Riceviamo a volentieri pubblichiamo le acute osservazioni di Luigi Saragnese a commento di un nostro articolo.
Tutta l’iconografia che è possibile reperire in internet sui simboli degli Arditi nella Ia Guerra mondiale rimandano a tre immagini-simbolo:
Il pugnale
Il teschio, con o senza pugnale tra i denti
Il gladio romano, spesso ornato da rami di quercia e di alloro
Nelle pagine che ho consultato non ho trovato immagini della fiamma, simbolo degli Arditi della Ia guerra mondiale, come invece affermato nella ricerca, ad eccezione del disegno, nelle mostrine delle divise, di una fiamma nera, più simile, però a quella dell’Arma dei Carabinieri. Il disegno della fiamma tricolore che più si avvicina a quello del MSI compare, invece, nel simbolo del Rassemblement national populaire[1], uno dei partiti collaborazionisti della Repubblica filo nazista di Vichy di Petain. Continua a leggere→
di Simonetta Fasoli
Premetto che ho molto apprezzato l’analisi di Mario Ambel, su cui largamente concordo.
Ciò premesso, non vorrei sottrarmi all’impegno, contratto anzitutto con me stessa, di dare qualche contributo nel merito, nella convinzione che il concorso di più voci può arricchire lo scambio e sostenere il percorso delle scuole.
Per cominciare: l’edizione del documento diffusa ieri è stata contestualmente inviata al CSPI (a proposito: il testo ministeriale di presentazione sul sito ufficiale parla di CNPI, designando l’organo consultivo con la vecchia denominazione: una “svista” da correggere…).
Si tratta di un restyling non proprio pleonastico, come bene argomenta Ambel, evidenziando le modifiche apportate e i rispettivi risvolti.
Detto questo, mi sembra opportuno fare qualche riflessione su ciò che, invece, resta fermo rispetto al testo diffuso giusto tre mesi fa e oggetto di un ampio dibattito nel mondo culturale e professionale della scuola e della ricerca.
È interessante, dunque, andare a vedere “cosa” resta e “perché” siano state tracciate proprio quelle soglie: ci aiuta a capire ulteriormente il senso politico-culturale dell’operazione.
Cosa resta, dunque? Io direi l’IMPIANTO, su cui molt* di noi, critici “a ragion veduta”, avevano da subito sollevato molte questioni ed esposto altrettanti dubbi. Se è l’impianto il problema, un restyling, per quanto avveduto nei suoi singoli interventi, non può essere e non è la soluzione.
Se l’impianto, nei suoi tratti essenziali, configura un’idea ben precisa di scuola, di educazione, di strutture sociali e di professionalità, e ne emerge nel suo insieme un profilo di INEMENDABILITA, che lo rende irricevibile, allora non basta una revisione ragionevole e, per gli estensori non meno che per i committenti, per così dire “a costo zero” in termini di ricadute politico-culturali.
Se questo è lo stato dell’arte, cosa resta da fare se non attrezzarsi per affrontare le fasi che si aprono?
Nel titolo di questo mio contributo, ho scritto che “Il diavolo è nei dettagli”. Per uscire dalla metafora che appartiene al detto popolare, vorrei aggiungere che l’insieme dei dettagli compone un disegno, e una struttura (l’impianto, appunto…).
Ho attentamente letto le parti del testo che, nel loro articolarsi, costituiscono una sorta di “Premessa”.
E ho seguito un criterio di lettura analogo a quello che ho adottato, ai fini di un’analisi circostanziata, a stretto giro dalla diffusione della prima edizione (11/12 marzo): ho insomma cercato le “spie” culturali e dunque anche lessicali che tre mesi fa indicai nei miei contributi sulle IN 2025 (scritti, relazioni, interventi pubblici…). Continua a leggere→
Si è parlato in questi anni molto del Debate e delle sue potenzialità didattiche, formative, ma anche agonistiche. Il fiorire di tante iniziative formative e di molti tornei di Debate, anche di livello nazionale e internazionale, richiedono però di fermarci un attimo, per fare, con calma, un passo indietro, chiedendoci perché abbiamo dedicato tanto tempo (ore scolastiche, ore di formazione, ore di attività extracurricolari) al Debate.
E perché abbiamo dedicato e stiamo dedicando altrettanto tempo alla valutazione del Debate, nella sua forma competitiva. Stiamo dedicando tanto interesse al Debate per la sua struttura tecnica di “gioco di squadra”, di “sport didattico”, oppure per il suo significato di SENSO?
Qualora si riconosca in questa seconda direzione, quali domande si pone chi si avvicina al Debate? E quali risposte ha trovato? Chi ha lavorato sul Debate e col Debate ha riscontrato una certa utilità per il suo ruolo di insegnante e in rapporto al miglioramento dell’apprendimento dei suoi studenti e delle sue studentesse?
