivazione per dover affrontare tutto questo, tutti i giorni. Mi hanno raccontato del corpo e della mente che sceglievano invece di restare a letto, non far nulla, dormire, scrollare, guardare serie tv, inutili riempitivi di un vuoto incolmabile. Ho lavorato con loro a frammentare il carico di lavoro, a ricominciare partendo dai compiti più semplici, a cercare le soluzioni specifiche per i diversi problemi da risolvere materia per materia…con la sensazione di svolgere una funzione quasi riabilitativa o rieducativa. Una strana sensazione ancora oggi da definire. Ho scritto relazioni descrittive della situazione di questi ragazzi e ragazze per i vari, corrispondenti, Coordinatori di classe, che hanno accolto, collaborato, capito.
Molti ragazzi e ragazze ce l’hanno fatta, di altri ancora non so.
Mi sono chiesta però, ad un certo punto, come fosse accaduto che la scuola fosse diventata un luogo di tormento, misurazione giornaliera delle competenze, qualcosa da rifuggire per la difficoltà di conquistare, alla prima prova, un esito positivo e comunque corrispondente almeno allo sforzo impiegato percepito dai ragazzi. Convincerli ad accontentarsi anche di una insufficienza non grave, ma d’essere soddisfatti d’essere riusciti ad andare a scuola senza panico o disturbi viscerali, non è stato facile. Il loro must era riuscire alla prima, bene e con il minimo sforzo.
Ho maturato la preoccupazione, il dubbio che sia aumentato lo scollamento tra corpo docente e ragazzi, tra obiettivi contenutistici, passione per il sapere e trasmissione delle competenze a vivere.
Ammetto che sia difficile capirli, perché i salti generazionali, con l’accelerazione tecnologica, creano oggi dislivelli abissali, loro oltre la luna e noi ad inseguirli in mongolfiera. Quel disegno però, eseguito chiacchierando di cosa significhi crescere, contiene tantissime informazioni da cui poter partire che costruire un ponte e provare a capire quel loro nothing disarmante.
Stare e sperimentare coi più piccoli, ragionare e ascoltare con i più grandi, talvolta ci permette di sentire che qualcosa sta crescendo, che qualcosa sta succedendo, che possiamo farne parte insieme…che non c’è sempre da trasmettere o spiegare ma c’è anche solo da stare, osservare…in silenzio la crescita, sentire la vita che vive.
Durante i nostri incontri sull’affettività, i bambini in aula, in cortile o in palestra, mi hanno raccontano la fatica della loro confusione, della scarsezza di regole tra le competenze genitoriali, della solitudine fisica e mentale, dell’antagonismo estensivo, del loro bisogno di silenzio e calma, di capire come vivere l’amicizia o il rapporto tra fratelli.
Nel frattempo, potevo respirarli; Elisa cercava di ricomporre il bracciale di perline che mi si era rotto ad inizio lezione, e intanto mi raccontava le sue disavventure, Andrea lanciava a sorpresa, nella sua neurodivergenza, perle di saggezza e opinioni profondamente tristi sulle sue dinamiche familiari. Qualche giorno dopo Laila mi raccontava del suo restare on line sino alle tre perché non riesciva a dormire, per poi a scuola crollare miseramente. Si discuteva tutti insieme su come scendere a compromessi con abitudini insidiose.
In un’altra classe, poi, continuava l’incanto perché Claretta mi confidava che dopo le nostre chiacchierate in colloquio, pensava meno a che papà non c’era più; che se sentiva la musica si distraeva ed era felice. Il suo sorriso era dolcissimo e abbagliante, commovente, nel dirmi che sarebbe tornata ancora a parlare con me.
È per questo che i bambini mi mettono silenzio. Da sempre.
Prima i miei figli con la sabbia, l’acqua di mare, il profumo della loro pelle, mi hanno insegnato a crescere; ora mio nipote, che gioca ad imparare il mondo, si appoggia, mi tocca, intreccia con me i fili della fantasia. Intessuti e attorcigliati a loro, tutti i bambini e i ragazzi che ho incontrato, che mi hanno lasciato entrare nel loro spazio di vita, che hanno comunicato, condiviso, restituito, ringraziato, accolto, abbracciato, vissuto il tempo assieme.
Ed io da sempre, incantata, nel silenzio del nostro essere, stare nella confidenza, in quello spazio vitale, vivifico, a percepire, sentire la vita che vive. Ringrazio.
[1] Barisone, Albo, Progetto II Circolo Settimo Torinese, 2025