Individualizzazione e personalizzazione sono due termini che possono sembrare simili oppure, addirittura, sinonimi. In realtà, le due parole racchiudono concetti molto differenti, anche se, entrambe le strategie di intervento didattico, hanno come fondamento la centralità del soggetto che apprende e le sue potenzialità.[1]
L’individualizzazione si riferisce a “quella famiglia di strategie didattiche il cui scopo è quello di garantire a tutti gli studenti il raggiungimento delle competenze fondamentali del curricolo, attraverso la diversificazione dei percorsi di insegnamento
La personalizzazione si riferisce a “quella famiglia di strategie didattiche la cui finalità è quella di assicurare ad ogni studente una propria forma di eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie potenzialità intellettive”.[2]
La pedagogia Freinet sostiene l’importanza dei processi di individualizzazione a fronte di pedagogie più tradizionali che preferiscono parlare di personalizzazione. Ma qual è la differenza fra i due approcci pedagogici all’apprendimento? A volte i due termini sono usati indifferentemente, a volte se ne sostiene uno a scapito dell’altro.
Ci sono però almeno due discriminanti a favore dell’uno ma con degli accorgimenti per evitare il prevalere di un tipo di proposte univoche e due elementi che fanno dubitare dell’efficacia del secondo pur nel riconoscimento di una valenza a determinate condizioni dell’altro.
Con Antonio Brusa, Franca Da Re, Raffaele Iosa, Cinzia Mion e Aluisi Tosolini proponiamo una lettura critica e meditata del documento sulle Nuove Indicazioni 2025.
Non ho voluto ascoltare nessun intervento di quanti hanno partecipato al raduno organizzato da un giornale, il cui editore fa buoni affari con le industrie militari, disgustato e preoccupato per gli 800 miliardi previsti per le armi, che in gran parte saranno pagate con la devastazione di quel poco che ancora esiste di stato sociale nelle nazioni europee. Non so quindi se hanno affrontato il tema delle radici cristiane dell’Europa, che di tanto in tanto viene richiamato e riproposto per designare una delle differenze più significative rispetto ad altre culture e ad altre civiltà.
Differenze in meglio per intenderci…Considerato che prima o poi verrà ripreso in vario modo anche a scuola, provo a dire qualcosa con gli strumenti a mia disposizione, chiedendomi innanzitutto se abbia ancora un senso nel terzo millennio parlare di Europa cristiana e in che cosa consista questa sua specifica connotazione.
Finora la riflessione che si è svolta su questo tema impegnativo è oscillata tra nostalgia, rifiuto e tentativi di imposizione. Alcuni ne hanno parlato come se non ci potessero essere valori senza Cristianesimo.
Se appare immotivata la riduzione della civiltà europea alla storia e ai valori del Cristianesimo, tuttavia non è ragionevole pensare che si possa cancellare ciò che ad ogni piè sospinto ci ricorda la sua continua, millenaria presenza tra gli uomini che hanno abitato la terra d’Europa. Continua a leggere→
La sola, paradossale consolazione, derivante da una profonda conoscenza del nostro sistema scolastico, è data dalla speranza che le “Nuove Indicazioni” seguano il corso delle precedenti, incomparabilmente più evolute sotto il profilo, culturale, pedagogico, didattico, ovvero che restino lettera morta, sopraffatte dalla granitica autoreferenzialità della scuola reale.
Va anche detto che di queste nuove indicazioni non vi era alcun bisogno, semmai si sarebbe dovuto cercare di rendere operative le precedenti, così come non vi è alcun bisogno di una nuova Costituzione, ma di dare piena applicazione alla vigente, giusto per fare un esempio non peregrino.
In questo caso, dunque, potrebbe essere non del tutto disdicevole la portentosa capacità, propria di un’organizzazione a “legami deboli e trascurati” (Pietro Romei), come è la nostra scuola, di neutralizzare qualsivoglia istanza di cambiamento, nel bene più che nel male, restando indefettibilmente ancorata alle logiche e alle ritualità dell’apparato burocratico.
Nondimeno, turba il richiamo a principi e valori che potremmo definire reazionari, segno di tempi bui, tenebrosi. Continua a leggere→
Uno degli aspetti che più inquietano dell’universo culturale italiano risuonante negli ultimi giorni è lo spaesamento rispetto ad alcune categorie che ci pareva fossero sufficientemente acquisite.
Più o meno davamo per scontato che sposare ideologie identitarie, fossero esse nazionali, confederali o legate a definizioni come “Occidente”, producesse un arroccamento che azzerava le differenze, buono per andare in guerra, per creare nemici o capri espiatori, per rinforzarsi nella propria immagine lasciandone in ombra gli aspetti meno dignitosi, ma non certo utile per comprendere se stessi e gli altri, per accorgersi di ciò che dei presunti altri è in noi, per costruire relazioni e non scontri.
Negli ultimi giorni vediamo e ascoltiamo interventi che vanno in questa direzione, osserviamo una cultura del “noi” avanzare e affermarsi in modo inedito, attraversando inaspettatamente confini politici e culturali spesso ritenuti (forse a torto) distanti tra loro.
Prendiamo l’intervento di un noto cantautore ex insegnante, Roberto Vecchioni, che alla manifestazione del 15 marzo Una piazza per l’Europa afferma: “Vogliamo parlare di un gruppo di stati che vengono dalle stesse cose, dalle stesse tradizioni, siamo tutti indoeuropei, abbiamo avuto una filologia romanza, parliamo allo stesso modo, ci guardiamo allo stesso modo, abbiamo gli stessi proverbi, modi di dire, pensieri […] abbiamo libertà ovunque, abbiamo la democrazia, ma quella non ce l’hanno tutti, ce l’abbiamo noi. Che è un’invenzione […] dei Greci, che è arrivata fino a noi. Ora, chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico: io vi dico Socrate, vi dico Spinoza, Cartesio, vi dico Hegel, Marx e vi dico anche Shakespeare, vi dico Cervantes, vi dico Pirandello, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?[…]”
Davvero dobbiamo circoscrivere la nostra identità culturale all’uso delle “nostre tradizioni”, richiamare l’identità “indoeuropea”, sentirci superiori e unici nel mondo per una presunta ubiqua libertà? Davvero possiamo ignorare non solo le tradizioni culturali degli altri continenti ma soprattutto cancellare senza remore l’intenso intreccio che esse hanno creato con quella che viene definita “nostra” cultura? Continua a leggere→
La pedagogia Freinet è nata dall’esperienza del maestro francese Célestin Freinet e di sua moglie Élise. Fin dall’inizio Freinet ha condiviso la sua esperienza pedagogica con i colleghi promuovendo la nascita di un movimento il cui principio di fondo è la cooperazione. La cooperazione non è un semplice aiuto reciproco ma un modo di mettere in relazione l’emancipazione di ciascuno con quella della collettività. Il libro ricostruisce il percorso che, nell’arco di un secolo, ha visto l’evoluzione delle esperienze di Célestin Freinet e del movimento da lui promosso fino alla costruzione di un vero e proprio sistema pedagogico alternativo alla pedagogia tradizionale fondato su un ambiente organizzato (una comunità al servizio del ragazzo e che lui stesso contribuisce a far vivere), sulle tecniche (conversazione/presentazione, testo libero, corrispondenza, giornale, ricerca matematica libera, ricerca d’ambiente, …) e su materiali messi a disposizione per realizzarle. La valutazione, soprattutto formativa, non è segnata da continui controlli collettivi ma è praticata per “unità di valore” (brevetti, capolavori) ed è individualizzata. In un momento storico segnato dall’aumento delle disuguaglianze e dalla crisi del vivere insieme è quanto mai attuale una pedagogia fondata sulla formazione all’autonomia personale e al senso della collettività al fine di costruire un futuro migliore per tutti.
E’ prossimo ad uscire un importante libro di Enrico Bottero sulla pedagogia Freinet.
Le Rsu nella scuola hanno preso il via nel 2000.
Le elezioni, previste in un primo tempo per il 1999, furono rinviate di un anno per poter dare inizio all’avvio della stagione dell’autonomia con la nuova figura del Dirigente scolastico ( titolare tra l’altro della contrattazione di istituto) appena istituita con il decreto legislativo n.59 del 1998..
Una scelta giusta e motivata perché con le Rsu non solo i lavoratori nella scuola avrebbero finalmente trovato il modo di autorappresentarsi, tutelarsi, strutturarsi come forza vitale di partecipazione e protagonismo ma avrebbero anche costituito un giusto contrappeso ai nuovi poteri del Dirigente scolastico.
A distanza di 25 anni, una riflessione approfondita su questa esperienza , sarebbe credo di grande utilità per rafforzarla e valorizzarla ulteriormente, nell’interesse di tutte le figure professionali.
Gli insegnanti in particolare, dimostrarono con le loro scelte e una partecipazione al voto molto alta, che il tempo delle vestali della classe media era concluso: Potremmo dire oggi che si affermarono le nuove vestali della scuola della Costituzione: per una scuola democratica, liberatrice, per l’affermazione del diritto all’istruzione per tutti a cominciare dai più deboli. Continua a leggere→